- Dialoghi Mediterranei - https://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
Spigolature dall’arcipelago Sicilia, terra spinosa dai dolcissimi frutti
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 02:45 In Cultura,Letture | No Comments
Mi riecheggiano, suggeritemi dalla lettura dell’ultimo lavoro di Lucio Zinna [1], le parole di un “gigante” della nostra Isola, Gesualdo Bufalino, che sarebbe stato bello e doveroso – nell’anno del centenario della nascita – poter diversamente omaggiare: «[…] le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle» [2]. Non una constatazione, non un monito; un invito semmai ad addentrarci, ad esplorare, ad aggiungere ulteriori tasselli alla conoscenza di una terra spinosa, ma dai tanti dolcissimi frutti, come del resto sembra voler suggerire anche l’immagine stilizzata della pianta di fico d’India, impressa sulla copertina di Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito [3]. Pubblicato da Mimesis nella collana «Sisifo» [4], l’agile volume di Zinna, saggista e poeta di estrema sensibilità, si presenta come raccolta di profili bio-critici, prodotto di un lavoro di selezione e revisione di taluni contributi dedicati ad autori siciliani del Novecento, già proposti in precedenti occasioni: un’operazione condotta sul filo della memoria che ricalca e richiama quella già effettuata anni dietro con La parola e l’isola [5].
«Rinverdire la memoria di chi non ha più memoria (o, bene che vada, una scolorita memoria) tra i vivi è, oltre che un tributo risarcitorio, un atto di gentilezza» [6], ha scritto Antonino Cangemi recensendo le Lettere siciliane, opportunamente sottolineando come la gentilezza sia cifra distintiva dei poeti, schiera alla quale Zinna appartiene a buon diritto [7]. E di ritratti e spigolature di poeti non difetta la raccolta, nella quale Zinna include autori dentro e fuori circuito, celebrati oppure obliati, voci della letteratura emersa come di quella sommersa (in forza di mai del tutto trasparenti «giochi del potere alto-editoriale») [8].
Così quella delle sue Lettere siciliane è operazione risarcitoria, oltre che memoriale, lontana dalle luci della ribalta, dal «clangore di tube», dalla «volatilità dei borsini letterari» [9]. Si comincia dalla fitta corrispondenza tra Antonio Pizzuto [10] e Salvatore Spinelli [11], due amici che si confrontano a suon di stilettate, ma con affetto vero e curioso humour, sul comune mestiere dello scrivere, uniti da reciproca stima, divisi da differenti prospettive estetiche. Radicale fu la concezione di Pizzuto: da Ravenna in avanti ogni unità narrativa nella sua bottega letteraria appare definitivamente franta, lasciando spazio a una pluralità di voci narranti, fino all’evoluzione verso forme che prevedono la rinuncia ai connettivi logici e il passaggio a una sintassi esclusivamente nominale, con l’eliminazione perfino della categoria del verbo in quanto opposta al nome [12]. Spinelli si trovò disorientato di fronte ai manoscritti di Pizzuto, lamentando mancanza di organicità e un simbolismo che gli riusciva oscuro, mentre Pizzuto si arrischiò addirittura a riscrivere un intero capitolo de Il mondo giovine, conferendo un diverso ritmo narrativo all’impronta di Spinelli che non potè che manifestare disappunto per l’invadenza dell’amico [13].
Si continua con Ignazio Buttitta [14], la cui opera poetica si dispiega lungo tutto il Novecento, tracciando con la forza e l’immediatezza del dialetto un secolo di storia sociale, politica, culturale della Sicilia: le lotte contadine e i conflitti mondiali prima, la lotta alla mafia e l’avversione al nuovo ordine post-bellico poi. Un tempo da lui, poeta di piazza e d’azione, vissuto rigorosamente nella militanza, reagendo in versi alle dittature, dando voce al disagio economico delle classi subalterne, credendo nella possibilità di un mondo migliore: ha cantato la speranza e la memoria, ma nell’epilogo del suo lungo percorso di vita e di scrittura, con la saggezza di chi ha visto sfilare davanti a sé tutte le stagioni con sogni e delusioni, non ha potuto fare a meno di vedere negli uomini dei pupi di negghia, autentici «fantasmi» che hanno colpevolmente smarrito «sangue e voce» [15].
Nella galleria disegnata da Zinna non poteva mancare Salvatore Quasimodo, in un quadro che merita un’attenzione supplementare. Del Premio Nobel per la Letteratura [16], egli sceglie di tratteggiare un aspetto non completamente indagato e, per molti versi, scivoloso, quello legato alla connotazione etico-religiosa della sua poesia: una dimensione – non si manca di rilevare – che sussegue alla stagione ermetica, caratterizzata dalla poesia pura e dalla poetica della parola [17], caricandosi di accenti immanentisti, con insistenza sui temi della solitudine radicale dell’io dinanzi al cosmo e dell’inquietudine causata da un vivere contemporaneo sempre più deumanizzante, il primo di natura esistenzialista, il secondo di valenza segnatamente sociale [18]. Sulla scorta di Neria De Giovanni – la quale aveva intuito nella parabola artistica quasimodiana una «storia etica profonda» riconducendola ai temi del dolore e della morte che, inizialmente «trasfigurati nel mito, possono farsi storia, si fanno storia a volte» [19] –, Zinna pone l’accento sulla tendenza all’oltrità [20] di alcune opere del poeta modicano, citando in particolare la lirica Un arco aperto, da La terra impareggiabile [21].
Non può sfuggire nel testo la presenza di tessere (“il canto chiuso del chiù”) che dialogano con il Pascoli de L’assiuolo (“tintinni a invisibili porte: che forse non si aprono più?”, con la relazione istituita tra il dato fisico del suono prodotto dalle cavallette e la realtà metaforica di varchi immateriali che, schiudendosi, consentono l’accesso al mistero). Il “Qualcuno verrà” dell’ultimo verso – suggerisce Zinna – da un lato chiude il componimento, dall’altro lo apre ad una «significazione escatologica» [22]. E pare più che opportuna – riattraversando in cerca dell’elemento religioso le tappe evolutive della parabola poetica di Quasimodo, da Acque e terre [23] ad Oboe sommerso [24], da Erato e Apollion [25] a La vita è un sogno [26] – la ripresa di un giudizio di Zago, per il quale la dimensione del sacro è «aspetto importante dell’anagrafe culturale dello scrittore» [27].
Importante ancorché sfuggente a precise definizioni, ci permettiamo di aggiungere; del resto, lo stesso Quasimodo, mentre nel discorso su Il poeta e il politico ebbe a dire – come ricorda l’autore di Lettere siciliane – che «il fattore religioso può spingere ancora a imprigionare l’intelligenza dell’uomo» [28], qualche anno dopo, nella famigerata intervista a Ferdinando Camon, volle precisare che nella sua visione – causa di dissidi con la sinistra politica – il problema religioso perteneva al Dio cristiano: «Non si può pregare un Dio generico», affermò con perentoria sentenziosità [29].
L’avvertimento di un’insufficienza del vivere, da cui ha origine l’intuizione religiosa, deve estrinsecarsi in un «tu»; pertanto, è necessaria un’esperienza intima e personale: sottratto a diatribe di natura politica, sembrerebbe esser questo il nucleo centrale del problema religioso in Quasimodo, «pur nel suo riluttare» – tornando alla interpretazione zinniana – ad un’«adesione aperta a religioni rivelate» [30].
Sempre sul versante della poesia, ma stavolta tra gli scrittori fuori circuito, incontriamo Orazio Napoli, autore mazarese dall’indole solitaria [31] che, ventiquattrenne, andò in cerca di miglior fortuna a Milano, dove lavorò come correttore di bozze per Mondadori, entrando poi a far parte del gruppo dei cappotti lisi, insieme a scrittori e critici di talento, tra cui Leonardo Sinisgalli, Salvatore Quasimodo, Sergio Solmi, Alfonso Gatto, Giuseppe Marotta e Cesare Zavattini. Le sue poesie sono dense di nostalgia per la terra natia, nel segno di un’intensa sensualità e del legame, mai dissoltosi, con il mare [32]. E se Rolando Certa aveva fatto notare che l’umiltà era sempre stata la sua «ambizione» [33], Zinna – sulla traccia di Solmi – ne coglie gli aspetti antiretorici, agli antipodi della maniera, ad esempio, di Luzi, e lo definisce poeta della concretezza per «l’asciuttezza dei suoi versi», la ricerca della «parola precisa e decisa», il «linguaggio prosciugato e comunicabile, che fa leva su un sapiente gioco delle immagini» [34].
Il penultimo dei profili bio-critici della raccolta è dedicato a Castrense Civello [35], come Buttitta poeta di Bagheria, centro particolarmente caro a Zinna, che ivi risiede: amico di Marinetti, aveva fatto parte negli anni giovanili del movimento futurista ed era poi approdato, negli anni Settanta, al Gruppo Beta, che – formatosi «per effetto delle suggestioni del Gruppo 63» [36] – guardava più alla beat generation americana che alla neoavanguardia nostrana, puntando su una ricerca sperimentale non fine a se stessa e manifestando l’esigenza di un rinnovamento del linguaggio nel solco di un neo-umanesimo che coglieva nell’automazione e nella robotizzazione elementi in grado di produrre un potenziamento delle capacità umane [37].
E nel segno delle neoavanguardie, sullo sfondo della Palermo di inizio anni Settanta, tra passione e ideologia, si chiude questo interessantissimo libro di Zinna, che richiama per l’occasione il quaderno di Vittorio Riera su Gruppo 63 e Antigruppo [38], con intervista a scrittori che si muovevano su binari estetici diametralmente opposti: da un lato Salvatore Di Marco, per cui l’operazione letteraria andava considerata «al di là dell’impegno e del disimpegno» [39]; dall’altro Pietro Terminelli, che identificava nel marxismo l’«unico termometro dell’arte» [40].
Resta da dire su due fra i massimi pensatori nel panorama della cultura novecentesca, non solo dell’Isola: Santino Caramella, filosofo e storico della filosofia, genovese di nascita, ma siciliano d’adozione [41], uomo di vastissima cultura, del quale Zinna segnala un importante scritto critico sulla poesia apparso nel 1965 [42], concepito dunque all’interno di una stagione di intenso dibattito per la città di Palermo sulla cultura artistica; e Virgilio Titone, figura di intellettuale poliedrico e non allineato, del quale Zinna ricostruisce la parabola narrativa con grande lucidità, avvertendone e segnalandone la contiguità e il debito col mestiere dello storico [43].
Dalla “storia” alle storie: questo il più che eloquente sottotitolo del capitolo su Titone, che fu non soltanto eminente studioso di storia moderna e contemporanea, ma filosofo della storia attento ai fenomeni economici, sociologo (sebbene questa dimensione un po’ la contestasse, giudicando la sociologia serva della storia) [44]; ancora, pubblicista ed estensore di note di costume, oltre che acuto critico e, appunto, narratore [45].
Le sue molte anime si intrecciarono particolarmente negli scritti sulla Sicilia, con riferimento sia a quelli di taglio storico che agli altri di marca narrativa: Titone fu un osservatore quanto mai acuto della realtà isolana, proprio perché riuscì a compenetrarne le tante declinazioni. Ravvisò nel vittimismo e nell’assenza di imprenditorialità i caratteri peculiari (in negativo) del popolo siciliano, analizzò la questione meridionale, ma ribaltò l’ottica dalla quale osservarla e, coniando la formula di «questione settentrionale», mostrò che il connubio tra malaffare e politica riguardava lo Stivale tutto [46].
Portò sulla pagina letteraria – evidenzia Zinna, curatore dell’edizione postuma de I racconti [47] – una Sicilia che era «ancora quella delle miniere di zolfo e del duro lavoro dei carusi» [48]. E non si può tacere come, a distanza di un secolo dall’esperienza verista, la Sicilia permettesse ancora certi ritratti: Titone fu abile a restituire l’immagine di una terra il cui «elemento archetipico» era ancora il baglio [49], ferma al mondo contadino, più che proiettata verso quella crescente industrializzazione che già dalla metà degli anni Cinquanta interessava la Nazione. Lo fece attraverso una scrittura riflessiva, dai toni pacati eppure «icastica», una scrittura pregna di realismo in cui «dialogano impulso vitalistico e senso della morte» [50].
Ben più profondi attraversamenti potrebbero e dovrebbero compiersi sulla scorta delle Lettere siciliane di Lucio Zinna, per la valenza emblematica delle figure e delle vicende richiamate e offerte a più generale significazione della ricchezza artistica di una terra complessa e travagliata come la Sicilia. Una cosa è certa: chi vorrà misurarsi con queste pagine, certamente ne apprezzerà non solo il valore critico e documentale, ma il rigore e insieme la fluidità di una prosa saggistica che sa andare all’essenza.
______________________________________________________________
______________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/spigolature-dallarcipelago-sicilia-terra-spinosa-dai-dolcissimi-frutti/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.