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Udii tra il sonno … i canti, le novene, il cibo di Natale
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 01:47 In Cultura,Società | No Comments
di Luigi Lombardo
Ovunque si sente dire «Sarà un Natale diverso». Certamente lo sarà. Mancheranno tante cose, alcune assolutamente effimere, “all’americana”, altre facenti parte del patrimonio culturale popolare; e per questo mancherà “il clima natalizio”, quella particolare disposizione sentimentale che attende, spera, si augura, e dell’immaginario che rievoca miti, racconti, gesti e affettuosità del Natale. Oggi siamo tutti a “sperare” incollati al televisore in attesa di dati confortanti dai bollettini grafici dall’Istituto Superiore di Sanità.
Un tempo l’attesa era ben altra: la festa più lunga dell’anno iniziava con il primo giorno dell’avvento, e da qui a seguire una serie di feste calendariali: S. Barbara, Santa Nicola, S. Lucia e quindi l’inizio del novenario che precedeva il Natale. Appunto le novene oggi mancheranno, quelle che ancora resistono assieme a tantissimi rituali di fine-inizio anno. A noi per il momento non resta che parlarne, descrivendo antichissimi rituali legati alla nascita del Bambinello, praticati fino ai nostri giorni, pur tra mille contaminazioni e “intromissioni” (ad esempio il Babbo Natale che accompagna i “nuvinari”).
Le sere che precedevano il Natale (il novenario, o nuvena come il popolo seguita a dire) i cantori ciechi (gli orbi a Palermo), mestieranti musicisti di professione, riuniti in associazione fin dal 1661, o semplicemente gruppi di popolani raccolti in società temporanee, spesso suonatori della banda cittadina, percorrevano le strade di piccoli e grandi centri, inondandole di musiche e suoni e voci natalizi: portavano nelle famiglie dei parrucciani (oggi diremmo clienti abbonati) le “storie” a puntate della nascita del Bambino Gesù: ninnareddhi si chiamavano nel Catanese o, nei paesi iblei, più genericamente nuveni.
Dalle montagne dell’Etna scendevano per l’occasione i ciaramiddhari con le zampogne di vello di pecora, vestiti coi loro abiti pastorali, fra cui l’inconfondibile «firriolu di abbraçiu (orbace) bluetto».
Rallegravano il freddo inverno delle case dei poveri e confortavano il cuore nell’attesa dell’evento della gran notti. Tutto – suoni, luci, uomini e cose – avvolgeva il buio della notte: perché un tempo le novene si portavano di notte, che, prima dell’introduzione della corrente elettrica, iniziava subito dopo il tramonto del sole.
Poi la Chiesa spostò le novene al mattino, dopo il canto del gallo: ma fu diverso. Il motivo ufficiale era che in queste novene in versione notturna succedevano degli “inconvenienti”: probabilmente le musiche “profane” (tanghi, valzer, mazurche, galop e, nei tempi più antichi, le tarantelle) che chiudevano la strofa della giornata, incitavano al ballo, accompagnato da qualche bicchiere di buon vino.
Erano canti che si tramandavano oralmente, a volte ne esistevano degli scorretti copioni scritti: i più organizzati erano, come detto, gli orbi, riuniti in confraternita e gelosi possessori di testi e musiche. Per il resto i suonatori e cantanti della novena erano personaggi che svolgevano i mestieri più disparati: a volte non ne esercitavano alcuno. Le novene erano cantate da una voce solista accompagnata da vari strumenti a fiato, a corda, a percussione. Quando mancavano gli strumenti il cantatore si aiutava col fischio e col battere di un tamburo o di nacchere [1].
Il Natale popolare si svolgeva dunque per le strade, nelle piazze, nelle case illuminate dal tenue lustru di lumeri ad olio. I testi di molte novene ci sono pervenuti grazie alle raccolte ottocentesche, ma soprattutto alle registrazioni sul campo iniziate negli anni ‘50 e ’60, e proseguite nei decenni successivi ad opera di studiosi e associazioni culturali, che ci hanno restituito, insieme ai testi, anche le musiche. Anch’io ne ho registrate diverse: la tradizione sembrava sparita poi è riapparsa in qualche centro. Questo oscillare “carsico” fra conservazione e sparizione contrassegna molte tradizioni popolari al giorno d’oggi.
Le novene ripetevano e ripetono tutte lo schema, il tema del viaggio di Maria, incinta e lesta (pronta) a partorire, in compagnia del patriarca Giuseppe, a seguito dell’editto di Cesare (il censimento generale dei popoli dell’impero). Il prototipo letterario è per quasi tutte le novene (direttamente o indirettamente) il Viaggiu dulurusu, componimento in versi siciliani della seconda metà del ‘700 di un sacerdote monrealese Antonino Di Liberto (1704-1772), teologo, poeta e musicista, che si cela sotto lo pseudonimo di Binidittu Annuleru, testo che si è ristampato fino oltre i primi decenni del XIX secolo [2]. Tali novene si diffondevano con facilità fra il popolo, subendo un processo di modificazioni e adattamenti. La diffusione dei testi fra i ceti popolari ne modificava la funzione: circolando a spezzoni, a strofe, trasformandosi, il più delle volte, in canti fanciulleschi, tiritere, ninne nanne, modi di dire, con palesi intenti pedagogici e mnemonici. É il modo che ha il popolo per accedere ai sacri misteri: riportarli alla sfera del proprio vissuto quotidiano, con una giustapposizione di piani, l’umano e il divino.
E tali rifacimenti, nelle innumerevoli varianti raccolte, hanno dato luogo al sorgere di una vasta letteratura popolare, fatta di canti e componimenti poetici, che si ispirano alle “drammatiche” vicende della sacra coppia e alla prima infanzia di Gesù. Ne vengono fuori quadretti di vita familiare di una semplicità e ingenuità disarmante; ma questo è lo scopo che si cela nel racconto sacro: appunto disarmare, far partecipare, far rivivere all’ascoltatore la bellezza e la serenità di un mondo pacificato. La fonte di questi componimenti è stata da alcuni studiosi rintracciata nei vangeli apocrifi [3], in particolare nel «Protovangelo di Giacomo» e nel «Vangelo dell’infanzia arabo siriaco», mentre come si sa i Vangeli canonici sono parchi di informazioni sul quotidiano vissuto dei santi personaggi. In proposito scrive il Pitrè:
Ma il popolo, non diversamente dai signori, gradiva e partecipava anche alle tante sacre rappresentazioni natalizie, dette pastorali, che almeno fin dal Medioevo venivano allestite negli oratori o nelle case private. Dalla seconda metà dell’Ottocento anche i pupari si diedero a rappresentare la Nascita di Gesù, utilizzando spesso le medesime pastorali, naturalmente opportunamente riadattate.
Alcune pastorali ci sono pervenute perché affidate alle stampe dagli autori, ma si tratta di testi di letteratura colta: come Il vero lume tra l’ombre di A. Perrucci [5], o La nascita di Gesù Bambino (ma il titolo originario era Le tenebre illuminate nella segnatissima notte del Santo Natale di nostro Signore) [6] di G. M. Musmeci Catalano, uno scrittore di Acireale. Quest’ultimo testo riveste una certa importanza, infatti il volgarizzamento di questo dramma del Musmeci Catalano, operato nei primi dell’Ottocento e pervenutoci manoscritto [7], dimostra il processo di discesa fra il popolo di questi testi, ed insieme le modalità in cui tale acculturazione si verifica. Molte di queste pastorali circolavano appunto manoscritte, come canovacci per gli attori dilettanti. Una di queste pastorali della fine del sec. XVIII è in mio possesso e il cui titolo è Operetta pastorale della nascita del Bambino Gesù [8].
Presso la Biblioteca Comunale di Siracusa, poi, è custodita una pastorale manoscritta: Opera pastorale del S. Bambino Gesù adorato dagli angioli, dai pastori e dai Maggi nella grotta di Bettlemme composta dal rev.mo Arciprete don Mario Moreno [9]. Si tratta di una pastorale in due atti con dialoghi in musica, di cui purtroppo non è pervenuto lo spartito. É scritta in italiano, ma con ampie parti in cui compaiono sia il dialetto siciliano, che un napoletano standardizzato: si tratta dei dialoghi di due personaggi comici quali Iàpico napoletano e Cola siciliano, la cui comparsa doveva suscitare le risa degli spettatori. Era un cliché nelle pastorali: esse, infatti, vivono di questi contrasti fra la serietà dell’evento narrato e la comicità dei dialoghi in vernacolo [10]. A Modica fino all’Ottocento si rappresentò una pastorale dal titolo Pastori della sacra notte. Componimento drammatico da cantarsi nella città di Modica per la solennità del SS. Natale [11]. Testo in italiano di contenuto arcadico di cui la parte più interessante, la musica, non ci è pervenuta.
Nel corso degli anni e fino ad arrivare ai giorni nostri, ho raccolto straordinarie filastrocche, la maggior parte fanciullesche, legate al Natale. Si recitavano non solo a Natale ma in ogni occasione ludica o di incontri tra adulti e bambini. Sono chiamati canti nel senso più ampio del termine: in effetti si tratta di cantilene, per lo più con un motivetto semplice ed elementare, tratti molte da canti più lunghi. Altri componimenti, quelli più narrativi, sono solo recitati (ma in origine dovevano essere cantati). L’area di raccolta è la Sicilia Orientale, e in particolare le province di Catania, Siracusa e Ragusa [12]. É naturalmente una piccola parte di un vasto archivio folklorico sonoro in mio possesso. Naturalmente la trascrizione non è quella scientifica, ma quella che può favorire una lettura più facile.
Molto studiati dai maggiori folkloristi siciliani come Pitrè, Salomone Marino, Avolio, Guastella, Uccello, anche per il forte impatto educativo che essi hanno sui bambini. Spesso sono racconti di episodi tratti dalla vita della Sacra Famiglia, momenti di esperienze quotidiane che mostrano la non troppo celata discendenza dai Vangeli apocrifi.
Una ne voglio qui trascrivere, recentemente raccolta (non si finisce mai!), che descrive un momento di vita familiare della Sacra Famiglia, e ci presenta un bambino Gesù “umano troppo umano”:
Si tratta, dunque, di un canto (vero e proprio) che ci presenta un Bambino Gesù facilmente irascibile, che addirittura ricorre alle parolacce per maledire la fornaia irriverente.
Ma sono le novene il clou del Natale popolare. Non vi era paese dove gruppi di suonatori e cantori si riunissero in società a portare la novena per le case, come si è detto, a gruppi di almeno tre musicisti, o a gruppi più numerosi di origine bandistica. Ne cito qui solo quattro perché tuttora eseguite a Ferla, Pachino, Buscemi e Mineo (ma sono solo un piccolissimo “assaggio”).
La novena di Ferla: fu registrata da A. Uccello e di recente è stata pubblicata in Cd [14]. Quella di Uccello è però registrazione fuori contesto, come si vede dalla data di rilevazione e dalla casualità delle strofe cantate, mentre quella da me raccolta è contestuale. La mia registrazione è stata effettuata dal 16 al 24 dicembre 2004 ed è per voce maschile e strumenti musicali (fisarmonica, chitarra, flauto). La novena si canta tuttora per le strade del paese per nove giorni, il gruppo esegue tre strofe al giorno.
La novena di Pachino: registrata nel corso del Natale del 1986, presenta i caratteri della contestualità. La prima voce è quella di un vecchio contadino di Pachino. Oggi la novena è eseguita da gruppi di giovani e ragazzi che si spostano da un parruccianu (cliente) all’altro in motoretta. Il testo mi è stato dettato dall’ultimo cantore della novena. Ogni giorno si eseguono due strofe. Il gruppo comprende una voce e diversi strumenti: non mancano mai il clarino, la tromba e il sassofono.
La novena di Buscemi: non posso non parlare del cantore che mi ha trasmesso la “sua” versione, che è poi quella tradizionale: Salvatore Morsello, poeta popolare, grande affabulatore, custode di memorie collettive, scomparso alcuni anni addietro. La novena da me raccolta è stata registrata una trentina d’anni fa, quando tentammo di riproporre, tra le altre tradizioni, anche la novena, che lo stesso Morsello cantava per le strade di Buscemi, nel corso delle feste natalizie di Palazzolo A. (SR). Il Morsello era accompagnato da alcuni giovani suonatori di Buscemi.
La novena di Mineo [15] (a ninnareddha): da me registrata nel Natale del 1989, era cantata da un gruppo di ragazzini per le vie della città, accompagnati dalla banda musicale del paese. Ogni sera si intona una strofa, ma nell’ultimo giorno si aggiunge il saluto finale e la richiesta di denaro al cliente.
Il cibo
Alla tavola del Natale saremo in pochi. In pochi consumeremo il “sacro pasto” della festa, in pochi condivideremo la notti rê mpanati, come nel sud est si chiama la notte della vigilia di Natale. Ne parlo riportando un bellissimo passo di C. Spadaro [16]:
Trascorsa la notte di Natale era costume lasciare la tavola imbandita con i resti della cena sparsi sulla tavola, perché si credeva che i morti di casa passando di là avrebbero consumato gli avanzi. La stessa cosa si faceva la sera dell’ultimo dell’anno. Al contrario nei giorni normali la tavola va sempre sparecchiata altrimenti gli angeli che han partecipato al pranzo non possono andare via. Un altro uso era legato alla quantità di componenti del pasto di Natale che dovevano essere in numero di trentatre, compresi le spezie, la frutta e lo scacciu.
La notte di Natale si possono apprendere le formule magiche e gli scongiuri, se si trova chi è disposto ad insegnarli: i più comuni sono quelli contro i vermi, il colpo di sole e soprattutto lo scantu.
Così si legge in una lettera autografa di Serafino Amabile Guastella indirizzata a Giuseppe Pitrè, una testimonianza preziosa di un mondo quasi del tutto dissolto.
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