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Sulla violenza: una meditazione in stile libero
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2025 @ 03:25 In Cultura,Società | No Comments
La bibliografia sulla violenza è sterminata. Come e perché aggiungervi anche questo articolo? Perché, come hanno affermato gli storici Philip Dwyer e Joy Damousi (2020), per quanto difficile sia da definire – invischiata com’è in questioni molto più astratte di lei e molto diverse da valutare (sistemi politici o militari o, peggio ancora, puramente concettuali) di cui spesso diventa lo sfondo invisibile – la violenza è un’esperienza comune che coinvolge rabbia, ambizione, paura, sofferenza e morte. Impossibile sottrarsene, naturale provare a rispondere agli interrogativi che non cessa di porre. Ma come farlo senza annegare nella bibliografia e sommergere chi legge in una babele di referenze imprescindibili, proficue a piccole dosi ma indigeste se prese tutte insieme? Le sintesi erudite sul dibattito affollano già le biblioteche. Ce ne sono di tutte le misure, dalle storie a più volumi alle very short introduction. Ma persino le più short superano di gran lunga la stazza di un articolo. Produrne una very very short non sarebbe difficile. Sarebbe semplicemente inutile.
Come conciliare allora il mio bisogno di interrogarmi sulla violenza e di capirci un po’ di più con la necessità per un atto comunicativo scientifico di intercettare la curiosità di qualcuno allo stesso tempo apportando alla discussione qualcosa (qualcosina) di nuovo e solidamente fondato? L’unica soluzione mi è sembrata quella di volare basso[1], snellire la bibliografia e cercare un’occasione, un aggancio fra il tema e i miei campi di ricerca per entrare nella questione da una prospettiva il più possibile inedita (almeno per quanto riguarda l’occhio che l’aveva colta). L’ho trovato nell’irruzione, fra Paleolitico e Neolitico, degli esseri umani e della violenza nell’iconologia dell’epoca, particolarmente di quella forma di violenza collettiva intraspecifica che chiamiamo guerra Il Neolitico è considerato da più discipline come un momento di svolta nello sviluppo della cultura umana; piuttosto che presentare immagini il cui senso è già noto ho preferito soffermarmi brevemente su un paradigma filosofico che prova a rendere ragione di questa svolta e di cui mi ero già occupato: il passaggio da un’ontologia partecipativa a una presenzialista [2], che secondo il filosofo Philippe Grosos, sancirebbe la posizione dominante (dalle non sempre fauste conseguenze sociali ed ecologiche) dell’essere umano sul resto del vivente. Che senso aveva tornarvi su? Quello di proiettare il paradigma avanti e indietro nel tempo a partire dalla violenza possibile vuoi all’uno vuoi all’altro modo di abitare il pianeta.
Volare basso implica delle rinunce. In primo luogo quella di definire la violenza in modo rigido: ci sono già fin troppe definizioni in giro e sono tutte difettose perché in genere vengono fissate a posteriori, una volta cioè delimitato il corpus di casi o fenomeni violenti concreti che si va ad analizzare. Mi restava la parafrasi di Dwyer e Damousi che ho indicato più su: la violenza come esperienza comune a vittime, carnefici e testimoni più o meno diretti di rabbia, ambizione, paura, sofferenza e morte. Facile a questo punto della riflessione, passare dall’esperienza alla relazione e allargare lo sguardo dalla guerra come relazione collettiva violenta intraspecifica alle relazioni collettive e individuali fra umano e resto dei viventi, esseri umani inclusi. Come sanno molto bene i semiotici gli esseri umani intrattengono relazioni con tutto ciò che gli capita a tiro: cani veri e di porcellana, piante da salotto e piante carnivore, geni della lampada, astri, gatti neri e fantasmi di ogni sorta, vicini di casa e cugini d’America. La maggior parte di queste relazioni (che possono essere anche strettissime, all’interno o all’esterno della nostra specie) non sono o violente o non-violente ma spesso e volentieri entrambe le cose insieme [3]. L’esplorazione di questa complessità relazionale (e del ruolo fondamentale e ambivalente che vi gioca la violenza) con la guida di chi l’ha già studiata (l’antropologo Charles Stepanoff) occupa i capitoli 3 e 4 dell’articolo.
Resta da aggiungere qualche chiarimento sul metodo: avendo rinunciato oltre a una definizione rigida anche a presentare un’analisi empirica di fatti editi o inediti ho dovuto procedere, muovendomi con tutta la leggerezza di cui sono stato capace, per le fonti che avevo scelto, meditandone in modo abbastanza libero alcuni dei fatti e concetti che mi andavano via via suggerendo. Non è questo il mio modo preferito di lavorare ma, lavorando, ho avuto l’impressione che funzionasse, tanto che dopo aver scritto le conclusioni mi è sembrato di aver ancora molte cose da dire. Non avendo però più molto spazio, in nome della libertà permessami da questo metodo inusuale, mi sono concesso il lusso di inventarmi una ripresa in cui presento brevemente un film (Hable con ella di Pedro Almodóvar) che esplora il tema della violenza con delle modalità capaci di evidenziare con l’efficace immediatezza dell’arte quel che io meditando avevo faticato a esprimere. Alla fine mi sembra di essere arrivato da qualche parte. Se è così o non è così, lo dirà chi ci arriverà.
1. L’evoluzione della violenza
Carel von Schaik (etologo, biologo e antropologo), Kai Michel (storico e studioso di letteratura) e Harald Meller (archeologo) osservano nel loro recente saggio multidisciplinare sull’evoluzione della violenza (2024) che oltre alla capacità di cooperazione [4], sia la condivisione abitudinaria del cibo che l’educazione collettiva di figli e figlie sono tratti specificamente umani fra i primati. Queste capacità di coordinazione e condivisione a grande scala vanno di pari con un forte senso di giustizia e di moralità e con una chiara tendenza all’uguaglianza e all’altruismo [5]. Certo: coordinazione e condivisione contribuiscono però anche a rendere gli esseri umani autentici geni nell’arte di far fuori altri esseri umani. Vero, proseguono i tre autori, tuttavia a differenza dei e delle scimpanzé (specie nota per il comportamento aggressivo intraspecifico all’interno e all’esterno di ogni singolo gruppo) gli esseri umani sanno benissimo di avere molto da guadagnare cooperando con altri esseri umani (sia all’interno che all’esterno del proprio gruppo) e moltissimo da perdere se alla cooperazione preferiscono la competizione aggressiva.
A questo punto delle loro riflessioni è legittimo chiedersi se, impegnati nella costruzione di un futuro pacifico, van Schaik, Michel e Meller (per usare la celebre espressione polemica di Lawrence Keeley) stiano indebitamente pacificando il passato. No. O meglio non del tutto e comunque sempre in modo legittimo: secondo i tre autori, infatti, i dati archeologici dimostrano che seppure i cacciatori-raccoglitori nomadi del Paleolitico non vivevano in un mondo utopico, completamente libero da conflitti o aggressioni, è solo a partire dal Mesolitico che fra gli esseri umani cominciano a spirare venti di guerra. Venti che si faranno fortissimi nel Neolitico, fino a indurci a credere che la guerra sia una condizione non solo strutturale ma anche naturale (e dunque inevitabile o addirittura sana) per gli esseri umani) [6]. Sulla base dei dati biologici, psicologici ed etologici disponibili, i tre autori negano questa tesi (relativamente al carattere naturale e terapeutico della guerra) e sostengono che gli esseri umani, forti di una Friedenpsychologie (scaturita dall’empatia a dal senso di giustizia che li caratterizzano come specie) che non li ha ancora abbandonati, hanno vissuto la maggior parte della loro vita sulla terra liberi da questo flagello [7]. Cosa è successo allora nel Mesolitico (15 fino a 20 mila anni fa [8]) di talmente decisivo da convincere alcuni esseri umani a compiere atti di violenza collettiva contro altri esseri umani di un altro gruppo? A partire da un’analisi dettagliata dei dati archeologici ed etnografici disponibili i tre studiosi affermano che dopo che il riscaldamento globale aveva costretto gli esseri umani a forme di prima sedentarietà, alla costruzione di grandi strutture produttive e allo stoccaggio di risorse alimentari, il calcolo dei costi e benefici di un’azione violenta o non-violenta nei confronti di altri gruppi era cambiato completamente rispetto al Paleolitico (tr. mia) [9]:
A titolo di esempio i tre autori riportano immediatamente dopo questo passaggio il caso, descritto nel celeberrimo The Forest People di Colin M. Turnbull, del Pigmeo-mbuty Cephu, che (parafraso dal testo tedesco) avendo gabbato i propri simili nella distribuzione del bottino, viene invitato dal gruppo a lanciarsi su una lancia e quindi a uccidersi come un animale (Tier) perché « […] chi se non un animale ruberebbe la carne degli altri?» [10]. Il principio morale che rende odioso o odiosa chi ruba o scrocca, scolpito nella psicologia cooperativa sapiens, vale tanto nei confronti di singoli individui che di interi gruppi. Monopolizzare una risorsa (p.e. territoriale) equivale a uscire dal patto di solidarietà alla base della buona convivenza umana. Infrazione che non può che essere punita. I tre autori – echeggiando la Virtuous Violence Theory (sic) degli antropologi Alan Page Fiske e Tage Shakti Rai – spiegano così la terribile (e all’epoca inaudita) ferocia testimoniata dai dati archeologici (p.e. il massacro di uomini, donne e bambini di Jebel Sahaba [11]). Sia chiaro: van Schaik, Michel e Meller non stanno affermando che a monte di quei primi atti di violenza organizzata intraspecifica perpetrati contro individui non appartenenti al proprio gruppo ci fosse soltanto un senso di indignazione morale di fronte a un modo inaudito (e percepito da altri umani come pernicioso) di essere umani, ma che, viste le conseguenze di un atto di violenza (che ne richiama sempre un altro a ripararlo), senza questa motivazione morale non sarebbe stato possibile convincere nessuno a passare alle maniere forti [12].
I tre autori ritengono infatti che l’evoluzione ci abbia dotati di una sorta di Kriegspsychologie consistente in una serie di risultati psicologici di processi adattativi che di per sé non ci obbligano a fare sempre la guerra ma che, a determinate condizioni, contribuiscono in modo straordinariamente efficace a farci commettere atti di aggressione collettiva. Non ho lo spazio di presentarli e discuterli questi precipitati psicologici ma almeno posso fornirne un elenco: logica amico-nemico, coesione sociale, tendenza a seguire una figura carismatica nelle situazioni di crisi, ricerca di legittimazione per qualunque atto violento, capacità di disumanizzare il nemico, solidarietà fra maschi e, infine, la già citata psicologia pacifica (Friedenspsychologie) fatta di empatia e senso di giustizia (a tendenza retributiva), a cui si lega la teoria della violenza virtuosa. Come osservano efficacemente van Sheik, Michel e Meller non siamo bravi a cooperare perché facciamo la guerra ma facciamo bene la guerra perché siamo bravi a cooperare.
2. La violenza fra presenza e partecipazione
Percepibile dalla fine del Paleolitico in poi il nuovo modo di stare al mondo che ha diretto le nostre risorse psicologiche al peggiore dei fini si è manifestato, notoriamente, anche nell’irruzione massiccia nelle immagini sia degli esseri umani che della violenza interumana. Il filosofo Philippe Grosos (2023/2021/2017) ha interpretato questa evidente modificazione del repertorio iconologico umano come sintomo di una nuova ontologia, che ha battezzato come presenzialista, in opposizione a quella paleolitica che chiama partecipativa: gli esseri umani post-paleolitici (ovvero i e le più recenti visto che il Paleolitico corrisponde alla parte più grande del nostro vissuto come specie) avrebbero smesso di sentirsi abitanti pari diritto con il resto dei e delle viventi e si sarebbero autopercepiti e autopercepite centro di gravità permanente di ogni cosa (animali, piante e tutto il resto).
In un mio precedente articolo sottolineavo al riguardo
a) che l’opposizione partecipativo-presenzialista non va considerata in senso contraddittorio ma contrario;
b) che alcuni processi che Grosos descrive come presenzialisti – p.e. il pensiero scientifico, l’agricoltura e la domesticazione degli animali – erano già iniziati nel Paleolitico;
c) che ripensare il ruolo della violenza, intesa come metodo a tendenza presenzialista (usato cioè per raggiungere una posizione di dominio nel proprio ecosistema), all’interno del paradigma proposto da Grosos, sarebbe stato molto utile alfine di misurarne la portata oltre il punto critico (e momento seminale) del Mesolitico.
Infatti se nel Mesolitico la volontà manifesta di non essere più disposti e disposte a condividere (ovvero di ostinarsi a rimanere in senso esclusivo presenti su) un territorio ha mandato in bestia vuoi chi quel territorio occupava vuoi chi voleva accedervi e non poteva, fino a indurlo ad atti di violenza indicibili, si è fatto ricorso alla violenza per affermare la propria presenza e lo si è fatto proprio in nome della partecipazione. Il che indica che a livello empirico (quando si tratta cioè di interagire con il resto del mondo) sempre e non solo a partire dal Mesolitico a) entrambi i poli dell’opposizione costituiscono per tutti gli esseri umani un valore ideale ma, al postutto, inevitabilmente relativo (relativo cioè al soggetto – tanto un noi che un io – che si trova a soppesarli); b) e che a determinare il valore reale degli stessi sarà la quantità di violenza collettiva o individuale che gli attori (siano entrambi esseri umani o no) decideranno di esercitare o tollerare l’uno nei confronti dell’altro nonché la gestione del potenziale distruttivo di quest’ultima [13].
3. La violenza fra il metabolico e il simbolico
Come illustra mirabilmente il racconto biblico (Genesi 1, 29-30) già al sesto giorno parte dell’esistente (cioè parte di ciò che, nel testo è indicato come buono), ovvero i vegetali, doveva nutrirne un’altra:
Il cibo è insomma un dono divino ma questo non vuol dire che l’umanità lo abbia consumato sempre a cuor leggero [14]. Come osserva acutamente l’antropologo Charles Stepanoff (2024) non esiste società umana che non interagisca col resto del mondo sia a livello metabolico che a livello simbolico. Fra i due livelli, ancora una volta, non c’è contraddizione ma complementarietà. Lo si vede bene se si considera il nostro modo complessivo di trattare gli animali. Di alcuni di loro, gli animali-materia, controlliamo tutto: movimento, alimentazione, riproduzione, macellazione, tanto da ridurli a una massa senza nome e priva di qualunque soggettività prima di consumarli. Altri, quelli domestici, godono invece di una certa libertà di movimento e (a volte) di riproduzione ma spesso dipendono da noi per l’alimentazione (e a nessuno di noi verrebbe in mente di mangiare il proprio cane). Moltissime le attenzioni e le cure che prestiamo loro. Tutti hanno dei nomi e, chi più chi meno, anche una certa soggettività. Li trattiamo e parliamo con loro come se fossero dei bambini [15]. Fra animali-materia e animali-bambini non c’è nessun rapporto? Almeno uno salta agli occhi: i primi alimentano (e sempre per mano nostra) i secondi. In altri termini: l’estremo presenzialismo che esercitiamo nei confronti dei primi alimenta (cioè permette e garantisce) la partecipazione dei secondi alla vita nel mondo.
Fra i due estremi dell’empatia per una soggettività da curare e dell’indifferenza indirizzata al consumo di una risorsa materiale circolano, e in varia misura, tanto i nostri simboli che la nostra violenza. La soglia fra soggettivizzazione e materializzazione è incerta e piena di insidie e i resoconti etnografici attestano quanto [16], a tutte le latitudini, venga praticata e gestita con una prudenza spirituale che se non inibisce del tutto il consumo è, comunque, assolutamente evidente vista la sua debordante ritualizzazione. Come mai? L’aggressione necessaria alla sussistenza, spiega Stepanoff, espone gli umani che la esercitano a una potenziale contropredazione [17]. Sostanzialmente a una vendetta. È possibile, continua l’antropologo, che la cottura degli alimenti (anche di ordine vegetale), con tutti i riti che la accompagnano, trasformando soggettività in materia, sia servita, fra l’altro, a minimizzare gli effetti spiritualmente tossici della predazione [18]. La letteratura etnografica registra riti preparatori e astensione sessuale prima della caccia o della raccolta, il divieto di commettere crudeltà che provocherebbero sofferenze inutili nella preda, l’obbligatorietà di gesti specifici nel cacciare, nel maneggiare le armi o nel trattare il cibo, divieti quantitativi e qualitativi e molto altro. L’infinità di regole legate al reperimento, al consumo e alla gestione delle risorse, continua Stepanoff, testimoniano: a) la coscienza dell’inevitabile impatto metabolico degli esseri umani verso il loro ecosistema; b) la coscienza della gravità di questo impatto; c) la complessità relazionale di cui siamo capaci nel gestire tanto l’impatto che le sue premesse tecniche e conseguenze sociali.
Tutte queste prassi hanno certamente una funzione economica ma sarebbe riduttivo limitarne la natura a questo aspetto. Secondo Stepanoff, infatti, specifiche dell’essere umano non sono soltanto due delle tre caratteristiche menzionate da van Schaik, Michel e Miller – la condivisione del cibo e l’educazione collettiva dei figli e delle figlie (la cooperazione è data per scontata dall’antropologo) – ma anche la capacità di avere rapporti intersoggettivi (a volte anche strettissimi) con individui di altre specie. Nessuna specie oltre a quell’umana intrattiene dei rapporti così densi (tecnici, affettivi, di buon vicinato…) con tante altre specie di viventi. Nulla che lo spazio semiotico possa contenere sfugge alla nostra capacità di costruire relazioni: animali, piante, montagne ma anche luoghi, astri, spiriti, divinità, antenati e antenate e via immaginando. Certo nessun’altra specie ha un impatto sul destino di tutti costoro paragonabile al nostro (nasciamo nudi e siamo pur sempre il più grande predatore del pianeta) ma quel che ci rende davvero unici è che i rapporti che intratteniamo con tutto ciò che ci interessa sono caratterizzati da una fondamentale e programmatica apertura empatica. L’essere umano, prosegue Stepanoff (2021; 2024) ha il privilegio esclusivo e paradossale di vivere la propria predatorietà in modo empatico [19]. Legittimo chiedersi come faccia, unico fra i primati, a essere empatico nei confronti di qualcosa (qualunque cosa) che non solo uno scimpanzé ma addirittura lui stesso finirà per distruggere.
Secondo Stepanoff (2024) la necessità, di prendersi cura di bambini talmente immaturi da non potersi considerare ancora pienamente umani ci obbliga a conferire loro una posizione all’interno di un gruppo, il nostro, di cui né conoscono ancora le regole né dispongono delle qualità e delle competenze necessarie per farvi parte autonomamente. Educare collettivamente neonati immaturi (e neonate immature) ci dispone ad antropomorfizzarli. Stepanoff ne conclude che l’educazione collettiva di figli e figlie abbia prodotto in noi umani e umane
a) una sorta di apertura al non-(ancora)-umano di cui diverse specie animali hanno approfittato, al punto che praticamente in tutto il mondo gruppi umani trattano alcuni mammiferi [20], alcuni uccelli e alcuni rettili come dei bambini;
b) e abbia stimolato in noi la capacità di comunicare più in là che la nostra stessa specie [21]. Stepanoff rimanda a una serie di studi che documentano che il nostro modo di parlare agli animali-bambini assomiglia acusticamente al nostro modo di comunicare coi bambini (voce più acuta, vezzeggiativi…). [22].
Non c’è dubbio che l’antropomorfizzazione tanto di infanti che di animali (e via dicendo) non sia possibile senza empatia; altrettanto sicuro è che dia luogo – p.e. nella caccia – a una sorta di incompatibilità affettiva fra convivenza (dimensione partecipativa) e predazione (dimensione presenzialista), che se non riesce a imporci il digiuno volontario, in alcuni casi, arriva a proibire agli stessi cacciatori il consumo della preda, imponendogli di offrirla al proprio gruppo (cosa che non avviene tra gli altri primati). Vada per la caccia ma come la mettiamo con l’allevamento? Nemmeno questa pratica solleva dai rimorsi [23]. Stepanoff (2024) riferisce di un’osservazione di Edward Evan Evans Pritchard relativa ai Nuer, pastori allevatori di vacche (Africa orientale). Un allevatore nuer non può abbattere un animale, cui è affettivamente legato, ogni volta che ha fame. L’uccisione deve avvenire ritualmente e in presenza di altri esseri umani. L’allevatore ha diritto di uccidere l’animale soltanto se serve a nutrire altri esseri umani. Regole non ostanti l’incompatibilità affettiva fra predazione ed empatia, regalataci dalla pratica dell’antropomorfizzazione del non-umano, continua a sussistere e basti questa dichiarazione degli stessi Nuer (che traduco dal testo francese di Stepanoff che a sua volta la traduce dall’inglese di Evans Pritchard) a evidenziarlo: gli occhi e il cuore sono tristi ma i denti e lo stomaco sono felici.
Proseguendo sulla via del paradosso, l’empatia non esclude la predazione nemmeno quando l’animale è talmente antropomorfizzato da essere considerato in qualche modo… umano e familiare. Per i Tozhu (Siberia), popolazione che Stepanoff ha studiato sul campo, l’orso è il re della foresta che ogni anno uccide molti uomini. Secondo il mito sarebbe addirittura un ex essere umano ovvero un essere umano coperto di peli, tanto che di norma viene chiamato nonno (irei). Nondimeno il suo corpo è fonte di proteine e di grasso, la sua pelliccia permette la fabbricazione di coperture e vestiti, la sua bile è un farmaco prezioso e i suoi artigli vengono considerati potenti talismani. I Tozhu intrattengono rapporti ambigui anche con la renna, animale domestico e amico, che può essere cavalcato e il cui latte costituisce una fonte affidabile di proteine (come pure la sua carne, anche se molto più raramente). Quest’animale è considerato un intermediario fra umani e spiriti e tuttavia si fanno coperture e vestiti anche della sua pelliccia mentre la sua pelle viene usata per proteggere gli sci. Un ultimo esempio dal regno vegetale: il legno della betulla permette di scaldarsi e di costruire delle tende, la sua corteccia serve a fabbricare dei recipienti o dei richiami per attirare il cervo. In primavera si beve il suo siero rinfrescante e nutriente, con le sue foglie si accendono fuochi in tutte le stagioni dell’anno (come farne a meno in inverno?). Ma si può anche scuoterne delicatamente il tronco bianco e il suo fogliame giallo e quindi farlo diventare l’albero d’oro di cui cantano gli sciamani e a cui si offrono dei doni per ringraziarlo o ingraziarsene la protezione [24]. In complesso, conclude Stepanoff (2024), ci sono una cinquantina di specie che presso i Tozhu possono avere dei legami con gli esseri umani finalizzati alla tecnica, all’alimentazione, alla terapia o semplicemente di natura mitologica o affettiva. Individui di queste specie possono essere trattati sia come risorse materiali che come coabitanti di un territorio condiviso.
A scanso di facili generalizzazioni e interpretazioni stereotipiche largamente circolanti, Stepanoff avverte che anche chi vive in una città (occidentale o meno) nutre dei rapporti simbolici o affettivi con piante o animali, luoghi o edifici (basti pensare alla costernazione dei Parigini e delle Parigine per il rogo di Notre Dame) ma certo non consuma i propri animali domestici e nemmeno i piccioni o i corvi che può trovare in città, né si riscalda con la legna degli alberi dei parchi o dei viali. Chi vive in città delega tanto i legami metabolici che i propri bisogni energetici a enormi strutture produttive extraurbane (talvolta anche distantissime) delle quali non ha mai visione diretta ma di cui fa un uso tanto abbondante quanto, in certa misura, incosciente: vive la propria dimensione metabolica, per così dire, a ragione non veduta. Come osserva efficacemente l’antropologo la modernità assottiglia e separa i rapporti degli esseri umani col resto del mondo in affettivi o metabolici anche da un punto di vista topologico [25]. Facile concluderne che dove l’occhio non vede il cuore non duole ma i dibattiti sull’alimentazione degli ultimi decenni e sulla produzione di cibo (a filiera corta, biologico, biodinamico ecc.) attestano che la violenza strutturale del sistema moderno non passa inosservata all’umanità.
Se l’idea occidentale moderna dell’allevamento intensivo sembra essere riuscita a toglierci qualche ansia, vegetariani e vegani (e corrispettivi femminili) non si stancano di ricordarcene l’opportunità. La veemenza risentita con cui vengono trattati e trattate dai carnivori e dalle carnivore indica che probabilmente il legame fra empatia e predazione negli esseri umani è più forte di ogni calcolo utilitario. Stepanoff (2024) ritiene che le sue osservazioni e riflessioni antropologiche sconfessino non solo l’idea moderna di allevamento intensivo come tipo ideale della domesticazione animale ma addirittura la validità del mito fondativo del Neolitico come svolta antropologicamente auspicabile e irreversibile. Del resto, osserva l’antropologo, è stato l’ interesse per il resto del mondo a spingerci a indagare la rigenerazione di esseri nei confronti dei quali ci sentiamo debitori fino a rendercene responsabili [26].
Tirando un primo bilancio da quanto esposto finora, non sembrano esserci troppe ragioni per stare allegri (e allegre). Ammesso che la nostra curiosità empatica e il nostro amore per la pace contino davvero qualcosa, con ogni evidenza siamo perfettamente capaci di convivere coi sensi di colpa che ci procura il dover uccidere e distruggere per vivere. In guerra arriviamo addirittura a farlo, individualmente o collettivamente, per indignazione morale o per motivi infinitamente più futili [27], per convinzione propria o su ordine di qualcun altro, anche per assecondare i suoi (non necessariamente i nostri) fini [28]. Nondimeno interpretare le indicazioni offerteci da van Schaik, Michel, Meller e Stepanoff riguardo a questa forma di ambiguità tipicamente umana nel modo radicalmente cinico di chi vede, in noi esseri umani, soltanto dei potenziali assassini e nella guerra il nostro destino geopolitico, significherebbe, a mio modo di vedere, sprecare due occasioni per guadagnare un po’ di lucidità. Lucidità necessaria quanto urgente di fronte all’incredibile rumore prodotto dai discorsi correnti intorno alla guerra e alla crisi climatica, stereotipi che – nutrendo quella gran riserva di disinformazione (scientifica e non solo) che possono essere le reti sociali digitali – servono molto bene agende politiche di vario colore e molto poco (e male) chi continua a frequentarle. Accettare almeno di considerare le conclusioni della Scienza contribuirebbe a ignorare polemiche sterili, a riconoscere rapidamente la dissennatezza di molti discorsi sedicenti identitari e di conseguenza a riflettere meglio sulle decisioni politiche (serissime) che ci attendono dietro l’angolo.
Essere coscienti in principio tanto della nostra inevitabile disarmonia ecologica (la necessità di drenare risorse) che della complessità relazionale di cui siamo capaci (la loro gestione) permette, inoltre, di mettere a fuoco – nel negoziato continuo fra partecipazione e presenza che è la nostra vita – sia l’ineluttabilità della violenza ecocida che la fecondità permessa dal limitarla (fino a rimandarla) senza perderla mai di vista. Il paradigma naturalista-dualista, tipico degli ultimi 250 anni, separando la natura dalla cultura e viceversa, ci ha abituati e abituate a pensare che la presenza umana su un territorio implichi sempre (in ogni momento) una violenza nei confronti delle cose. Il paradigma ecologista ci ha spinto a sua volta a credere che per rispettare il resto del mondo dovremmo rinunciare alla nostra stessa presenza (non solo fisica ma anche prevalente). È il principio della riserva naturale. Si tratta di un errore: lasciare le cose a se stesse non è garanzia di mancanza di violenza.
L’assenza di attività umana su un territorio non ne comporta necessariamente un aumento della biodiversità. Stepanoff (2024) cita un caso emblematico. Gli aborigeni australiani Martu, prima della colonizzazione, consumavano più di 80 specie differenti di piante e di animali. Dopo la colonizzazione la farina e altri prodotti acquistabili in negozi sono divenuti il loro alimento principale. La raccolta e la caccia si sono ridotte di due terzi. Questa diminuzione di estrazione di risorse dal territorio non ha provocato un aumento della biodiversità, anzi è stata accompagnata da diverse estinzioni di specie endemiche e dall’espansione di specie invasive. L’opera umana, in circuiti ridotti e densi di relazioni complesse [29], ha una funzione evidentemente regolatrice e positiva. I paesaggi del nostro pianeta, dice Stepanoff (2024), sono la memoria vivente dei dialoghi millenari tra le popolazioni umane e l’ambiente che le circonda: prelevare soltanto un terzo della corteccia di un albero per scaldarsi significa operare in virtù e in vista della propria presenza e permettere all’albero di continuare a partecipare alla vita nel mondo. La violenza dell’operazione si iscrive all’interno di una gestione intelligente della biodiversità di un ecosistema arricchendola. Anche la relazione con gli animali di cui molti di noi si cibano può restare sanamente partecipativa se la presenza umana – a un livello zero di antropomorfismo – s’impegna a limitare la propria capacità di violenza e a non ledere troppo l’autonomia ecosistemica di coloro verso i quali si esercita.
D’altra parte il rischio che la relazione antropomorfa umano-non umano o umano-umano diventi tossica, purtroppo, è consustanziale ai termini formali in cui la stessa relazione si verifica: corpi prossimi ad altri corpi possono fare scintille, quelle buone e quelle meno buone… Umanità (empatia, antropomorfismo e metabolismo) vuol dire interpretare al meglio quest’ambivalenza di fondo facendo sì che rischio di materializzazione nonostante questa prossimità sia il più possibile, anche soltanto temporaneamente, giustamente feconda. Mantenere alto il livello di fecondità e il più basso possibile quello di tossicità è una sfida che tutti conosciamo personalmente e che richiede il meglio delle nostre qualità. Le cronache dei nostri giornali, comprensibilmente, registrano molto spesso i momenti più acuti di tossicità, ma sarebbe un errore madornale credere che tutte le relazioni umane siano sempre e soltanto egoiste, abusive e distruttrici, che ogni prossimità preluda sempre e soltanto al nichilismo. Ogni violenza è carica di conseguenze. E non tutte sono facili da evitare o condannare. Qualche anno fa Pedro Almodóvar ha scritto e diretto un film, Hable con ella, che mi sembra esplorare molto bene l’ambivalenza fondamentale nelle relazioni, che sto cercando di presentare ed evidenziarla meglio di qualunque situazione reale o perifrasi astratta possano fare.
Benigno è un giovane infermiere incaricato di accudire una giovane donna in coma da 4 anni [30], Alicia, che aveva avuto modo di osservare e conoscere un po’ prima che questa cadesse in coma. Unico fra il personale infermieristico a farlo, Benigno interagisce con Alicia come se questa potesse ascoltarlo e rispondergli; la pettina e la trucca rispettandone le preferenze manifestate prima dell’incidente; se ne prende cura con evidente professionalità ma anche con un affetto che se all’inizio intenerisce, più il film va avanti più (dietro il tono da commedia) risulta morboso: Benigno, a differenza delle sue colleghe, quando lava o massaggia Alicia non usa mai i guanti protettivi e, quando ha un po’ di tempo libero, va alla cineteca a vedere tutti i film muti e gli spettacoli di danza che può, non perché ne sia personalmente appassionato ma perché piacevano ad Alicia a cui poi li racconterà.
Nella clinica in cui si trovano Benigno e Alicia compaiono altri due personaggi: Lidia, una donna torero appena caduta in coma dopo che un toro l’ha quasi uccisa, e Marco, il suo partner, comprensibilmente affranto. Dopo qualche giorno Marco si rende conto del modo sorprendente in cui Benigno tratta Alicia: non come un organismo privo di coscienza ma come una persona a tutti gli effetti. Nei limiti del possibile il trattamento sembra anche far bene ad Alicia, che a tratti più che una giovane donna in coma sembra la Bella Addormentata in attesa del suo principe.
Disorientato e bisognoso di aiuto e sostegno Marco comincia a frequentare la stanza di Alicia e Benigno. In un dialogo fondamentale per comprendere il film Benigno [31], mentre massaggia delicatamente il volto e le mani di Alicia, racconta a Marco della loro storia e conclude:
Marco inizia un percorso non facile di ripersonificazione di Lidia, che con lei non va a buon fine (complice l’ex della giovane donna, che comunica a Marco di aver ripreso la relazione con lei già un mese prima che cadesse in coma) ma che invece, interiormente, gli riesce benissimo con Alicia. Tanto che avendo deciso di lasciare la clinica e la cura di Lidia al suo ex e partire per l‘estero, va a salutare Alicia e le dice: «Hola Alicia, vuelvo a estar solo».
Di lì a poco Benigno, convinto di avere una relazione sentimentale con Alicia (arriverà seriamente a pensare di sposarla), finisce per violentare Alicia che, rimasta incinta, partorisce un feto morto e… si sveglia dal coma. Intanto Lidia muore e Benigno finisce in carcere. Nessuno accetta di assisterlo. È lasciato così solo che non sa nulla né di Alicia né del bambino. Una sua ex collega chiede a Marco di fare [33], lui che era suo amico, quel che lei per ribrezzo morale non riesce a fare: aiutarlo. Marco, pur se anche lui disgustato dal gesto di Benigno, torna dall’estero e va a trovarlo in carcere ma l’avvocato che è riuscito a procurargli lo diffida dal dare a Benigno la notizia del risveglio di Alicia. Del bambino riferirò io stesso, gli dice l’avvocato. Dopo un secondo colloquio fra i due amici, molto toccante, Benigno decide di prendere delle pillole che spera lo facciano entrare in coma. A suo dire è quella l’unica strada rimastagli per tornare a stare vicino ad Alicia. Il colpo non gli riesce e muore. Nella lettera di addio a Marco chiede all’amico di venirlo a trovare, dovunque lo portino, e di parlargli. Così Marco, in piedi davanti alla tomba di Benigno, racconta a voce alta del risveglio di Alicia e aggiunge: «Tú la despertaste». Il film finisce in un teatro, dove Marco e Alicia (separati di una fila e da una poltrona vuota) tornano casualmente a incontrarsi. Lui ne è cosciente. Lei no. Ma entrambi, guardandosi, sorridono e tutto lascia intendere che i due avranno (o forse già ce l’ hanno) una relazione.
Cosa c’entra tutto questo con l’ambivalenza fondamentale della relazione? Come osserva il filosofo Robert B. Pippin [34], la violenza commessa da Benigno è imperdonabile ma l’autore del film vuole mostrarcene il paravento, il contorno posticcio, certo, ma talmente pieno di humanism (sic) da sortire effetti redentivi (redemptive). Alicia si risveglia dal coma dopo la violenza subita e gli choc (violenti) della gravidanza e del parto. Cose che succedono solo nei film, si dirà, ma c’è ancora qualcuno che crede che le storie non c’entrino proprio nulla con la vita? Messo il livello della narrazione fra parentesi e riflettendo a voce alta io la vedrei così: la relazione di vicinanza, inscindibilmente fisica e simbolica (Benigno, come il resto del personale, si prende professionalmente cura del corpo di Alicia, ma lui lo fa come se fosse la sua partner), che si instaura fra uno che si ostina a negare all’altro lo status di organismo incosciente e dunque umanamente difettivo, porta quest’organismo incosciente allo status di persona umana completa. Nel caso di Benigno e Alicia si tratta indubbiamente di un delirio (Alicia è un essere umano ma non è in grado di essere una persona, capace di esprimere intenzionalità attraverso parole) ma che l’arrivo sia un miraggio non significa che tutto quel che avviene per strada sia sbagliato, insensato o allucinatorio: se così fosse p.e. non potremmo convivere con cani, gatti o bambini. Questa prima violenza – quella del farsi prossimo a qualcuno che ha bisogno del nostro aiuto per tornare a essere o diventare pienamente umano – è una violenza con cui è facile simpatizzare [35].
Eppure è questa stessa violenza di segno buono a mettere chi ne riceve i benefici nella posizione perfetta della vittima, pronta per essere abusata fino alla materializzazione completa (Benigno – che non è buono ma appunto soltanto benigno – violenta Alicia pensando, nel suo delirio, di far l’amore con la propria partner) [36]. Questa seconda violenza, che sentiamo come una insopportabile, ingiusta e inumana profanazione di un soggetto, è inizialmente rimandata a data da destinare grazie a una ricchissima pletora di simboli, un vero e proprio castello di sabbia che viene giù drammaticamente quando e se lasciamo che la situazione precipiti.
La terza e ultima violenza da commentare è anch’essa ambivalente: il “suicidio” di Benigno, che da un punto di vista narrativo permette la relazione fra Alicia e Marco. Fuor di metafora: la relazione, per evitare (o superare) la catastrofe che incombe pretende una rinuncia, un sacrificio. Facile capire a cosa il personaggio Benigno ha dovuto rinunciare ma nella vita vera non è sempre facile capire cosa debba essere sacrificato per disintossicare una relazione e salvarla dalla distruzione imminente. Anzi è la cosa più difficile non solo da capire ma anche da fare: a dover essere sacrificata è infatti la propria presenza (il proprio ruolo) nella misura in cui questa si fa prevalenza, ovvero presenzialismo. Troppo difficile? Resta sempre l’efficacissimo placebo dei simboli: : fino a quando davanti alla pietra del sacrificio saremo capaci di cercare il soccorso di una nube, di una pianta o, che ne so, della mano simbolica di un angelo, quella fisica di Abramo non si abbatterà sul collo di Isacco.
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