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Storie di trovatura. Etnografie dell’oralità e antropologie letterarie
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2019 @ 01:19 In Cultura,Letture | No Comments
di Giuseppe Giacobello [*]
Di leggende plutoniche in Sicilia, di mitologie popolari su tesori nascosti in luoghi inferi e sottoposti a “incantesimo”, dunque di truvaturi o ‘trovature’, com’è in uso nell’italiano regionale letterario, ho già scritto su questa rivista in due occasioni. Nella prima (DM 32, 2018), recensendo un libro di Marcella Burderi e Alessandro D’Amato (Il sacrificio di Clementuzzu. Storie e leggende di tesori nascosti in Sicilia, Ragusa 2018), mi sono ricollegato alla documentazione inquisitoriale ecclesiastica e a quella della giustizia laica d’età moderna (secc. XVI-XX), che hanno visto impegnati studiosi come Marisa Sofia Messana, Melita Leonardi e Pier L. J. Mannella. Nella seconda circostanza (DM 34, 2018), ho richiamato la stagione demologica “classica”; quella, per intenderci, secondo-ottocentesca e primo-novecentesca, a cui riconducono anche le ventiquattro annate dell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (1882-1909), i diciotto fascicoli della Rivista delle tradizioni popolari italiane (1893-1895) e le migliaia di schede della Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia, 1881-1916); in particolare, tuttavia, l’intervento era incentrato sui contributi di Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino e sul centinaio di attestazioni di miti tesaurici che dobbiamo alle loro ricerche. Direttamente o indirettamente, erano così coinvolte due delle fasi storiche a cui restano legate le principali attestazioni delle leggende plutoniche popolari e delle relative implicazioni cerimoniali.
Col prosieguo del XX secolo, qualche novità emerge dalle ricerche svolte negli anni Venti, in provincia di Caltanissetta, dall’antropologa americana Charlotte Gower Chapman o da altre testimonianze sparse lungo gli anni Trenta, come quelle di area catanese dovute a Salvatore Lo Presti e Santo Calì. Sul piano interpretativo abbiamo poi diversi interventi di Giuseppe Cocchiara (1936, 1937, 1949, 1950), peraltro non limitati al contesto isolano. Per quanto riguarda il rinnovamento della ricerca “sul terreno”, bisogna attendere invece gli anni Cinquanta e i Sessanta, quando un singolare contributo è fornito dall’esperienza politica di Danilo Dolci, a proposito della quale, con il senno del poi, è possibile ravvisare non poche delle riflessioni etnoantropologiche intorno al concetto di ‘osservazione partecipante’, ancora lontano dalle revisioni critiche dei decenni successivi.
Tra i risultati editoriali di quella vicenda, uno dei più rappresentativi per impostazione teorica, metodo di realizzazione e restituzione testuale è Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco nella Sicilia occidentale (Torino 1960, con fotografie di André Martin). La struttura dell’opera rispecchia un convincimento ricorrente nell’autore: rispetto ai principali problemi sociali di cui erano afflitte le zone indagate (miseria economica, carenza igienico-sanitaria, arretratezza tecnologica, violenza mafiosa, corruzione politica, analfabetismo, disparità di genere), la cultura dei ceti popolari, da Dolci avvicinata con rispetto esistenziale, non disponeva di autonome risorse capaci di attivare un incisivo cambiamento; occorreva pertanto lavorare sull’autoconsapevolezza della gente interessata (da qui la maieutica o l’assemblearismo non violento) e al contempo estendere l’interesse su quei luoghi, invitando a collaborare esperti di diversi campi e di diversa provenienza (da qui gli appelli a intellettuali, scienziati, artisti nazionali e internazionali). Spreco restituisce questa duplice visione rispetto ad alcune aree esemplari (Cammarata, Menfi e Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento; Corleone e Roccamena, in provincia di Palermo), con quattro sezioni che presentano ogni volta, in efficace simmetria, una parte di Racconti-documenti, con cui è data “viva voce” alle testimonianze locali (alcune soltanto annotate, altre audioregistrate e poi trascritte, tutte in genere tradotte), e una parte di Monografie, con inchieste affidate a specialisti di vari ambiti, dall’economia all’ingegneria, dall’agraria alla medicina.
Nella prima sezione (Nelle zone di Cammarata e Palma di Montechiaro), si ritrova uno spaccato quotidiano implicato in costrizioni matrimoniali, frane ed erosioni dei terreni, caporalato, conflittualità e prepotenze comunitarie, carenze alimentari, emergenze sanitarie, e rielaborato in chiave magistica secondo un orizzonte ideologico che già pochi anni prima Carlo Levi ed Ernesto de Martino, per il Meridione in generale e per la Basilicata in particolare, avevano segnalato al dibattito nazionale; mentre sul piano internazionali qualcosa di analogo è dispiegato di lì a poco in celebri interventi di George M. Foster su alcune comunità messicane.
Nel libro di Dolci l’immaginario sui tesori nascosti affiora mentre si passano in rassegna le risposte di ordine terapeutico-cerimoniale con cui si tentava di fronteggiare una precarietà esistenziale tra le più problematiche dell’area euro mediterranea di allora; risposte a proposito delle quali l’autore, desideroso di lasciare emergere le credenze in relativa autonomia testimoniale, riporta anche brani dell’incontro avuto con un “guaritore specialista”. Ne riporto uno stralcio rappresentativo per contenuto e modalità di trascrizione:
Tra gli anni Sessanta e i Settanta arriva la campagna nazionale di audio-registrazioni sulle Tradizioni orali non cantate, promossa dall’Archivio etnico-linguistico-musicale (AELM) della Discoteca di Stato (oggi Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi – ICBSA). Per la Sicilia ci sono ricerche di Antonino Uccello, Maria Perciabosco, Nino Motta, Elsa Guggino; e proprio da quest’ultima sono rintracciati tre utili documenti: Trivatura: un tesoro indicato da un omino con berretto rosso si trasforma in gusci di lumaca (AELM 83 SIC C Bivona, AG, 4, 1969); A truvatura: il tesoro nel pozzo e quello nella grotta (AELM 83 SIC C Bivona (AG) 8, 1969); ‘A truvatura (AELM 83 SIC A2 Lercara, PA, 36-37, 1969).
Più di recente, insieme a studiosi interessati alla narrativa popolare siciliana nel suo complesso, correlazioni tra storie di tesori e altri campi di credenza sono documentate soprattutto da Macrina Marilena Maffei per l’arcipelago eoliano, con un cospicuo repertorio di audioregistrazioni (in buona parte depositate presso AELM-ICBSA), trascritte, tradotte e inventariate secondo l’indice internazionale dei motivi narratologici. La studiosa ne ha fornito diversi riscontri soprattutto in tre pubblicazioni cadenzate nel tempo: Capelli di serpe. Cunti e credenze delle isole Eolie (Roma 1995), I confini irreali delle Eolie. Spiriti e diavoli nella tradizione orale (Palermo 2002), La danza delle streghe. Cunti e credenze dell’arcipelago eoliano (Roma 2008).
Accanto ai percorsi precedenti, sono anche da considerare le interpretazioni letterarie prodotte nella seconda metà dell’Ottocento e per tutto il Novecento. L’esegesi da dedicare alle opere degli “scrittori d’arte” può condurre a convergenze o ad altrettanto significative divergenze con la produzione scritta dei contemporanei studiosi di antropologia. E viceversa: la conoscenza antropologica, apertasi da diversi decenni alla considerazione critica delle sue produzioni discorsive, può estendere la sua autoriflessione ripensandosi anche dietro le tante maschere finzionali della conoscenza letteraria.
Limitandomi al settore dei racconti brevi, ne segnalo intanto nove, in ordine cronologico, su cui sto elaborando una prima comparazione: Luigi Capuana, Gli scavi di mastro Rocco, 1888; Federico De Roberto, La “trovatura”, 1889; Luigi Pirandello, Dono della Vergine Maria, 1899; Luigi Capuana, Il tesoro nascosto, 1906; Francesco Lanza, Re porco, 1927; Leonardo Sciascia, La trovatura, 1961; Vincenzo Consolo, Filosofiana, 1988; Silvana La Spina, Truvatura, 1992; Andrea Camilleri, La trovatura, 2011.
A monte di questo parziale repertorio, bisogna tenere presente come il rapporto tra letteratura italiana e ricerca etnografica, demologica o folklorica abbia riguardato soprattutto: attività di osservazione e di “rilevamento” svolte da letterati; studi su fenomeni d’interesse etnografico rappresentati in opere artistico-letterarie dedicate, in tutto o in parte, al mondo popolare; studi comparativi su modelli di scrittura, poetiche e retoriche a sostegno sia della critica dei testi etnografici e artistico-letterari dedicati al mondo popolare sia della revisione dei “discorsi” antropologici. Non si tratta di drastiche alternative, dato che singoli temi e autori consentono integrazioni, se addirittura non le impongono. Valgano, a questo proposito, quei testi che in anni precedenti la svolta “antropologico-interpretativa” (consolidata, tanto per capirci, da opere geertziane come Works and Lives, 1983, oppure dalla famosa collectanea Writing Culture, 1986) sarebbero apparsi soltanto come ibridi narrativi, perché di certo sollecitati da interessi demologici ma trasposti con scritture artisticamente intensificate – «amplificazioni» letterarie le avrebbe chiamate Pitrè – rispetto ai canoni espositivi delle coeve etnografie; mentre oggi potrebbero essere ricompresi in una storia complessiva delle scritture demologiche regionali, e nel relativo quadro critico. Per il tema di cui mi sto occupando, sempre e soltanto per il racconto breve e limitatamente alla Sicilia, richiamo alcuni esempi collocabili in questa direzione limitrofa: Vincenzo Linares, Il masnadiere siciliano, 1841; Faustino Maltese, Cala Farina, 1873; Ugo Antonio Amico, Chianamusta e Sant’Elia o Il tesoro nascosto e la Bellina, 1886; Michele Alesso, Il tesoro di Sabucina, La Grotta del Cavallo, Petracucca, 1907; Benedetto Rubino, Sul monte incantato, 1909; Clara Scoppa, La “Trovatura” di Monte Scuderi, 1928; Filippo Siciliano, Monte Navone, 1954; Giuseppe Alaimo, Le tre leggende di Vito Soldano, 1959-60; Vincenzo Adragna, Il tesoro maledetto, 1976; Carmelo De Caro, “A trovatura”, 1995.
Per le nostre nove narrazioni esplicitamente artistico-letterarie – o, meglio ancora, di accredito finzionale meno problematico di quello che si è disposti a riconoscere nella saggistica etnografica conclamata – si deve intanto tenere conto delle collocazioni editoriali e della macro-opera di ciascun autore. Se i racconti compaiono prima o poi in ‘raccolte’, diverso è il legame, ad esempio, tra La “trovatura” di De Roberto e l’insieme dei suoi Processi verbali, o tra Gli scavi di mastro Rocco e le “novelle paesane” di Capuana oppure tra Il tesoro nascosto dello stesso scrittore di Mineo e la sua intera esperienza fiabistica. Devono poi far riflettere sia l’inclusione di Filosofiana nella struttura composita di Le pietre di Pantalica (1988) al posto di una composizione rimasta inedita, sia l’esclusione del pezzo sciasciano da quella che avrebbe potuto essere la sede di una sua plausibile riproposta editoriale (Il mare colore del vino, 1973). Non è poi ininfluente l’occasionalità dei tesori incantati in molti di questi autori rispetto al filo genealogico che sembra legare il racconto di La Spina con il suo romanzo d’inchiesta La bambina pericolosa (2008), appartenente alla trilogia catanese sullo sbirro femmina Maria Laura Gangemi; oppure rispetto al “trovaturico” Camilleri che offre continue reminiscenze (soprattutto in La bolla di componenda 1993, La forma dell’acqua 1994, Il giorno che i morti persero la strada di casa 1997, Il re di Girgenti 2001, La presa di Macallè 2003, La prima indagine di Montalbano 2004, La pensione Eva 2006, Un giro di giostra 2011, L’oro a Vigàta 2016), precisi apporti tematici in almeno tre intrecci romanzeschi (Il cane di terracotta 1996, Il cielo rubato 2009, La moneta di Akragas 2011) e centralità dinamica nella storia vigatese qui selezionata.
Si può ancora dedicare qualche riferimento ai modi in cui sono recepiti dagli scrittori tre aspetti basilari delle leggende plutoniche di ambito folklorico: predestinazioni all’insuccesso indotte da clausole beffarde e fatali infrazioni che caratterizzano quasi tutti i tentativi di “disincantamento” del tesoro; conseguenti verdetti d’incompetenza cerimoniale sanciti dalle prove temerarie condotte da comuni “predatori” sulla soglia infera, con frequente affidamento o sottomissione a insidiosi operatori esoterici; implicazioni archeologiche dei nascondigli incantati.
Non stupisce, anzitutto, l’attrattiva comica esercitata dai vagheggiamenti auriferi popolari su letterati eredi di una tradizione di beffe rinsaldata dai tempi del Novellino e del Decameron. L’irrisione è tuttavia pessimistica in Capuana e De Roberto, tendenti a svilire la credulità popolare, mentre l’antidilliaco Lanza, al contempo partecipe delle utopie rurali, finisce con rimanere sospeso, come nei celebri Mimi commentati a suo tempo da Italo Calvino, tra «stolidi isolani» e «scaltre virago» (espressioni che riprendo da Antonio Di Grado).
Generatrice umoristica si rivela anche l’asimmetria di competenze tra cavatesori popolari e sapienti cerimoniali, nel cortocircuito delle opposizioni oralità/scrittura, ignoranza/erudizione, credulità religiosa/sapienza misterica. Attraverso una teoria di sonnambule, bacchette rabdomantiche, sfere di cristallo, cabale numeriche, brogliacci paraliturgici a base di latinorum, “Rutilî Benincasa” e “Libri del Cinquecento”, scaturiscono formidabili figure di ciurmatore. Come lo spretato don Bartolo Scimpri di Pirandello: Chi diceva matto, e chi imbroglione. Eretico era di certo; forse, indemoniato. Il tugurio dov’abitava, in un suo poderetto vicino al camposanto, sul paese, pareva l’officina d’un mago. I contadini dei dintorni vi si recavano la notte, incappucciati e con un lanternino in mano, per farsi insegnare dalla sonnambula il luogo preciso di certe trovature, tesori nascosti che dicevano di saper sotterrati nelle campagne del circondario al tempo della rivoluzione; oppure come il classicista guercio don Gregorio Nànfara di Consolo: l’unico col potere a tutti noto di tòrre o imporre magarìe, predire il tempo, sentire vene d’acqua scorrenti sotto terra, leggere il passato e le venture [...], uomo fidato e saggio, che da giovane era stato in seminario, che frequentava chiese, conventi e monasteri e che sapeva di storia, poesia, d’astri nel cielo, di greco e di latino; o ancora come la maliarda Arsenia di Camilleri: maga di Zammut, chiaromante chiaroviggenti [...], ‘na quarantina minnuta, occhi nìvuri, bella vucca, taliata mistiriosa, con un turbanti in testa [...] che non priparava fatturi d’amori, non era ‘na fattucchiera.
Anche lo schieramento di questi personaggi, va da sé, risponde a distinte strategie poetiche. Se Pirandello indaga cupe connessioni tra ministero sacro e demonismo, con esiti tragici, Camilleri ribalta in satira socio-politica lo squilibrio dei campi di forza: la prosperosa Arsenia svela per amore i suoi inganni psudomagistici e li riabilita a vantaggio dei deboli, beffando un mafioso agghindato di gioielli che precipita morente in una fossa e diventa egli stesso “trovatura sepolta”, a beneficio futuro di un operaio imbattutosi lì, diciamo, per caso.
L’ambientazione archeologica degli incantesimi plutonici, in accostamento a emblematici oggetti desueti, nel senso indicato da Francesco Orlando, può riconnettere infine a varie poetiche della rovina. Svettano per sistematicità espressiva le meditazioni di Consolo a Mazzarino nel tramonto di lotte bracciantili, quelle al cospetto della selinuntina Malophòros o della cimiteriale Pantalica, come lungo tutta la sua opera, da cui posso riprendere solo pochi accenni:
Per analoga profondità speculativa, congiunta a esemplare nitidezza lessicale, s’impone anche il racconto toponomastico concepito da Sciascia e poi accantonato, con l’incipit del quale scelgo di concludere:
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