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Tra i Tartari e il Faraone: la riscoperta del Jihad di ᾽Abd as-Salam Faraj
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2017 @ 01:29 In Cultura,Letture | No Comments
di Roberto Cascio
La data del 6 ottobre 1981 può essere ritenuta un crocevia decisivo nella storia dell’islamismo radicale: è il giorno in cui una parata militare celebrativa dell’ultima guerra vittoriosa (almeno parzialmente) contro Israele, la guerra del Yom Kippur del 1973, diviene evento straordinario, la cui eco raggiunge ogni angolo del mondo. Il Presidente Anwar al-Sadat, che assisteva alle celebrazioni in alta uniforme insieme ai generali dell’esercito, viene raggiunto dai colpi di mitra sparati da quattro militari scesi poco prima da un automezzo impiegato nella stessa parata. La mancanza di prontezza delle guardie di Sadat ed il panico generato da un evento effettivamente imponderabile permette al tenente Khalid al-Istambuli, leader dei quattro militari protagonisti della sparatoria, di uccidere il presidente egiziano e gridare davanti alle telecamere: «Io sono Khalid al-Istambuli, ho ucciso Faraone e non ho paura della morte!». Sebbene i protagonisti dell’attentato siano sconosciuti al grande pubblico, la furia omicida del gruppo terroristico e le modalità dell’azione mostrano immediatamente l’avvio di una nuova stagione per gli islamisti radicali, che sembrava ormai fossero stati sconfitti dalla condanne in prigione e dalle torture del governo sadatiano.
«C’è una fine ad ogni tiranno». Dalle Jama᾽at islamiche all’azione terroristica
I giorni seguenti il clamoroso attentato al presidente Sadat sono segnati da una violentissima repressione dei movimenti islamisti; durante le persecuzioni contro gli islamisti emergono così diverse in- formazioni intorno al gruppo terroristico cui aderiva il tenente al-Istambuli: il ventiquattrenne attentatore di Sadat era difatti parte del ramo cairota del movimento al-Jihad.
Per comprendere le origini del gruppo radicale al-Jihad è opportuno ripercorrere la storia e l’evoluzione delle jama᾽at islamiyya, associazioni studentesche islamiche che dominarono il panorama universitario successivamente alla disfatta araba del 1967 contro Israele; queste associazioni furono all’inizio ben viste dal governo, ritenute utile argine alle forze marxiste, preponderanti fino a quel momento nelle università egiziane [1]. Il governo di Sadat sostenne fortemente queste associazioni, che in cambio ammorbidivano le loro critiche al governo, garantendo inoltre un valido supporto alla politica di Sadat tra le giovani generazioni egiziane. La crisi tra le jamaʽat islamiyya e Sadat avvenne alla ratifica dei trattati di Camp David (marzo 1979): l’accordo tra Israele ed il governo egiziano era irricevibile per i giovani universitari, che adesso, avendo un incontrastato potere nelle università, rappresentavano più che una concreta minaccia per il governo egiziano.
Il 3 settembre 1981 Sadat decide quindi di arrestare i principali esponenti delle jama᾽at e di decretarne lo scioglimento definitivo: il crimine di cui sono accusati è quello di attentare all’unità nazionale. Tra gli arrestati c’è anche il fratello di al-Istambuli, Muhammad, dirigente di una jama᾽at di Asyut: è in questo momento che Khalid al-Istambuli decide che è arrivato il momento di uccidere Faraone- Sadat [2].
Il gruppo al-Jihad, scissosi già precedentemente dalle jama᾽at, accusate di non essere mai pronte per l’azione fuori dall’università, si accorda così in pochissimi giorni sull’organizzazione dell’attentato ai danni di Sadat. Tuttavia, sarebbe errato rappresentare lo slancio emotivo dovuto all’arresto del fratello di al-Istambuli come unica causa dell’attentato del 6 ottobre. Vi è invece un livello ideologico, di riflessione il cui valore è fondamentale ed innegabile ai fini di una esatta comprensione degli eventi che portarono alla morte di Sadat. Come scrive Gilles Kepel:
L’indagine su Faraj e sull’impianto teorico dell’assassinio di Faraone appare dunque come tappa necessaria per gettar luce su uno degli episodi più clamorosi della storia contemporanea egiziana.
L’imperativo occultato. Elaborazione teorica dell’omicidio del rais
La figura di ᾽Abd as-Salam Faraj risulta di difficile definizione: ben poche sono le notizie intorno alla sua vita, ma con sicurezza può essere indicato come l’autore del libello L’imperativo occultato, testo che costituirà l’impianto ideologico che porterà il gruppo al-Jihad all’attentato contro Sadat. Faraj, ingegnere elettrico poco meno che trentenne, non ha una formazione teologica alle spalle, risultando tuttavia un pensatore originale la cui opera può essere definita come un avanzamento (più o meno ardito) nel solco della riflessione islamista tracciata da Sayyid Qutb. L’ideologo legato ai Fratelli Musulmani diede in effetti ampio spazio alla divulgazione delle sue Pietre Miliari, testo cardine nella storia dell’islamismo radicale ma non esplicito nella riflessione intorno alle modalità con cui instaurare lo Stato islamico nei Paesi ormai corrotti dalla ignoranza (la jahiliyya, concetto chiave di Qutb).
Lo sforzo di Faraj è dunque quello di dare un indirizzo netto per la presa del potere resasi quanto mai necessaria a seguito degli accordi di Sadat con Israele e la successiva repressione delle jamaʽat islamiyya, tentando di giustificare la sua visione riprendendo parti della Tradizione islamica, citando diversi hadith, versetti del Corano, ma affidandosi comunque prevalentemente alle riflessioni di Ibn Taymiyya, personaggio fondamentale nell’intero panorama islamista [3]. Opportuno sembra dunque ripercorrere le principali teorie di Faraj che possono definirsi originali nella riflessione islamista.
Lo Stato Islamico e la concezione della storia
Un punto di partenza utile alla comprensione del discorso di Faraj potrebbe essere l’indagine intorno al suo modo di concepire la storia. Risulta evidente innanzitutto la volontà di Faraj di non allontanare il suo pensiero dall’ «ortodossia», ponendo il problema a partire da un hadith attribuito al profeta Muhammad. L’hadith riportato nel testo di Faraj diviene quindi occasione per esprimere il pensiero originale dell’autore de L’Imperativo occultato e che è possibile riassumere in queste tappe: 1) Regno del Profeta; 2) Califfato sul modello del Profeta (i quattro califfi “ben guidatiˮ); 3) Regno ereditario; 4) Regno tirannico; 5) Nuovo califfato sul modello del profeta.
Il regno ereditario, cominciato con il primo califfo omayyade nel 660, chiude l’età dell’oro islamica (periodo storico costante riferimento degli islamisti) e termina nel 1924 con l’abolizione del sultanato. Il mondo islamico si trova dunque oggi nel regno tirannico, età immediatamente precedente all’istituzione di una nuova società islamica che si imporrà in maniera definitiva; seguendo le parole stesse di Faraj:
L’ideale di Farag è dunque quello comune ad altri islamisti contemporanei: il ritorno all’età dell’oro islamica, termine ultimo e fine della storia, insuperabile modello di società che, diversamente dalle utopie, ha avuto già modo di avverarsi nel tempo. Rimane dunque il problema di come poter terminare il regno tirannico e quindi finalmente giungere alla società islamica sul modello del Profeta. Il quesito trova la risposta originale di Faraj nel recupero del jihad, obbligo che i musulmani contemporanei hanno dimenticato, nonostante esso sia chiaramente espresso in diverse sure del Corano. Se il jihad è l’unico mezzo con cui poter instaurare lo Stato islamico, allora esso diviene obbligo che ogni musulmano deve perseguire senza tentennamenti.
Immediatamente sorge la questione intorno a quale società occorre combattere, e la riflessione critica di Faraj coinvolge anche il mondo musulmano, proseguendo così l’ideologia qutbiana e riallacciandosi ad una delle figure più importanti dell’islamismo radicale: Ibn Taymiyya.
La situazione odierna si presenta come complessa dal punto di vista dottrinale, poiché la divisione tra Casa dell’Islam e Casa della Guerra, categorie classiche dello spazio per i musulmani, sembra non essere adatta per le realtà sociali contemporanee. Proprio a causa di questa difficoltà, Faraj farà ricorso all’autorità di Ibn Taymiyya, riprendendone un parere giuridico contenuto in una raccolta di fatwa dell’autore siriano. La fatwa in questione rimanda alla riflessione intorno allo statuto della città di Mardin, governata da leggi islamiche ma successivamente caduta nelle mani dei Tartari nel 1262:
Secondo Faraj, le leggi che governano oggi i musulmani sono empie: l’abolizione del califfato nel 1924 ha reso la situazione odierna simile a quella dei Tartari, che governarono attraverso un codice di leggi misto (la Yasa, il diritto consuetudinario mongolo), che prevedeva influenze islamiche, cristiane e del giudaismo insieme ad elementi tartari. Ma chi antepone le proprie idee e le proprie leggi alla sharia non differisce in nulla da coloro che vennero prima del tempo della Profezia di Muhammad (coloro che vissero nella jahiliyya, nell’ignoranza), e deve essere etichettato come Kafir e per questo «combattuto con tutti i mezzi fino al ritorno della legge di Dio» (Faraj, 2000: 23).
La denuncia di Faraj diviene in questo frangente molto dura, arrivando a sostenere che i governanti d’oggi devono essere considerati come apostati della religione islamica e dunque devono essere necessariamente combattuti e scacciati dal governo delle popolazioni musulmane.
Non è sufficiente pronunciare la dichiarazione di fede, non è abbastanza definirsi musulmani se si abbandona la legge divina: nuovamente appoggiato dai testi di Ibn Taymiyya, Faraj ricava dal suo ragionamento le seguenti deduzioni:
L’invito al jihad dell’autore egiziano è dunque frutto di una riflessione sulla necessità della lotta armata suffragata dai testi di Ibn Taymiyya. Tuttavia, l’esortazione di Faraj alla lotta armata ha dei destinatari precisi all’interno della galassia neo-fondamentalista, non risparmiando dure critiche a coloro che pensano di poter contribuire alla causa islamica senza far proprio l’obbligo della lotta armata.
I movimenti islamisti e le errate modalità di rimozione del potere empio
Faraj prosegue la sua riflessione indagando le varie espressioni del neofondamentalismo (o neotradizionalismo) [4] e le istanze dei sostenitori della fuga dalla società (hijra), criticandone l’effettivo valore ai fini della instaurazione di uno Stato islamico; interessante è seguire in questo caso come l’autore egiziano critica passo dopo passo le diverse espressioni dell’islamismo:
1) Critica alle organizzazioni caritative: Queste organizzazioni (più precisamente, le jamaʽat khayriyya) si spendono fortemente per incentivare le persone a compiere le preghiere, fare l’elemosina (Zakaat) e, più in generale, rispettare le prescrizioni islamiche. Faraj, pur ammettendo l’importanza di non dimenticare gli obblighi islamici di compiere le preghiere ed in generale di compiere opere buone, critica aspramente l’effettivo valore di queste organizzazioni, che essendo sotto il controllo governativo, non hanno alcun effetto nella lotta contro il potere empio: «Le preghiere, l’elemosina e le buone azioni sono ordinate da Dio e noi non dobbiamo dimenticarlo. Tuttavia, se dovessimo chiedere a noi stessi “queste buone azioni e le preghiere porteranno ad instaurare lo stato islamico?ˮ, immediatamente risponderemmo “noˮ senza esitazioni».
2) Critica a coloro che cercano di migliorare se stessi: Alcuni musulmani ritengono che il difficile periodo di umiliazione in cui si trova il mondo islamico sia imputabile ai peccati commessi dai credenti e che l’unica possibilità di migliorare la situazione odierna sia il pregare intensamente e dedicarsi alla spiritualità in maniera continua. Secondo Faraj occorre invece riconoscere il jihad come pilastro dell’Islam; l’attuale situazione di debolezza non è risolvibile con la sola attenzione al lato “spiritualeˮ: «In realtà chi divulga queste filosofie o non comprende bene l’Islam o è un codardo che non vuole rimanere saldo a difesa di questa religione» (Farag, 2000: 39).
3) Critica al sistema partitico: Gli islamisti hanno sempre dibattuto sulla possibilità di una partecipazione democratica all’interno delle istituzioni e quindi sull’opportunità di costituire un partito islamico. Se molti dubbi sono stati avanzati già tra le file dei Fratelli Musulmani, Faraj nega invece qualsiasi utilità nel formare un partito ed entrare nell’arena democratica, poiché questo significherebbe un riconoscimento di un’attività legislativa che fa a meno di Dio; come ben espresso da Renzo Guolo, «La tendenza a dare forma politica al movimento mediante la costruzione di un partito inserito senza doppiezze nel gioco parlamentare veniva altrettanto demonizzata in quanto “una simile pratica riformistaˮ contribuiva a salvare lo stato empio dalla distruzione anziché accelerarla» (Guolo, 1994: 121).
4) Critica alla via del controllo sociale: Il controllo delle posizioni più elevate a livello sociale (medici, ingegneri etc.) garantirebbero, per alcuni, la possibilità di entrare e quindi modificare dall’interno il sistema empio. Anche qui le parole di Faraj sono sferzanti e non danno possibilità di replica: «Se una persona sentisse questo discorso per la prima volta, penserebbe che è frutto della sua immaginazione o uno scherzo» (Farag, 2000: 40).
5) Critica ai neofondamentalisti della da᾽wa: La riflessione intorno alla da᾽wa (predicazione) è sicuramente uno dei punti più interessanti tra le critiche di Faraj ai movimenti islamisti. L’obiettivo di coloro che si adoperano per la da᾽wa è quello di espandersi nella società civile e dunque poter così mutare lo Stato empio in uno Stato musulmano (la cosiddetta “islamizzazione dal bassoˮ). La da᾽wa risulta però una strada debole per abbattere lo stato empio, poiché quest’ultimo detiene il controllo dei media, impedendo ai militanti islamisti di avere una loro voce all’interno della società civile. Inoltre, l’edificazione dello Stato islamico avverrà grazie a pochi credenti e non attraverso le masse islamizzate, secondo il programma dei sostenitori della da᾽wa; risulta qui evidente la differenza tra il neofondamentalismo che si rivolge alle masse e i radicali come Faraj che invece puntano ad una “islamizzazione dall’altoˮ, dove l’abbattimento dello Stato empio, del potere corrotto, è il momento necessario che precede la creazione dello Stato islamico. Seppur molto critico nei confronti della da᾽wa, Faraj ne riconosce comunque un valore almeno parziale, come è possibile leggere nel suo testo: «Se qualcuno ritiene che ciò che ho detto promuove un allontanamento dalla daʽwa, allora ha capito male (…). Questa è piuttosto una replica a coloro che hanno ritenuto questo dovere di creare una larga base (tra le masse) come un motivo per procrastinare il jihad» (Faraj, 2000:43).
6) Critica alla “migrazioneˮ e a coloro impegnati nello studio: Coloro che sostengono l’hijra (migrazione) in un altro paese o sulle montagne, isolandosi dalla società (chiaro qui il riferimento a Shukri Mustafa [5]) non fanno che disperdere i loro sforzi, sfuggendo al jihad, unica reale via per l’abbattimento dello stato empio. Anche coloro che sostengono di dover prima approfondire l’islam, di doversi concentrare nello studio del Corano prima di agire, in realtà non comprendono come il jihad sia un obbligo a cui non è possibile sottrarsi. Ciò non vuol dire che l’Islam non promuova la riflessione e lo studio, ma questo non può dilazionare l’impegno attivo per la causa islamica: «Gli studiosi di Al-Azhar non riuscirono a fermare Napoleone e le sue truppe quando queste entrarono nell’università con i loro cavalli e con le loro scarpe. A che serve la conoscenza contro l’umiliazione? Dunque la conoscenza non è l’arma (…) che taglierà le radici degli infedeli» (Faraj, 2000: 48).
In conclusione di questo elenco delle critiche di Faraj, è possibile scorgere il fine ultimo dell’ingegnere egiziano: rimarcare le debolezze e l’incapacità dei movimenti islamisti di contrastare il potere empio. Dopo la parte destruens del discorso di Faraj occorre adesso approfondire le proposte che verranno fatte proprie da al-Istambuli e dal gruppo al-Jihad, in modo da comprendere globalmente l’ideologia alla base dell’attentato a Sadat del 6 ottobre 1981.
Statuto del jihad: l’omicidio del tiranno come dovere del musulmano
Faraj comincia la sua riflessione intorno al jihad dopo aver criticato in maniera anche aspra i diversi movimenti islamisti. Comune a queste frange analizzate da Faraj è la visione di un jihad che debba interpretarsi esclusivamente come difensivo, teoria quindi che rifiuta di imporre la legge islamica attraverso la lotta contro il potere empio. Risulta evidente che tale interpretazione è per Faraj fallace e pericolosa, poiché porta i musulmani a negare, a dimenticare l’obbligo di combattere per la religione islamica. Più precisamente, ed è qui l’originalità maggiore del testo dell’ingegnere egiziano, il jihad deve essere condotto contro i governanti empi:
La lotta deve inoltre concentrarsi dapprima contro il nemico vicino per poi espandersi alle altre nazioni; la vittoria sul nemico lontano (ad esempio, Israele) potrebbe dare profitto e gloria al governatore empio, mentre invece ogni lotta dovrà essere fatta sotto le insegne ed il controllo musulmano [6]. Faraj insiste inoltre sull’obbligatorietà del jihad tanto da definirlo come fardh ʽayn, obbligo individuale che ogni musulmano è tenuto a seguire [7]. Se il nemico è all’interno della società islamica, è inevitabile, sostiene Faraj, il combattimento a difesa della religione e degli stessi musulmani:
Molto intense sono le pagine relative all’invito a combattere per la causa di Dio. Vale la pena dunque riportare le parole dell’ideologo egiziano a proposito della lotta armata contro gli empi:
L’azione del jihad contro il governatore empio deve dunque avvenire, nonostante il suo esito possa risultare negativo. Sono parole che sembrano ricalcare quelle di Sayyid Qutb, nelle ultime pagine di Pietre Miliari [8]; parole che sottolineano inoltre la convinzione profonda che la morte del Faraone avrebbe portato la presa del potere statale e di conseguenza la possibilità di instaurare definitivamente lo Stato islamico.
Il fallimento dell’ideologia di Faraj e la sua eredità
La speranza di una rivoluzione di massa, provocata dall’assassinio di Faraone, venne tuttavia delusa: alla morte di Sadat seguirono pochi giorni dopo alcuni scontri ad Asiut che provocarono la morte di 188 persone ma fu questo l’unico momento di conflittualità tra governo ed islamisti. Il potere rimase in mano agli “empi” che, attraverso un plebiscito, portarono alla presidenza Husni Mubarak, fedele successore della linea politica intrapresa da Sadat. Le convinzioni di Faraj si rivelarono dunque errate e, insieme ad Khaled al-Istambuli ed alcuni complici, lo condurranno al patibolo il 15 aprile 1982. La sua accusa sarà quella di aver scritto L’imperativo occultato.
Con l’ideologia di Faraj si chiude un importante momento per l’islamismo radicale che vede il fallimento dell’islamizzazione dall’alto, del tentativo di stabilire uno Stato islamico a partire dalla distruzione del potere empio.
Se dal punto di vista dei risultati, il pensiero di Faraj può ragionevolmente essere definito fallimentare, non per questo bisogna ignorare il suo peso e la sua eredità, soprattutto facendo riferimento alla più stretta attualità. Snobbato dai predicatori più in voga dell’Egitto del tempo [9], Faraj riesce invece a conquistare la fiducia e l’attenzione dei giovani egiziani, di coloro che vivono in condizione di emarginazione ed incapaci di trovare la loro via all’interno di una modernità che non riconoscono come propria. Come ben descritto da Gilles Kepel,
Con le dovute differenze, non è difficile tentare un paragone tra i militanti islamisti degli anni ’70- ’80 e le nuove leve del terrorismo odierno, poiché sempre più spesso gli autori materiali delle stragi europee sono giovani delle periferie, ai margini della società e respinti da una modernità che sentono allogena rispetto al proprio essere. Se il testo di Faraj incontra tutt’oggi una notevole fortuna tra le giovani leve dell’islamismo militante, ciò è segno che la strada per un incontro tra modernità ed Islam è ancora lunga e complessa da percorrere e che i malumori e la rabbia dei giovani islamisti odierni non differiscono da quella dell’ingegnere cariota e dei suoi seguaci.
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