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Storie e memorie dalla Quarta Sponda alla madrepatria: da coloni in Libia a profughi in Italia
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2024 @ 01:47 In Interviste,Migrazioni | No Comments
di Giulia Castellani
Introduzione
Sebbene nell’attuale dibattito pubblico italiano non sia una tematica molto presente, all’interno della mia famiglia la memoria delle colonie non ha mai cessato di essere tramandata. Ha da sempre costituito il sottofondo dei pranzi e delle cene con i parenti, a tratti sommesso, a tratti più evidente; in gran parte articolato in frasi spezzate, iniziate e mai terminate, evocazioni elegiache di un passato ormai distante e irrecuperabile. In questo senso, il tema coloniale ha da sempre rappresentato per me una presenza e al contempo un’assenza costante.
Solo di recente, in sede di elaborazione della mia tesi nel 2022 [1], ho avuto modo di esplorare diversamente questo tema intervistando i miei nonni materni: profughi ed ex coloni di Libia. In quanto testimoni diretti, essi sono una risorsa inestimabile – fintanto che sono ancora disponibili per ragioni anagrafiche. Nonostante il progressivo tramonto delle esperienze e delle memorie vissute del colonialismo italiano non equivalga esattamente all’assenza di ricordo, il trapasso generazionale ne implica quantomeno un sensibile affievolimento. Nello svolgere delle interviste stesse mi ha colpita l’incredulità generata dal mio interesse per questo ambito: del tutto inedito per loro che non si sentono portatori di una Storia che li trascenda.
Tuttavia, bisogna tenere in considerazione i rischi connaturati a questo genere di testimonianze ascrivibili sia alla Storia in senso ampio, sia alla memoria familiare, senza cadere nell’autoreferenzialità. La dimensione di ascolto domestico le rende fonti orali preziose a cui poter attingere direttamente, eppure richiede le dovute cautele. Data la vicinanza e l’implicazione bisogna considerare il cosiddetto “potere seduttivo della memoria”, che tende a orientare la fruizione delle relazioni dialogiche. Antonius Robben[2] distingue tale “seduzione” dall’empatia che permette l’identificazione nei racconti di vita focalizzando i rischi di tentativi spesso realizzati inconsapevolmente dal testimone di persuadere il rilevatore del proprio punto di vista; a questa finalità risponde la retorica adoperata e l’accurata selezione delle argomentazioni che la accompagna. Inoltre, la categoria di “verità” va considerata alla luce della sua malleabilità rispetto alle istanze dei gruppi sociali egemonici: «Ricordare e dimenticare devono pertanto essere considerate pratiche collettive, che si incarnano nella voce dei singoli protagonisti ma si intersecano a rapporti di forza, a scelte di valore, a compromessi» [3]. In questo contesto vanno inserite le testimonianze dei due ex coloni intervistati, i quali – senza alcuna pretesa di esaustività – offrono uno spaccato peculiare dello scenario estremamente variegato della Libia fino al 1969.
Dal punto di vista metodologico, i nostri incontri sono stati articolati secondo un temario non rigido: i discorsi hanno proceduto per catene associative secondo il meccanismo proprio dell’interiorità dei soggetti parlanti, influenzati dalla struttura stessa del ricordo e dalla memoria intesa come fenomeno sociale. Bisogna riconoscere l’auto-ricognizione che avviene ad hoc all’interno del discorso provocato, volta a una rappresentazione del sé in difesa del proprio “quadro” di interessi; l’intervistato, infatti, non è chiamato semplicemente a enunciare un passato oggettivato, ma a raccontare il proprio vissuto: una dimensione in cui passato e presente si intrecciano indissolubilmente.
Pertanto l’analisi delle testimonianze non può prescindere da alcuni dati biografici fondamentali per la contestualizzazione dei discorsi riportati. Entrambi i testimoni intervistati sono nati sul suolo libico: Alessandro L. a Tigrinna (in arabo تغرنة) nel 1941 e Lidia P. a Garian (in arabo غريان) nel 1949; nel primo caso si tratta di un villaggio rurale di poco meno di duecento case coloniche, mentre nel secondo di una vera e propria città a ottanta chilometri a sud di Tripoli. Sulla base di questi dati di partenza le storie di vita in questione risultano considerabili come rappresentative della realtà semi-urbanizzata e ancora in fase di sviluppo che caratterizzava la maggior parte del territorio libico all’epoca dell’infanzia degli intervistati, elemento che influisce in maniera significativa sulla loro visione dei fatti narrati. Al rientro in Italia, dopo l’espulsione e l’esperienza del campo profughi ad Aversa, entrambi trovarono impiego nelle Poste Italiane a Latina e vi lavorarono stabilmente fino al pensionamento.
Intervista ad Alessandro L. e Lidia P. (Latina, 20.02.2022)
Prima pagina del contratto con l’Azienda Tabacchi Italiana (A.T.I.) di Vincenzo P., padre di Lidia P. contenente una prima definizione dei diritti e degli obblighi dei coloni sui terreni
Nell’esegesi delle testimonianze non si può prescindere dal considerare le dinamiche che portarono i numerosissimi nuclei familiari nelle colonie e il legame con la madrepatria che esse comportarono: come tanti altri uomini e donne alla ricerca di fortuna di fronte alla dilagante disoccupazione in Italia, nel 1931 il padre di Alessandro L. giunse in Libia con un contratto stipulato dall’ATI (Azienda Tabacchi Italiana) che certificava il possesso di un appezzamento di terreno e della casa colonica a esso annessa. Documenti e legittimazioni di questo tipo furono e sono tutt’ora un appiglio fondamentale all’interno del contesto concorrenziale e altamente instabile in cui si trovarono ad agire. Inoltre, alla rievocazione della propria terra d’origine si accompagnano l’orgoglio contadino, strettamente legato alla riconoscenza per chi aveva dato loro «l’opportunità, la casa e il terreno» [4]. Tale visione si scontrò poi con i discorsi con cui entrarono in contatto al rientro in Italia e che influenzarono retroattivamente questo genere di riflessioni post factum. Esempio di ciò è la ripresa ironica dell’appellativo con cui gli italiani erano soliti riferirsi a Mussolini in atteggiamento di rinnegazione del ventennio fascista e quindi anche della loro esperienza di vita.
Significativamente, alle proprie considerazioni sono associate anche memorie di altri, dei propri predecessori, le quali rientrano comunque a pieno titolo nella memoria autobiografica. Quest’ultima va intesa, infatti, come un variegato montaggio di immagini, sensazioni e ricordi selezionati perché considerati rappresentativi del senso complessivo del sé secondo il fenomeno del nesting postulato da Uric Neisser [5]. All’interno della rievocazione della propria esperienza diretta è, così, naturalmente innestato il racconto della visita in Libia del 1937 di Benito Mussolini:
Inoltre, alle venature paternalistiche nei rapporti con i libici e ai toni elegiaci sopracitati si unisce, dunque, un particolare legame con la madrepatria; nonostante le terre conquistate fossero presentate come parte integrante e naturale estensione della Penisola, Quarta Sponda a tutti gli effetti, al contempo dalle narrazioni affiora una rappresentazione che vede protagonista una Libia edenica, proiettata in una dimensione “altra”. La visione sedimentatasi nell’immaginario collettivo evoca scene rurali di soddisfacente semplicità, steppe semi-desertiche dal sapore primitivo, primordiale, dalla straordinaria vicinanza allo “stato di natura”. Tale realtà, scissa dal mondo italiano seppur a esso intimamente connessa, non è che lo specchio della relazione coloniale in tutta la sua congenita doppiezza.
La risposta della seconda intervistata alla medesima domanda sembra coincidere con la prima sia nella forma, sia nel contenuto. Entrambe sono volte a sottolineare l’operosità degli italiani, ormai considerata consustanziale al carattere nazionale; la costanza dell’impegno è evidenziata retoricamente tramite la ripetizione in più punti della locuzione “piano piano”, con l’intento più o meno cosciente di rendere verbalmente il lento processo di appoderamento e costruzione – in antropologia, si direbbe: di appaesamento – del quale sentono di esser stati gli attori principali. La constatazione delle migliorie apportate suppliva implicitamente alla necessità di legittimazione del proprio operato e rimandava incidentalmente alla bonarietà degli italiani, della quale sarebbe prova tangibile l’impatto positivo sul territorio. I coloni, infatti, vivevano perlopiù in comunità agricole di nuova costruzione e lavoravano su terreni della Quarta Sponda da tempo indemaniati, ma non ancora valorizzati e per questo sperimentarono a pieno la colonizzazione propagandata dal regime: né interamente capitalistica, né solo contadina, ma «schiettamente fascista e demografica, statale e popolare assieme» [6]. Tuttavia, significativamente entrambe le narrazioni si aprono con la stessa menzione incipitaria – seppur indiretta – della controparte libica, con la quale gli intervistati istituiscono un raffronto spontaneo demarcando un “prima” e un “dopo” l’arrivo degli italiani.
Costruzione dell’hotel Gebel a Garian (da sinistra a destra): Francesco Di B., Vincenzo P., Alessandro L. e un manovale arabo. Testimonianza della vicinanza sul luogo di lavoro nel contesto maschile
Sebbene tutte le descrizioni prendano le mosse dalla constatazione dell’incuria che precedette la loro venuta, è evidente che tali affermazioni derivino principalmente dal sostrato di propaganda fascista propinata a priori all’opinione pubblica piuttosto che dall’esperienza diretta. La rappresentazione che si impose all’immaginario collettivo dipingeva costantemente le popolazioni autoctone come neghittose e negligenti, incapaci di mettere a frutto il terreno secondo gli standard europei. Ciò risulta evidente proprio dall’esame delle abitazioni berbere (i ksour): gli “indigeni” non mancavano di tecnica, bensì avevano sviluppato una diversa tipologia di adattamento all’ambiente circostante, presentato come “radicalmente altro”, lavorando in funzione di esso e non contrapponendovisi. Tali modalità di territorializzazione non furono comprese, dato che non collimavano con l’ideale di progresso nell’ottica positivistica e per questo furono automaticamente collocate su un gradino inferiore nella scala evolutiva. Basti pensare al fatto che i coloni guardavano questo genere di tradizioni e pratiche dall’esterno e talvolta letteralmente dall’alto, vista l’ubicazione sotterranea delle abitazioni. Solo in alcune occasioni le costruzioni in questione sono connotate positivamente come “simpatiche” – aggettivo dall’accezione oltremodo paternalista – mentre nella maggior parte delle descrizioni compaiono riferimenti dispregiativi ai libici come “topi” o “sorci” che si nascondevano al buio delle loro tane scavate nella roccia.
Pertanto, la condizione di separazione tra i gruppi nazionali risulta evidente anche sulla base della configurazione spaziale che si verificava pressoché naturalmente in questi agglomerati. Sebbene la progettazione urbanistica della “città coloniale” prevedesse le cosiddette “linee verdi” per separare gli “indigeni” dagli spazi riservati alla popolazione bianca, alcune fonti [7] riportano un fenomeno di chiara zonizzazione anche senza coercizione o demarcazione esplicita, riprodotta su scala maggiore o minore in base al contesto:
Per poter essere comprese al meglio le vicende identitarie e relazionali in atto negli anni Cinquanta in Libia vanno ricondotte nel contesto sociale in cui si iscrissero: sul suolo libico, infatti, si incontrarono comunità di diverse nazionalità e provenienze, rendendo l’incontro con l’Altro un tratto costitutivo dell’identità di ciascuna di esse.
Battesimo di Daniele L. e ricevimento all’interno della nuova casa a Tripoli poco prima del rimpatrio, 1969
A un primo sguardo, tale convivenza appariva pacifica. Ma l’idillio descritto dai testimoni è principalmente riconducibile alla limitatezza delle interazioni tra i gruppi, circoscritte per lo più all’ambito lavorativo e dettate dalla necessità. Inoltre, la distanza tra di essi era acuita dalla barriera linguistica, la quale non permetteva scambi profondi ed era fortemente condizionata anche dall’appartenenza di genere, dal momento che il lavoro costituiva il maggior fattore di aggregazione per le due popolazioni le donne ne rimanevano quasi sempre escluse. Va aggiunto che la condizione coloniale codificava una sperequazione costitutivamente incolmabile: a un livello superiore i coloni, molto più in basso i colonizzati. Si trattava di un divario dato per scontato, che rendeva impossibile, per esempio, una competizione paritetica.
Il quadro che emerge è più complesso e articolato rispetto allo scenario monodimensionale dell’assenza di razzismo. Sebbene i rapporti fossero intessuti con spontaneità, con altrettanta naturalezza era vissuta questa separazione nella sfera relazionale e affettiva, come quella spaziale. Se da un lato i contatti con la popolazione locale erano quotidiani, dall’altro essi avvenivano principalmente per fattori esterni quali la contiguità spaziale e la necessità lavorativa.
Indipendentemente dalla differenza del vissuto dei singoli, entrambe le testimonianze sembrano essere caratterizzate dal medesimo epilogo marcatamente apologetico: al liminare del discorso, nella posizione enfatica per eccellenza, spicca la nevrotica riaffermazione dell’assenza di tensione nei rapporti. Ciononostante, le componenti discorsive che concorrono a restituire l’orizzonte di riferimento del soggetto intervistato sono da rintracciare nella presenza di un sottotesto chiaramente polarizzato, nella netta distinzione tra i soggetti collettivi “noi” e “loro”, nonché nell’enumerazione ricorrente delle varie componenti della società libica, a sottolineare la differenza identitaria di fondo. Nonostante la mutua tolleranza tra la comunità italiana e quella libica, nessuna delle due parti sembrò nutrire un particolare desiderio di compenetrazione, ma ognuna coltivò le proprie abitudini e tradizioni separatamente.
Le occasioni di festa si configuravano come le situazioni per eccellenza in cui fare esperienza della diversità. All’interno di questi contesti era possibile osservare tradizioni diverse da quelle italiane e “entrare in contatto” – seppure in modo limitato – con la cultura libica. I coloni, infatti, non prendevano parte a tutte le fasi della celebrazione, ma spesso partecipavano solo ai ricevimenti che seguivano i riti religiosi. Tale forma di esclusione, implicita all’interno dell’invito stesso, era percepita come “naturale” da entrambe le parti, a testimonianza della coscienza della differenza linguistica, culturale e religiosa. Dai racconti traspare un certo grado di distanza perfino nelle situazioni di maggiore vicinanza. Nonostante la reciprocità dell’invito sia portata come prova dei buoni rapporti intrattenuti, essa non denota alcuna particolare propensione alla compenetrazione. La pacificità delle relazioni va letta alla luce delle dichiarazioni di estraneità precedenti: cosicché, di fatto, anche durante i momenti di festa e di maggior condivisione, lo sguardo dei coloni resta esterno e su un piano di “scontata” superiorità. La situazione sociale delineatasi è assimilabile maggiormente alla salad bowl piuttosto che al melting pot: l’interesse, pur presente, per l’alterità non si traduce mai non solo in un “amalgama delle due culture” ma neppure in una interazione realmente paritetica. La Libia degli anni Cinquanta è esente da palesi scontri interetnici, ma la convivenza è caratterizzata da un conflitto latente.
D’altra parte considerare le testimonianze in questione come un repertorio di fatti “oggettivi” esporrebbe a un’inopportuna ingenuità: come già detto, va ribadito come esse rappresentino un “serbatoio di impressioni”, immagini e narrazioni impregnate di una precisa prospettiva, segnata dalla problematicità dell’attuale condizione di ex coloni e dalle necessità di legittimazione identitaria, tanto consce quanto inconsce. In una quasi totale “concentrazione sul Sé”, si assiste a una complementare obliterazione dell’Altro. Il punto di vista libico diventa “impensabile” e le sue istanze inconcepibili, al punto da scomparire dall’orizzonte cognitivo, ristretto inesorabilmente in una bolla destinata a scoppiare. In un contesto di doppiezza generalizzata, lo spartiacque drammatico e traumatico fu il colpo di stato del 1° settembre 1969.
Già il 21 luglio 1970 Muhammar Gheddafi emanò i decreti di confisca ed espulsione volti a risolvere la “questione” della presenza italiana sul territorio libico: secondo un calcolo dell’Airl (Associazione degli italiani di Libia) l’ammontare complessivo dei beni espropriati corrisponderebbe a 400 miliardi di lire del 1970, pari a circa 3 miliardi di euro [8]. Volgeva così al termine l’esperienza di uomini e donne giunti sul suolo della Libia ancor prima dell’avvento di Mussolini: cittadini del Regno d’Italia nati nelle colonie, costretti al rimpatrio in una terra d’origine alla quale non sentivano di appartenere propriamente e dalla quale furono esclusi al momento del loro rientro in quanto propaggini di un regime, quello fascista, ormai superato. In questo modo la politica di Gheddafi mirò non solo all’abbattimento del dominio, ma al totale sovvertimento della memoria: l’obiettivo delle lunghe pratiche cui il suo regime obbligò gli italiani prima dell’espulsione fu proprio quello di sottolineare il loro status di “usurpatori” di cui egli si stava liberando. L’ostilità di Gheddafi può essere ricondotta all’atteggiamento di un capo che, more solito di ogni dittatura, necessitava di nemici su cui attirare strumentalmente l’attenzione del proprio popolo, dell’opinione pubblica e di quella internazionale, tramite i mass media. Tuttavia, è altrettanto evidente l’impossibilità di separare nettamente le vecchie generazioni di coloni dalle nuove, seppur meno avvezze alla politica e cronologicamente più lontane dal fascismo.
A prescindere dalla realtà di fatto, queste parole sono indicative della percezione della comunità italiana, la quale sentiva di intrattenere ottimi rapporti con le popolazioni libiche. Da ciò deriva l’insistenza paradossale sulla pacificità nel contesto della rivoluzione riportata nell’aneddoto sopracitato. Secondo questa visione, il sodalizio tra le due parti sembrava sussistere anche in un’occasione anomala come il colpo di stato. Tramite i racconti, si assiste a scene di estrema disponibilità e cortesia, di improbabili dialoghi improntati alla cordialità, con la sola e unica clausola del rispetto del coprifuoco. Nonostante il portato di violenza senza precedenti per le comunità italiane sul territorio libico, le testimonianze in alcuni punti sembrano accogliere le ragioni della controparte, riconoscerne quantomeno la legittimità se non l’operato.
Così giunsero sul suolo italiano i “profughi d’Africa”: coloni sorpresi dalla sconfitta del fascismo nell’Oltremare e costretti a causa di varie istanze al rimpatrio. Il loro numero era consistente: già alla fine degli anni Quaranta ne sarebbero stati computati circa 90 mila dalla Libia, più di 50 mila dall’Etiopia, poco meno dall’Eritrea e più di 10 mila dalla Somalia. Sommati assieme questi profughi erano di gran lunga più numerosi dei reduci italiani d’Africa rimasti nell’Oltremare e rappresentavano un problema di consistente imbarazzo per i governi italiani [9].
Nei numerosi campi profughi si concentravano famiglie con varie difficoltà di inserimento nella società della madrepatria. Terreno di coltura fertile per proteste di stampo nazionalista e nostalgiche, la loro precarietà fu percepita e utilizzata dai governi più alla stregua di una questione di ordine pubblico che di assistenza sociale. La giovane Italia repubblicana fu fra le prime nazioni a doversi confrontare con questo problema e non stupisce che vi sia giunta impreparata: furono adottati alcuni provvedimenti, ma di fatto la soluzione venne rimandata ai profughi stessi, alla loro capacità di riscatto e all’imprenditorialità dei singoli.
Considerati fascisti sia in Libia sia in Italia, furono oggetto di una forte esclusione sociale che segnò significativamente la memoria degli ex coloni. Alla mancata accoglienza nella madrepatria si unì l’affermazione di diverse istanze e di “interpretazioni del reale”, ma soprattutto del passato, divergenti dalla narrazione fino ad allora dominante. In una ripresa contrappuntistica al mescolamento percepito dai coloni è opposta la separazione subita dai libici e alla pacificità è sostituta la categoria di “invasione”, termine usato emblematicamente nei contributi degli studiosi africanisti in merito [10].
L’ingresso improvviso nell’ordine discorsivo coloniale degli ex colonizzati, solitamente assoggettati alla narrazione civilizzatrice e paternalista, quando non di esplicito dominio, dell’Occidente, evidenziò la condizione problematica della controparte e ne determinò il progressivo allontanamento dalla storiografia. Ciò deriva dall’incapacità di ridefinire il proprio passato e quello dei propri predecessori in maniera critica, senza chiudersi di fronte alle istanze esterne e senza rigettare aprioristicamente l’alterità storica e culturale. In questo frangente risulta in maniera sempre più evidente che la memoria deve essere interpretata come un’azione narrativa e simbolica, nei confronti della quale le scienze sociali, storiche e antropologiche devono necessariamente affinare i propri strumenti ermeneutici:
Vedendosi etichettati come “fascisti” sia in Libia sia in Italia, i rimpatriati si trovarono nella condizione di dover ripudiare e al contempo difendere la loro visione del regime, dato che sotto attacco era la loro stessa identità. Implicitamente, le critiche rivolte al fascismo erano percepite come azioni offensive mosse nei loro confronti, in quanto ultimi residui di una peculiare congiuntura storico-sociale. Tuttavia, essi vissero il periodo storico nelle colonie, in comunità agricole di dimensioni esigue, in un sostanziale deserto educativo e nella totale ignoranza delle istanze della controparte. Per questo motivo il fascismo che essi avevano esperito aveva un volto diverso rispetto a quello che gli era stato restituito al momento del rientro in patria: gli ex coloni non difendevano il fascismo in sé e per sé, ma ciò che esso significava nel contesto della loro storia di vita.
Associato al lavoro, alla fatica dell’appoderamento e alla volontà di godere dei frutti dei propri sforzi, il fascismo degli italiani di Libia raccoglieva al suo interno espressioni percepite come del tutto valide, ma che non tengono conto della realtà della controparte libica né tanto del nuovo dibattito italiano repubblicano. Per poter comprendere tale meccanismo è necessario leggere l’identità e la pratica memoriale in una prospettiva culturale, all’interno della quale secondo Roberto Beneduce:
Data tale obliterazione dell’alterità, i coloni non concepivano che i libici potessero vivere una realtà discordante da quella che era la loro percezione. A ciò si unisce lo statuto ambivalente della Libia, Quarta Sponda a tutti gli effetti e realtà separata dalla Penisola, che contribuì notevolmente alla distorsione della loro visione. Essi, infatti, non erano a conoscenza né delle politiche interne ed estere operate dal regime di Mussolini in Italia, né delle questioni governative in Libia.
L’assenza stessa di evidenti conflitti nella Libia degli anni Cinquanta non va letta come un segno di una precoce pacificazione quanto come un sintomo della ritrosia dei coloni a riconoscere il diverso e il suo punto di vista.
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