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Venezia: dell’isola bucata e delle diverse sue ossessioni
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 03:33 In Cultura,Società | No Comments
di Elena Nicolai
Volerai così, sorella Venezia
sarà un’inezia la libertà
Andreina Corso, Carme per Venezia, Bonaccorso Verona, 2020: 46.
«Venezia ha costituito, negli ultimi decenni, un traguardo particolarmente ambito dall’homo consumens: chi ha osservato con attenzione, prima dell’“acqua granda” e dell’insorgenza del Covid, le vie prospicenti alla stazione ferroviaria di Santa Lucia e del Piazzale Roma, le ha viste percorse dalla marcia ritmica dei trolley, in file interminabili, con i “masegni” letteralmente consumati, immagini, impresse nella memoria, che possono condensare il logorio di una città, un vero scrigno di bellezza, esposto però ad un uso di corto respiro» (Goisis, 2022: 19-20) [1].
Venezia è mutata, Venezia è un’isola tutta bucata. Una civitas mancata, una società impossibile, desocializzata?
Le città d’arte, i centri storici, i borghi divengono specchi e luoghi privilegiati di analisi delle forze trasmutatrici ed erosive globali, della «rovina politicamente organizzata delle culture popolari», dettata da una «visione turistica del mondo e lo pseudo-cosmopolitismo dello showbiz e della classe imprenditoriale» (Michéa 2011: 80; 110) [2].
Più in generale, vi si scorgono le intime contraddizioni e gli effetti distruttivi dell’imperativo mondiale della crescita come unica strada percorribile, parte di una religione moderna dello sviluppo ad ogni costo: di fatto, si spinge per «una crescita infinita in un mondo finito», mentre «il processo economico implica necessariamente una distruzione», evidente nelle sue conseguenze ecologiche e sociali, considerato che «i rapporti sociali non sfuggono al regno della merce e dello sfruttamento» (Rist 2013: 13; 40; 43) [3].
A Venezia il lasciate fare, lasciate passare [4], ha abbandonato la città in balìa della più grande contraddizione e sicuro rischio del capitalismo neoliberista: l’accentramento dei capitali e l’approdo in grande stile dell’homo mobilis, non solo consumens:
Si è fatto spazio e lo si è ceduto, si sono creati vuoti (di cittadinanza, di relazione, di trasmissione culturale) ma nessun vuoto rimane libero a lungo o si crea senza intenzione: mentre le case si svuotano di abitanti, mentre i negozi di prossimità chiudono inesorabilmente, la città è costantemente ingombra di persone e infarcita di nuove attività commerciali e ristorative destinate, in via esclusiva quasi tutte, al turismo.
E se non fosse nell’isola di Venezia il problema, ed esso solo si riverberasse maggiormente in questo territorio così peculiare ed unico, in modo più evidente che in altri? Venezia è un punto fermo tra le acque costretto a reggere un continuo movimento delle persone, a resistere nell’incrocio di mondi in movimento; c’è un sicuro nesso tra queste onde non benevole ma continue e incessanti, e lo sfaldamento di un tessuto comunitario e sociale, un arretramento della cittadinanza:
E a Venezia, ha detonato il più periglioso ordigno e ha creato un’isola di vuoti che ora riempie a suo piacere. Ha un nome:
Il primo vuoto, nell’isola e nelle sue isole minori, l’ha lasciato il silenzio. Era ritornato nei mesi del lockdown e negli anni in cui la crisi pandemica, con il suo portato doloroso di perdita e di paura, ha raffrenato le sperticate ambizioni del turismo di massa e avrebbe potuto – momento terribile di crisi – offrire un istante di riflessione, operare un cambiamento. L’evento pandemico, sembrava assodato, ha rappresentato:
Ed invece, accantonata l’emergenza, si è capito che il capitalismo ha continuato, esso sì, silentemente, a muovere e accentrare, pronto a riprendersi lo spazio già detenuto e mai abbandonato e a fagocitare i nuovi vuoti. La crisi non è stata per tutti tale.
Rifletteva sempre durante la pandemia Goisis, voce umanissima e profonda tra quelle degli intellettuali veneziani e non che testimoniano la volontà di resistenza di questo territorio, di Venezia:
Ad oggi, a ripensare agli sforzi, alle speranze di quel periodo così vicino ma ormai quasi obliato dai più, si fanno nostre le parole che pronuncia, amare, uno dei protagonisti del film “Mediterraneo”, di Gabriele Salvadores: “Non ci hanno lasciato cambiare niente”.
E così è stato, anche per Venezia.
La Bandiera della Serenissima, con il Leone di San Marco; casa privata, San Marcuola (ph. Elena Nicolai)
Il paesaggio sonoro e i suoi dintorni
C’è un paesaggio che più di tutti i volti dell’isola è davvero mutato e sconvolto: quello sonoro. Il paesaggio sonoro, come ricorda il Maestro Stefano Luigi Mangia spiegando l’importanza del suono nei contesti familiari e nelle nostre città [8] è fondamentale, giacché noi siamo innanzitutto suono. Le città, i paesi, i rioni o, come a Venezia, i sestieri e le calli, hanno una loro voce, spesso ormai schiacciata e inudita.
A Venezia, c’era una volta il silenzio.
Di mattina, a Venezia il silenzio permette di distinguere le ore, come una meridiana del suono: i passi lungo le scale, il rumore degli scuri che si aprono, il vicino che chiude vigorosamente il portone sempre alla stessa ora, di fretta. Chissà dove corre. La mattina presto, senti il tombolare delle onde sulle rive, la scopa di rami degli spazzini che, ritmicamente, segna l’approssimarsi della luce e della sveglia. L’attracco borbottante dei primi battelli ai pontili. I cocai (gabbiani) che chissà quali concioni pronunciano. Più discreti, si associano i piccioni (colombi), col loro frullìo di ali e passi un poco incerti. I merli. A volte i pettirossi. Le seeghette sono ormai quasi dappertutto scomparse, portandosi via il loro pigolio civettuolo. E poi l’arrivo del ciottolare di zaini e ragazzi che vanno a scuola, i cani al passeggio che si salutano e salutano l’irrompere del giorno.
Gente che si chiama o schiva, i carrelli dei trasportatori e dei corrieri e le barche ormai numerose che scompigliano i canali. Qualche gatto sogguarda, con lo sguardo vigile che ha il padrone quando supervisiona la sua tenuta, il movimento nelle calli e nei campi.
I tavolini del bar che si avvicendano tra le gambe di veloci caffè. Il pane caldo, che sì, ha il suo suono quando esce dal forno e viene lasciato cadere negli espositori. Le saracinesche dei negozi che si alzano.
Qualche musica classica, udibile dalle finestre lasciate aperte. Qualche parolaccia. La Marangona. La sirena dell’acqua alta, a volte pure lei. Le altre innumeri e rassicuranti campane (si sentono, sempre meno). La raccolta porta a porta, quasi omaggio alle ere antiche in cui la voce in strada annunciava e riuniva la comunità: ancora lo spazzino, che passa e si annuncia.
Il laboratorio artistico “La Perla Nera”, accanto al bar veneziano “Il Boresso”, Salizada San Stae (ph. Elena Nicolai)
Passi di corsa lungo le scale, che non se ne vada via. Saluti. Scambi di sguardi. Aprono i musei. Ma a quest’ora, ormai a Venezia non si ode già più nulla. Solo il clangore di rotelle, fughe di voci che non si incontrano. Troc Troc grag trrrrr, fa il trolley. Prof. Goisis, tu ormai non li senti più dal luogo in cui sei per sempre, ma sono tornati i trolley, hanno occupato tutto, trascinando le calli in un gorgo vuoto.
Ma il silenzio, vera voce di Venezia, vuole sopravvivere ancora.
Ci si chieda, prendendo in prestito parole calzanti di un bellissimo racconto, Il Doge: che cosa ha fatto «di Venezia, con un mezzo così ordinario e semplice, anziché la città del silenzio la più rumorosa di tutte?» (Palazzeschi, 2005: 55) [9].
Il silenzio, la musica di Venezia, l’ha abbandonata.
Troc Troc grag trrrrr…Il gracidio stolido delle rotelle dei trolley invade ogni più remoto pertugio, ogni più indistinto camminamento. Chi con maggiore, chi con minore fretta, transitano, se li trascina dietro, senza grande interesse e comprensione, il Turista anonimo, immemore e indistinto nella massa in cui, quotidianamente, si confonde; la massa, come ricorda Harari, è irrilevante, e il trolley con il fastidioso ronzio non salva il suo anonimo trasportatore dall’immediato oblio.
Senza intervalli di riposo mai, senza particolare interesse per la voce della città, vanno e tornano in migliaia identici e immutabilmente sempre diversi. Le voci che la popolano, questa isola città, i passi che la percorrono, non sono riconoscibili, sempre nuovi e transeunti. Dai tavolini degli innumeri ristoranti e bar, cianciare in una babilonia di suoni, non più armonia.
Eppure, la Calle conserva ancora il suo filo di voce, è ancora come la descriveva Palazzeschi, che pure veneziano non era (2004: 56-58); riemerge il suo suono la sera, quando la ressa schiuma via:
Il silenzio, la musica di Venezia, l’ha abbandonata.
Venezia è mutata, Venezia è un’isola tutta bucata.
Il paesaggio spaziale: i nonluoghi e la città aeroporto
Marc Augé (2009) [10] distingue tra luoghi antropologici, cioè spazi insieme storici, relazionali e identitari e i nonluoghi, creati dalla surmodernità: sono nonluoghi tutti gli spazi di passaggio (autostrade, svincoli e aeroporti), i mezzi di trasporto, o gli spazi creati per il transito di persone e merci come i grandi centri commerciali, gli outlet, i campi profughi, le sale d’aspetto, gli ascensori, ecc..
Mentre non v’è dubbio che le città d’arte siano storiche e che sia possibile e anzi favorito dall’assetto urbanistico l’incontro tre le persone, il problema fondamentale, pare, risieda soprattutto nel permettere che una città d’arte sia (o rimanga) identitaria, giacché richiederebbe «una relazione vitale fra persone, in quanto reciprocità di presenza» (Perucca: 1987: 234); non solo l’isola Venezia, dunque, ma le Isole Pianeta – modificando il titolo di un bellissimo libro di Manganelli (2006) – [11] tutte, che per la loro arte e bellezza siano ambite dalle mire predatorie dell’industria turistica [12]:
Sulla parola identità, come analizza Remotti (2010: XII), si concentrano le attese e le voluttà comunicative e politiche di molti, tanto da renderla una parola avvelenata:
O forse l’identità, è arte: «l’art, c’est qui résiste», come scrisse Gilles Deleuze. Allora perché è così difficile resistere, in luoghi come Venezia, dove l’arte è nelle pietre, nelle persone che vi nascono e vivono, e tutto d’attorno? Nelle calli, nelle distanze percorribili dall’uomo e non dalle macchine, nella struttura delle abitazioni, la relazione e la reciprocità sono favorite, si porrebbero come centrali.
Ci si chiede: È plausibile il paradosso per cui le nostre città d’arte e centri storici, stretti da globalizzazione e turismo di massa, stiano trasformandosi in nonluoghi, al pari di stazioni, outlet, attraversate come sono da uomini e merci in perenne movimento?
Il paradosso si può dire compiuto, come sostiene l’antropologo Davide Scotta, realizzato dalla globalizzazione diffusa [15]. E difatti, come ci ricorda sempre Michéa (2014: 202-203):
Marco Franzato, ultimo artigiano del vetro piombato a Venezia (ve ne è uno che ancora opera nell’isola di Murano), Campo Santa Maria Mater Domini (ph. Elena Nicolai)
Mentre sulle vetrine degli ipermercati, dei centri commerciali e degli aeroporti si rincorrono immagini brand di Venezia, o del piccolo ma prezioso centro storico di Mestre, mentre gli outlet mimano nelle loro architetture o coreografie gli spazi ricercati e delicati dei centri storici, il destino dei luoghi veri è quello di trasformarsi in una loro versione più scomoda, vuota di cittadinanza e riservata alla pervasività del transeunte, dove il tempo della merce e l’omologazione del consumismo ripropongono medesimi schemi e scelte obbligate per il tempo libero: acquistare e mangiare, in primis.
Il paesaggio spaziale di Venezia è mutato. Lo spazio a Venezia è tutto bucato.
La storica Stamperia Veneziana di Michele e Luca, Campo Santa Maria Mater Domini (ph. Elena Nicolai)
Isole nell’isola, piccole tappe di vita per la cittadinanza, quelle che resistono e non vengono fagocitate: sempre più radi artigiani, panifici, ferramenta e fiorai sono come oasi in un deserto antropologico fatto di attività deterritorializzate, di novizi del territorio e di persone in transito.
Chi viene sempre di più a mancare è l’anziano: non l’individuo anziano per età che, anzi, forse le persone anziane saranno le ultime a poter rimanere ancora, mentre i giovani e le famiglie continuano ad abbandonare, in una mortale emorragia, la città; ma l’anziano nell’accezione pedagogica dell’apprendimento comunitario, cioè l’individuo esperto, che consente avvenga un affiancamento e una guida dei novizi, dei nuovi arrivati, e la gradualità del loro ingresso nella sfera partecipativa; è proprio questo graduale inserimento che permetterebbe una reciproca conoscenza e l’avverarsi di una trasmissione culturale e dei valori e dei principi fondanti la comunità, la loro condivisione e comprensione:
Ferramenta storica aperta alle esigenze della cittadinanza, San Giacomo dall’Orio (ph. Elena Nicolai)
I foresti a Venezia sono tutti di inconsapevoli novizi lasciati a loro stessi. Gli effetti più immediati ed empiricamente tracciabili riguardano la trasformazione del paesaggio, dello spazio pubblico, la loro omologazione e deterritorializzazione; ricordiamo che: «Quando la differenza è soltanto di sviluppo, l’omologazione può anche voler dire crescita, ma quando la differenza è di identità, l’omologazione vuol dire perdita, se non annientamento» (Perucca 2012: 46) [18].
La perdita è in atto, vertiginosa. Lo spazio pubblico e, ancor più, quello riservato alla cittadinanza, lo spazio storicamente residenziale, è stato eroso: le calli e i campi, le rive, sono sempre più ingombre di persone, tavolini, di vele e di menù dei ristoranti, di ombrelloni per il plateatico e finanche di fioriere per delimitarli e proteggere gli avventori dal contatto con gli sventurati che pensano ancora di poter passare nelle calli strette, di aver diritto di transito nei campi; ed ancora, ribollono tutti i sestieri, anche le calli e le zone che prima erano di fatto esclusive della residenzialità e protette dall’esplosione del turismo di massa, di espositori di merce di bassa qualità, di importazione e distribuzione all’ingrosso prevalentemente cinese e rivenduti in particolare da cittadini delle comunità bengalese e cingalese; chincaglieria a vocazione esclusivamente turistica, deterritorializzata in toto; infine, di carrelli per il facchinaggio in rotta da e verso gli hotel. Ristorazione e fake souvenir i settori più globalizzati, in Italia come in tutta Europa, deterritorializzati e dissonanti: nuova normalità visiva imposta per il numero soverchio e incessante di esercizi adibiti a questa funzione e in tutte le città, non solo quelle meno difese come Venezia appunto, ma anche Roma e Firenze e, a farci caso, più o meno dappertutto.
Sembra, questo affastellamento di attività scollegate dal territorio e del tutto sproporzionate rispetto alle esigenze dell’esigua popolazione residente, costituire un non rado ma quanto mai avanzato caso di entropia turistica.
Il “Souq di San Zaccaria” nel centro di Venezia, letteralmente con sacchi di merce a basso costo gergalmente nota come paccottiglia e vestiti da mercato, non certo artigianato locale (ph. Elena Nicolai)
Rileggiamo: apprezzamento del bello; ma è un pragmatismo economico avulso dal gusto quello che si impone, incapace di realizzare la memoria di una vetrina curata, della tradizione artigiana; nella messe infinita di tali negozi e ristoranti, diviene impresa titanica ritrovare bella persino una città d’arte come Venezia.
Resistono alcuni negozi di prossimità, botteghe artigiane, esercizi per una popolazione residente e il visitatore non disaccorto: come fari, l’occhio li riconosce dopo zone scure, interamente ormai specializzate per il turismo, tematizzate proprio come negli aeroporti, souvenir industriali e concatenazioni di attività di ristorazione.
Il “Souq di San Zaccaria” nel centro di Venezia, con merce a basso costo esclusivamente a vocazione turistica, la paccottiglia (ph. Elena Nicolai)
A Venezia, il tema è quanto mai monotono, monocorde, ossessivo e ossessionante: ristorazione non italiana ma all’italiana, de facto un settore lavorativo molto specializzato su base etnica nella titolarità degli esercizi e nella manodopera, con prodotti evocativi di una tradizione vera ma sempre meno reperibili sul mercato locale e, tantomeno, di produzione artigianale, che ingannano l’occhio del turista. La tradizione enogastronomica, così regionalmente ricca e variata, tende a riformarsi in ottica gourmet o in un numero finito e riconoscibile di piatti standard, omologati e proprio per questo imponibili sul mercato.
I banchi ai piedi del Ponte di Rialto, cuore di Venezia, ora uniti a due a due a formare un’ininterrotta catena di paccottiglia (ph. Elena Nicolai)
Vi si aggiunge il finto made in Italy che nemmeno più mima il prodotto artigianale locale, ostenta bassa qualità e basso costo (come borse di cattivo pellame ma con etichetta vagamente italiana o veneziana, calamite, vestiti e cappellini tanto colorati quanto esogeni rispetto al contesto, vetro non artigianale, ecc.) e si confonde tra merce non tipica come occhiali da sole, cappellini, borsette a pupazzo ecc.: merce per lo più di importazione che si trova uguale, con pochi adattamenti per accennare a un brand e alla tipicità vulgata del luogo, in tutta Italia (si pensi alle magliette e alle calamite o alle borse di pelle) e in Europa (si ritrovano le stesse mercanzie finanche in Asia Centrale, nel mercato di Bishkek ma, lì, ci sono meno cappellini di plastica colorata con orecchie semoventi). Come se questa sovrapproduzione industriale dovesse per forza tenersi occupata e occupare il mercato.
Si sono susseguite negli anni delibere comunali e iniziative [21] per limitare il fenomeno di questi negozi di “paccottiglia”, come è stata definita non senza ragione dalla stampa locale, ma apparentemente senza risultati apprezzabili in termini di liberazione del territorio; in particolare, non sembra siano efficaci nell’impedire l’utilizzo indebito del suolo pubblico, occupato sempre più da espositori di tali merci, rampicanti sui muri e sulle porte adiacenti o stiracchiati in mezzo alle calli.
Negozio espanso “rampicante” di merce a vocazione turistica definita gergalmente paccottiglia ricorsivi (ph. Elena Nicolai)
Di fronte alla proliferazione e alla pedissequa riproposizione della stessa merce, degli stessi prodotti e delle ricorsive e omologate offerte della ristorazione, diventa davvero complesso non lasciarsi fuorviare, scorgere l’autentico tra l’inautentico: si cade nell’illusione indotta che sia davvero l’unica opzione che offre la città, percepita anch’essa, infine, come finta. L’illusione prosegue nelle altre città, anche nei centri minori (si pensi alle località balneari) ma, a Venezia, appare quanto mai dittatoriale. L’offerta, un’offerta ripensata, migliorata in qualità e regolamentata, può ri-orientare la domanda e accogliere differentemente il visitatore disinformato ed estenuato da questo circuito esacerbante? Chi consuma, nel turismo di massa, viene di fatto consumato dall’offerta stessa.
Negozio espanso “rampicante” di merce a vocazione turistica definita gergalmente “paccottiglia ed espositori su suolo pubblico (ph. Elena Nicolai)
Non è la sola Venezia, però: la globalizzazione porta con sé ovunque la deterritorializzazione di persone, merci, cibi, luoghi. Rimangono le (debite) aspettative dei viaggiatori ma, come mai non sanno distinguere, evitare, limitare essi stessi con il loro potere di non comprare, l’emergere di questo contagio? Hanno ancora un senso, i souvenir globalizzati? A fronte di un prezzo basso, l’impatto ormai sul territorio chiaramente non è positivo ed è enorme. Come suggeriva e auspicava Goisis, la chiave di volta è nel condividere cultura, far sì che il turista giunga e apprenda, condivida il sistema valoriale e storico della città: ma questo richiederebbe tempo, un tempo umano che l’economia non consente, che il turismo, per lo più giornaliero o comunque entro un limitato periodo di ferie, non contempla.
Vediamo in azione ciò che Appadurai [22] definisce i cinque mondi immaginati in perenne movimento, in particolare i finanscapes (finanziorami) movimenti fluidi del denaro, e gli ethnoscapes (etnorami), paesaggi di persone in movimento: turisti, migranti, profughi, lavoratori stagionali etc. La loro instabilità fisico-geografica, dettata dal movimento e dal pensiero stesso, o volontà, di movimento globali ha un impatto sulla politica interna e internazionale e sulla comunità locale, sulla cittadinanza di quella che, pur sempre aperta al commercio e allo scambio, è un’isola. E sulle loro immaginazioni, con i fenomeni di indigenizzazione ed eterogeneizzazione culturali.
Il paesaggio interno, lo spazio abitativo, è anch’esso un susseguirsi di vuoti: palazzi venduti cambiano la destinazione d’uso acquisendo quella turistica, cinema diventano ristoranti e case di riposo alberghi; magazzini diventano pizze al taglio e locazioni turistiche, come ogni casa che la vita, nel suo finale, rende vuote. I finanziorami qui accorrono, sempre più indifferenti al singolo privato, sempre più accentrati e condensanti: intere fette di città si staccano, si delocalizzano, perdono il riferimento dell’essere di cittadini, di residenti.
In questo scenario così vorticoso, volubile, come può una comunità resistere? Quale efficacia possono avere le misure prese a livello di governo locale, o statale?
San Polo: […] “Sono proibiti tuti li giochi quali si siano e vender robba e metter bottega intorno a questa chiesa”
Eppure a Venezia le pietre serbano memoria di una strategia opportuna: normare, gestire, creare spazi sacri, non perturbabili, è stato possibile. Sui muri delle chiese di Venezia non è raro trovare ancora traccia intatta di moniti e proibizioni, o tra i masegni, il segno di un limite per i commerci e i comportamenti umani; troppo spesso, però, a non saperli leggere sono sia i veneziani che gli individui estranei a Venezia, che pure le onde della globalizzazione hanno sospinto sino a qui.
Perché sarebbe importante riscoprire il sacro e valorizzare l’estraneità come un’opportunità e nient’affatto una discriminazione? Ricordare che chi è nuovo, finché non matura e si compie la trasmissione culturale che relaziona al territorio, è estraneo, aprirebbe un paesaggio di dialogo immenso. Perché, ad esempio:
San Polo: intorno alla medesima chiesa e iscrizione, un esempio di frequentissime ex edicole ormai negozi “espansi” adibiti alla vendita di oggettistica di bassa qualità a vocazione turistica (ph. Elena Nicolai)
Contrariamente al precetto neoliberista dello ius omnium ad omnia, il diritto di tutti a tutto, come lo definisce Michéa, e quindi la facile massima Venezia non è dei veneziani è di tutti, riscoprire l’estraneità al luogo avvicinerebbe al rispetto del sacro, rallenterebbe la logica di spoliazione del territorio e l’emarginazione della comunità locale che causano il capitalismo accelerato e le fauci del turismo di massa.
Riconoscersi estranei, novizi in una comunità per disporsi a conoscerla e a riconoscerne i valori, i limiti, gli spazi sacri; questo consentirebbe di arginare gli interessi dei finanziorami, in modo che si realizzi quel dialogo modificante proprio della trasmissione culturale:
Marmo posto tra i masegni che delimitava il “sacrum”, oggi occupato dai tavolini di un ristorante (ph. Elena Nicolai)
Trasporto bagagli, un altro settore tipicamente interessato dal fenomeno della specializzazione del lavoro su base etnica (ph. Elena Nicolai)
Venezia, è arrabbiata. Venezia è un’isola tutta bucata.
Il paesaggio umano: una diaspora senza nome
È il paesaggio umano, il terzo paesaggio che si sta svuotando, che non riesce a conservarsi e si è quasi perso del tutto in queste due ultime generazioni: un vuoto, una voragine ad ogni passo, segnata dal proliferare delle locazioni turistiche laddove vivevano residenti, bambini e giovani, e dalla sparizione dei negozi storici.
Il problema dello spopolamento di Venezia [26], dell’isola con le sue isole minori, affonda le sue radici nel secolo scorso, si ripropone con urgenza e apprensione, accelera assieme al capitalismo.
Che i giovani, che le famiglie abbandonino Venezia, la Giudecca o Murano e Burano, il Lido, o non vogliano ritornarvi (ma questo nostos, è poi davvero possibile?) è un fenomeno che viene naturalizzato, accettato appunto come necessità naturalizzata in un sistema di economia di pensiero.
Questa logica impoverita è descritta con un calzante sillogismo, la logica impoverita delle tre N, come lo definisce Del Gottardo (2018:181-197):
Ma l’homo mobilis, compresso e trascinato com’è negli etnorami, può permanere?
Venezia è anche qui un luogo privilegiato di osservazione, che potrebbe giovare all’analisi e alla rimodulazione delle narrazioni e delle dinamiche dei flussi culturali ed economici globali, perché la politica (soprattutto quella locale) ridisegni per primi lo spazio del lavoro e quello dell’abitare: non lasciate fare, lasciate passare ma lasciateci fare, lasciateci rimanere. Assistiamo invece a quello che è un vero e proprio ver sacrum capitalistico, su scala mondiale.
Quella dei Veneziani è una diaspora che non suscita empatia in nessuno, quasi fosse un capriccio o un’operazione di mercato; eppure è il medesimo destino che accomuna tanti centri storici, quartieri, città, spopolate e ripopolate in un flusso continuo di domanda e offerta legata alle opportunità di un’economia mondializzata, non solo alla cupidigia dell’industria turistica. Non vi concorrono solo le note difficoltà del mercato immobiliare e l’inaccessibilità del costo della vita, la progressiva elisione dei servizi: sono le leggi del mercato e di migrazione totale che agiscono anche in Venezia e che hanno ricacciato via per prime le classi meno abbienti, poi anche la classe media ed infine… il vuoto è inghiottito dall’ingordigia del turismo di massa e delle attività commerciali che vi fanno capo, strozzando gli spazi di resistenza.
Perché la città riprenda il suo tenue filo di voce, si dovrebbero magari applicare più rigorose norme, adottare misure protezionistiche? Servirebbe comunque una precisa strategia e politica del lavoro, che crei cittadini residenti e non precarizzati, stagionali, non posted workers a rotazione, che induca al crearsi di settori lavorativi e produttivi caratterizzati dallo sfruttamento differenziale e specializzati su base etnica [27] (Basso, Perocco: 2003; Perocco 2021), non generare scomodi pendolari. Riportare lavoro in città, oltre la monocultura e l’indotto turistico e sostenere artigiani, favorire il ritorno degli uffici e dei loro impiegati, di docenti; richiamare medici, scienziati, valorizzare le scuole basterebbe? Concedere affitti calmierati per i residenti sarebbe forse un terzo, auspicabile passo? Ma è davvero una strada percorribile da una politica esclusivamente locale?
Emblematico il caso degli Uffici del Catasto per cui, la scorsa estate, si paventava un trasferimento a Marghera [28]: da un bene immobiliare che nemmeno è del comune, ma demaniale! Perché non sfruttare il potenziale degli edifici esistenti, comunali e non (l’Ospedale al Mare del Lido, le ex colonie ad esempio) e magari proprio demaniali e sfitti, per creare sinergie e investire in altri settori lavorativi?
E se gli uffici esistenti rimanessero e anzi, cominciassero a tornare a Venezia? Per le case sfitte dell’ATER lo stesso ente e lo IUAV hanno siglato recentemente un accordo importante [29]: perché non provare con una sinergia e strategia più estese? Nel frattempo, l’assottigliarsi inesorabile della cittadinanza e dei residenti nell’isola e nelle isole minori prosegue e il turista è sempre meno ospite, e sempre più mal tollerato.
Semplificando la riflessione sull’ospitalità e i rapporti tra stranieri a qualunque titolo e comunità locale, sono tre le variabili che, se in disequilibrio, hanno conseguenze negative e finanche irreparabili sul tessuto sociale: il numero, il modo, il tempo. A Venezia, sono tre campanelli d’allarme.
Servirebbe, nella narrazione pubblica e degli operatori del settore, abolire questa parola fintamente democratica, turista, per sostituirla con una più chiara lente di ingrandimento che metta a nudo le reali intenzioni (e desideri, e limiti) del visitatore e gli rendesse esplicito il suo impatto sul territorio?
Se si rinominassero, di fatto già operando una selezione, viaggiatori? Appassionati d’arte, musicisti, storici, scienziati cui viene riservata una precisa offerta di qualità? Artigiani e artisti, che possano non solo ammirare, ma confrontarsi, anche tra privati cittadini e a latere di grandi eventi? Servirebbe, dare un nome al motivo del loro soggiorno, per rompere la scorza della massa? In quanti, si sentirebbero invitati, se l’offerta turistica li chiamasse per il nome del loro reale interesse a venire in città? Se ci fosse un tetto agli alloggi, agli affitti, brevi, nelle isole e nella terraferma? Un daspo al trolley? Quanto al già citato disturbatore universale, la valigia con rotelle, qualcuno al comune forse ci aveva provato, nel 2014 e quindi ormai dieci anni fa [30], ma c’è riuscita invece senza troppo scandalo la Croazia [31].
Per ora, rimangono soltanto domande, solo speranze.
Per ora, Venezia è spopolata. Venezia è un’isola tutta bucata.
Adesivi “di sensibilizzazione spontanea” comparsi in più luoghi nel Sestiere di Santa Croce (ph. Elena Nicolai)
Di ponti levatoi e altri fossati
Già: Venezia è un’isola, con le sue isole minori e in dialogo con la terraferma: isola città, di natura anfibia. Venezia viene impropriamente definita “Centro Storico” in opposizione a “Terraferma”. Di cosa sarebbe centro? No, perché il suo centro ce l’ha, in Rialto e San Marco e non è, di grazia, centro storico di un bel niente, non di Mestre, non di Marghera, e nemmeno di Campalto. Questi piccoli paesi sono in interrelazione con Venezia, anch’essi però soggetti alla mutevolezza repentina degli interessi economici, delle mire speculative del business e alla pressione dei flussi migratori. E del turismo, indubbiamente.
Unite perché strettamente interrelate in un unico comune, nei decenni ci si è chiesti più volte se non convenisse separare Venezia e Mestre, con diversi referendum, l’ultimo dei quali nel 2019 [32]. Da Venezia e le altre isole si è migrato per mezzo secolo soprattutto verso Mestre, a Marghera, o fuori comune. Molti veneziani, per sfuggire alla calca e alle orde di visitatori, trovano un ottimale rifugio nell’isola del Lido.
Ma ora, sempre più, anche la terraferma subisce una trasformazione per il moltiplicarsi delle strutture ricettive e, per effetto del richiamo di specifici settori economici, tra cui sicuramente quello turistico, il territorio si sta velocemente specializzando su base etnica.
In contraltare alla specializzazione su base etnica di numerosi indotti del settore turistico (ristorazione, facchinaggio e vendita di paccottiglia in primis) ma anche delle costruzioni, nel settore industriale a Marghera, quest’ultima e Mestre stanno velocemente mutando la loro geografia umana e la tipologia di attività commerciali, con un’inarrestata tendenza all’autosegregazione dei diversi gruppi della cittadinanza. E da Venezia e dalla terraferma si emigra più lontano, in case più nuove, in altri comuni dove il tessuto cittadino tiene, dove i servizi rimangono, o in altra provincia. Anche qui, nuovi vuoti emergono e nuovi pieni.
A Città del Messico, a Fez, venti anni fa almeno, in centro vivevano i poveri: la classe media, i ricchi, si spostano nei quartieri residenziali, più comodi, con abitazioni nuove e ritenute più funzionali. In Pakistan le nuove città come quella di Bahria Town hanno ingressi securizzati (come già da tempo interi quartieri nuovi di Città del Messico) e non si entra senza qualificarsi e senza un motivo.
Sono aree riservate ai residenti, pertinenza di comunità naturalmente ricostituitesi non su base storica, relazionale e identitaria ma di censo. I quartieri nuovi, le nuove costruzioni, con il minimalismo e l’asettica impersonalità del loro stile, si replicano ovunque a proporre questo nuovo modello strutturalmente a-culturale, atipico. Ad Hammamet i quartieri residenziali sono segnalati con cartelli, quasi a monito del viandante, che di quel vincolo forte con il territorio non deve né può rivendicare alcuna parte ed è chiamato ad astenersi da comportamenti rumorosi e sguaiati.
Che cosa sta accadendo nel territorio del veneziano, al di là del Ponte della Libertà, del “ponte levatoio”? Si emigra, si immigra; si costruisce sempre più in alto; negozi di prossimità e attività commerciali anche qui chiudono, pressate dai vicini centri commerciali e dall’esondante crescita dei negozi e dalle attività che forniscono servizi dedicati prettamente ai cittadini delle comunità immigrate o che hanno titolarità straniera.
Il numero delle persone indotte al movimento è accresciuto anche per effetto di una seconda costante globale, quella della libido aedificatoria neoliberista: un costante accrescimento delle aree urbane, fino a diventare delle megacity. L’abbandono delle zone rurali, il conglobamento dei piccoli centri per confluire in queste complesse megalopoli, comporta migrazioni interne ai singoli stati dalle zone rurali alle aree urbanizzate, e dalle aree urbanizzate e impoverite verso rotte internazionali, dal centro alle periferie.
Emergono motivazioni e condizioni che delucidano come non si tratti semplicemente di migrare per godere di un diritto, dunque, ma di incarnare un dogma del liberalismo economico e culturale dell’homo mobilis, di rispondere ad una delle costrizioni dell’economia di mercato, l’unica via di parteciparvi e via di “salvezza”.
La terraferma assorbe il duplice pondo del turismo e della libido aedificatoria, nonché gli effetti ecologici e di disuguaglianza sociale propri del sistema capitalistico: in Viale San Marco, incombe minaccioso il progetto di una torre residenziale alta 60 m e con parcheggi e supermercato, laddove ora si trova un campo da calcio, inagibile perché la terra è stata inquinata dagli sversamenti dei fanghi di Marghera [33]; il parco San Giuliano, con il fronte laguna pensato come restituzione e compensazione per la cittadinanza di Mestre per l’inquinamento degli sversamenti delle fabbriche di Marghera (del cui intervento di bonifica il parco è l’effetto) subirà modifiche per consentire la realizzazione di zone di interscambio logistico e altri interventi cui si è opposta l’Associazione Amici del Parco che ha lanciato una fortunata e partecipata raccolta firme per costringere la giunta comunale a un nuovo confronto:
Parco di San Giuliano, una mobilitazione lunga vent’anni contro la cementificazione – La Nuova Venezia (gelocal.it)
Un territorio che non sembra poter avere pace e una politica che sopravvive in bilico in una dissonanza cognitiva che fa parere vere sia le ambizioni di regolare i flussi turistici, sia di voler salvaguardare l’ambiente, ma che poi non cessa di sfruttare, intensivamente, comunità e terre.
Il quadro si complessifica ulteriormente se consideriamo le intenzioni di ENI di aprire un inceneritore di fanghi a Fusina [35]e il ritorno, dopo quella che era parsa una vittoria definitiva della cittadinanza nel 2021, dell’incubo delle Grandi Navi in laguna, con il progetto di scavare canali profondi e ripristinare il traffico croceristico a Marghera Fusina e in Marittima [36].
In questo scenario complesso e inquieto, è stata inoltre introdotta una misura che, alla luce di questa complessiva gestione del territorio, appare quantomai irrelata. Al ponte levatoio, Piazzale Roma e in Stazione Ferroviaria, ora, si richiede un “ticket d’ingresso” di 5 euro ai turisti e, a tutte le categorie esenti, di registrare la propria presenza sull’apposito sito. Ai Veneziani residenti, si impone di registrare le persone che li vadano a trovare e che non siano esenti.
Sembra un nuovo profondo vuoto, l’ennesima frattura della comunità, l’irrisione di un legame di appartenenza alla comunità nazionale: non sbarre ma soldi, non certo per tutelare la residenzialità e nemmeno per regolare in alcun modo gli ingressi in città (che si possono regolare solo regolando l’offerta). A cosa serve, visto che non si prevede in alcun modo di arginare lo sfruttamento turistico e industriale del territorio?
Sembrano realizzarsi invece appieno i dogmi della crescita ad ogni costo e senza vincoli o confini, e il territorio è costretto a subirne (nuovamente) i danni ecologici e umani. Forse, rotolando il lento sasso di Sisifo di chi vorrebbe che la cultura, promossa, condivisa, sia la via di salvezza, sarebbe possibile sfuggire all’opposizione procustea rispetto a chi esercita il dissenso, l’opposizione a una politica anch’essa entropica proprio come il turismo.
Come già rifletteva Rist, se la decrescita da sola non può proporsi come soluzione, può essere la giusta ispirazione iniziale per raffrenare le spinte centripete che inducono a questo sovrasfruttamento della terra comunale e, anche, regionale: il Veneto è seconda alla Lombardia per consumo di suolo; terza, la Campania.
Perché non lasciar respirare terra, laguna e cittadinanza con un programma che preveda zero consumo di nuovo suolo, zero consumo di acque e zero consumo di aria: non costruire al posto di aree verdi, ripristinare misure più prudenti e rispettose per i plateatici, sancire l’opportunità che le zone residenziali rimangano tali e regolamentare in questo senso l’apertura di nuove attività commerciali e limitare le locazioni turistiche; non effettuare scavi in laguna, impedire la proliferazione del traffico acqueo sia pubblico che privato, non occupare nuovi spazi nell’acqua; non consumare nuova aria per realizzare edifici sempre più alti, abbattendo quelli preesistenti, non aumentare il traffico aereo.
Si è parlato di riscoprire il sacro, l’importanza dell’estraneità; si potrebbe, invero, ritrovarsi tutti in un ambiente più equo:
Venezia, equa e rinata? Anche solo imperfetta: Venezia come l’abbiamo conosciuta, come l’abbiamo amata.
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