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Vivere è improvvisare. Riflessioni su una pratica negletta
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2023 @ 00:43 In Cultura,Società | No Comments
di Neri Pollastri
L’homo sapiens è un animale fisicamente assai poco dotato, che deve la sua sopravvivenza e gran parte delle proprie fortune evolutive al modo in cui ha nei millenni sviluppato le proprie capacità di pensiero, grazie alle quali ha prima sopperito ai propri limiti, poi preso il sopravvento sugli altri esseri viventi nel pianeta in cui è nato e vive, inclusi altri ominidi quali i Neanderthal, infine – negli ultimi due secoli – ha iniziato a mettere a repentaglio l’esistenza su quel pianeta della vita stessa [1].
Tutto questo cammino fatto dalla nostra specie nel corso del tempo si basa essenzialmente sull’uso del proprio pensiero, finalizzato – sintetizzando con una metafora – alla raccolta di dati e alla costruzione di “mappe del mondo” – per esprimersi in modo più dotto, visioni del mondo, Weltanschauungen – sulla base delle quali elaborare dei progetti di azione capaci di ottenere con qualche sicurezza e una certa facilità cose che, per i propri limiti fisico-biologici, i sapiens non sarebbero altrimenti stati in condizioni di raggiungere.
Quanto appena detto richiederebbe subito una serie di approfondimenti che non è tuttavia questa la sede per fare; ci limiteremo perciò ad alcune precisazioni. La prima riguarda il fatto che, nell’attuale cultura di massa, l’importanza del pensiero è in realtà molto sottovalutata. Siamo infatti in un periodo storico, se non proprio di irrazionalismo, quantomeno di emotivismo, che tende a rimarcare la priorità – per esempio – del sentimento sulla ragione, del desiderio sul senso di realtà, dell’empatia sull’etica, del corpo (luogo in cui si manifestano le emozioni) sulla mente, e via dicendo [2].
Riguardo a questo tratto della nostra cultura ci limitiamo qui ad affermare, un po’ apoditticamente, che siamo di fronte a un’aberrazione: il sapiens è un essere vivente nel quale entrambe queste sfere convivono; assegnare la priorità a una di esse non può che comportare effetti nefasti. Non si tratta perciò di far prevalere né il pensiero, né l’emotività, bensì di farli convivere nel modo migliore e più armonico possibile [3].
La seconda precisazione riguarda il fatto che la tesi sinteticamente delineata richiama quello che si è soliti chiamare “problema della tecnica”, sul quale – specie nell’ultimo secolo e mezzo, a partire da Nietzsche e Heidegger – si sono sprecate le riflessioni dei filosofi. Si tratta di un argomento importante e impegnativo, certo, ma che affrontare qui sarebbe non solo e non tanto impossibile, quanto piuttosto fuori luogo, poiché tocca solo una parte della nostra tesi: i progetti che i sapiens mettono a punto non sono infatti solo relativi all’universo della tecnica, ma abbracciano tutti gli aspetti della loro vita. Per esemplificare con un caso estremo, chi decidesse di vivere facendo interamente a meno della tecnica – magari rinunciando perfino al fuoco, la cui scoperta è stata spesso idealmente posta a momento iniziale dell’era della tecnica [4] – starebbe già facendo un progetto da applicare alla realtà. Ed è lo stesso Heidegger, con argomenti esistenziali e non tecnici, a dirci che l’uomo è un “progetto gettato”, cioè un “esser-ci” (Da-Sein) “gettato” in un mondo nel quale porta avanti il suo progetto [5].
Per tornare a riprendere il filo del nostro discorso, il sapiens, forte degli innumerevoli vantaggi – indubbiamente conclamati da millenni di evoluzione – del suo progettar pensando, ha a tal punto interiorizzato questo importante aspetto del proprio modus vivendi da averne persa la consapevolezza: progetta senza quasi rendersi conto né di farlo, né soprattutto del fatto che, proprio in quel suo modus vivendi, ci sono e hanno inestimabile valore anche altri aspetti e altre prassi.
Uno di quegli altri aspetti è certo quello emotivo, che origina azioni “non pensate”, perché fatte a partire dalle spinte che vengono dal corpo e dagli effetti che su di esso hanno le emozioni. L’esempio più banale è il darsi alla fuga nel momento in cui si percepisce un’esplosione: non stiamo a pensare se si tratti di una bomba lanciata da un terrorista o di un banale petardo gettato da quel mattacchione di nostro figlio; no, il corpo reagisce al segnale – i muscoli si tendono, l’adrenalina sale, il cuore batte all’impazzata – e scatta ben prima che il pensiero si metta in moto, anzi, fa in modo che questo ritardi la sua azione rilasciando altre sostanze chimiche. Non c’è tempo per pensare, c’è da salvarsi, e l’evoluzione ha fatto sì che si sia fatti in modo da risparmiarlo; di solito è un bene, qualche volta una perdita di tempo (e quel mattacchione di nostro figlio, se è stato lui, ne pagherà un po’ le conseguenze), ma la storia della specie ci dice che la sommatoria è per noi comunque positiva.
Un altro degli aspetti extra-progettuali del nostro modus vivendi è l’abitudine: anch’essa scritta nel corpo, viene di solito acquisita attraverso o un addestramento, o una pratica ripetuta involontariamente (che di solito dà adito a quelle che tendiamo a chiamare “cattive abitudini”), e fa anch’essa sì che si agisca senza pensare, automaticamente, come “cani di Pavlov”. Così, quando il motore aumenta i giri, la mano, senza pensarci, corre al cambio per mettere la marcia superiore (l’abbiamo appreso con fatica ed errori, ma ormai lo facciamo senza mediazioni); vediamo il sol sull’ottava media scritto sul pentagramma e la stessa mano va da sola sul tasto corrispondente (quanto esercizio per permetterle di farlo senza l’insopportabile rallentamento del pensiero!); e, a fine pasto, la solita mano corre al pacchetto di sigarette (ecco la “cattiva” abitudine, che viene meno se ri-apprendiamo, faticosamente e con l’esercizio, a non fumare più).
Ma c’è (almeno) un altro aspetto non progettuale nel modus vivendi del sapiens, che talvolta dà luogo ad azioni non pensate, talaltra ad azioni pensate e tuttavia non (ancora) inserite in un progetto: si tratta dell’improvvisazione.
Quello appena riportato è il paragrafo che l’autorevole Dizionario Treccani, nella sua versione online, dedica all’improvvisazione. Come si può notare, «il fatto», o «atto», «d’improvvisare» è indicato occorrere in «un discorso, (…) un sonetto, (…) una mazurca al pianoforte, (…) una parodia, (…) una scenetta comica». Infatti, nel suo uso assoluto, il vocabolo pare rimandare esclusivamente al mondo dell’arte, in particolare alla composizione di versi «all’improvviso, senza preparazione e meditazione» e di musica «nell’atto stesso di eseguirla».
Si notino subito due cose: anzitutto, che al secondo stadio «il discorso» sembra già scomparso, o quantomeno ridotto a discorso poetico o musicale (sempre che la musica sia riconducibile a un discorso, ma qui non toccheremo questo tema); poi, che fa la sua comparsa la frase «senza preparazione o meditazione», che viene meglio specificata nel successivo capoverso, il quale evidenzia come l’improvvisazione «include talora un giudizio negativo, denotando la frettolosità, la mancanza di studio o di meditazione, se non anche la faciloneria».
Improvvisare, insomma, è “talora” sinonimo di faciloneria, in quanto manca di «meditazione», di «preparazione», di «studio». Si mette in atto per «frettolosità», insomma ha tutta l’aria di una cosa fatta alla buona, senza cura, da chi “non se ne intende”, perché se se ne intendesse avrebbe studiato e messo a punto un progetto da applicare – in campo musicale: una composizione da eseguire. Se ne potrebbe concludere che sia perciò una vera fortuna che la pratica sia limitata al mondo dell’arte, perché se essa si estendesse ad altri ambiti – quelli ove è indispensabile un pensiero progettante, fatto di studio, meditazione e preparazione – sarebbero guai grossi per i sapiens. All’arte, si sa, è possibile perdonare la frettolosità e la faciloneria: se piace, ben venga; se invece non piace, possiamo tranquillamente gettarla alle ortiche, e tanto peggio per il millantatore che l’ha prodotta.
Ma le cose stanno davvero come scrive il Dizionario Treccani, o meglio – visto che quel dizionario, come tutti i prodotti a lui simili, si limita a raccogliere e sintetizzare gli usi linguistici correnti – come pensa la maggioranza delle persone? È vero, cioè, che l’improvvisazione non richiede preparazione, che è segno di faciloneria e che viene praticata solo nel campo dell’arte?
No, nessuna di queste affermazioni è vera. Infatti – come recita un motto assai diffuso, del quale non si conosce con certezza l’autore [7] – l’improvvisazione non si improvvisa, bensì necessita di una lunga preparazione e di un costante, incessante allenamento; richiede inoltre, per essere eseguita, grande attenzione e persino una maturità e un equilibrio personale che non albergano nei frettolosi e nei millantatori; infine – e soprattutto – è probabilmente la forma d’agire maggiormente praticata dai sapiens, trovando di fatto spazio, in maggiore o minore misura, entro ogni ambito e in pressoché tutte le azioni umane.
Qualche lettore storcerà la bocca e sarà tentato di obiettare che si stia esagerando. Si sbaglia: davvero non esiste progetto, metodo, precetto, ricetta, procedura, norma predeterminata che possano essere eseguiti alla lettera. La teoria non combacia mai con la realtà, così come la mappa perfetta, come scriveva Jorge Louis Borges in Storia Universale dell’infamia, coincidendo con il territorio non è una mappa ed è perciò tanto inutile, quanto irrealizzabile. I sapiens abitano il mondo grazie ai loro progetti, ma per metterli in atto devono ogni volta adattarli, modificarli, correggerli, e per farlo hanno un solo modo: improvvisare.
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli e ciascuno può, riflettendo, trovarne nella propria esperienza. A chi non è mai capitato di mettersi a cucinare una ben precisa ricetta e di accorgersi di non avere uno degli ingredienti, oppure che mancava il tritatutto o il tegame di coccio, e ha dovuto cercare soluzioni alternative, che non influenzassero troppo il risultato finale? A chi non è successo, dovendo appendere un quadro, di accorgersi della necessità di chiodi ricurvi che però non aveva ed essersi dovuto ingegnare ad adattare il disponibile, oppure dovendo recarsi con l’auto in un dato luogo, di trovare la strada interrotta ed esser costretto a inventarsi un tragitto alternativo, del tutto a lume di naso (ovviamente mi riferisco ai tempi in cui non esistevano telefoni con navigatore integrato…)? Situazioni, queste, che – come si è soliti esprimersi – mandano all’aria tutti i nostri piani, ovvero rendono (almeno parzialmente) vani i progetti che avevamo fatto e ci costringono, in tempo reale, a modificarli, talvolta in modo anche piuttosto radicale. Ebbene, ogni volta che ciò accade, improvvisiamo. E, come ognuno di noi ben sa, accade spesso, a ben guardare ancor più spesso di quanto non ci appaia in prima approssimazione.
Ma non è ancora tutto, perché l’improvvisazione entra in gioco nelle nostre vite non solo quando “i progetti vanno all’aria” – momenti che tutto sommato potrebbero ancora essere rubricati tra le situazioni sfortunate ed extra-ordinarie – bensì anche in circostanze del tutto ordinarie, quali sono per esempio le conversazioni.
Se ci riflettiamo, infatti, siamo costretti a riconoscere che non c’è una sola conversazione che non sia improvvisata: quando incontriamo un amico, ci relazioniamo con un collega, ci rechiamo dal medico, persino quando andiamo al supermercato o dal fornaio, tutti noi improvvisiamo continuamente. Certo, in molte di queste situazioni abbiamo dei modelli di comportamento, spesso consolidati e quasi sempre sviluppati a partire dal progetto specifico che avevamo in mente e che ci aveva spinti a recarci in quel determinato posto o a incontrare quella certa persona; ciononostante quel progetto e quei modelli di comportamento non sono niente di più che degli schemi, dei canovacci che ci aiutano a improvvisare: nessuno di noi reciterà a memoria al collega, al medico, al fornaio, un discorso preparato in fase di progetto; nessuno di noi, per quanto abbia una lista della spesa ben precisa, la seguirà alla lettera una volta entrato al supermercato, né tantomeno avrà un progetto relativo ai passi e ai movimenti da effettuare nel negozio. E – ovviamente! – nessuno di noi, incontrando un amico, intavolerà con lui una conversazione fatta di frasi predeterminate in fase di progetto, e neppure di luoghi comuni con i quali destreggiarsi nello scambio verbale, il quale con ogni probabilità sarà movimentato dal fatto che anche il nostro amico farà lo stesso e ci dirà cose che in larga misura non avevamo previsto, per rispondere alle quali dovremo di nuovo improvvisare. Il bello della conversazione, del resto, sta proprio lì: ci arricchisce perché scopriamo qualcosa che non sapevamo prima, ci diverte perché “ce la giochiamo” con l’interlocutore, ci dà gioia perché – se tutto funziona – rinnova l’intesa e l’affetto con l’amico a dispetto dell’ignoto che egli porta con sé e del fatto che la affrontiamo assieme liberamente e “senza rete”.
È dunque sufficiente una riflessione minimamente più attenta per rendersi conto dell’importanza che la pratica dell’improvvisazione ha nella nostra vita. La ritroviamo infatti dappertutto: non solo laddove essa svolge un ruolo vicario, ancorché insostituibile, alle prassi metodologiche progettate, bensì anche e soprattutto in quegli ambiti dell’esistenza che consideriamo più intimi, toccanti e umani, quali sono i rapporti affettivi.
Ma non è ancora tutto, perché il ruolo svolto dall’improvvisazione va anche oltre e arriva a insinuarsi persino in uno dei momenti vitali della prassi progettuale: quello della sua messa a punto, della sua creazione. L’uomo, si sa, non crea dal nulla, si limita a trasformare, o almeno questo è quanto fa nell’ambito della pura materialità; laddove si tratta di spiritualità, invece, almeno qualche volta arriva anche a creare.
Prima di proseguire è forse necessario fare di nuovo una precisazione. Il termine “spirito” verrà qui usato esclusivamente nella sua accezione intramondana, secondo una modalità peraltro ampiamente in auge nel pensiero europeo tra il Settecento e l’Ottocento: le “scienze dello spirito” (Geisteswissenschaften) non si occupavano infatti di spiriti extramondani, che lasciavano alla religione, bensì di quelli che esistono nel mondo pur senza essere interamente riconducibili alla materialità. Per “spirito”, quindi, si intendono qui esclusivamente gli immateriali prodotti del pensiero e, di conseguenza, per “spiritualità” l’immateriale universo in cui il pensiero stesso crea e dà vita (incorporea) a quei prodotti. Qualcosa, va precisato, che non ha né evidenza, né necessità di avere un’esistenza indipendente dalla materialità corporea che lo ha creato e lo mantiene attivo, e che pertanto – per dirla con John Toland – essendo il prodotto immateriale della materia organizzata, vive e muore con essa.
Tornando dunque al nostro argomento, un progetto – sia esso tecnico, filosofico, letterario, artistico – altro non è che un prodotto spirituale messo a punto dall’uomo, spesso attraverso la raccolta di elementi spirituali già esistenti quali sono idee, schemi e forme, ma talvolta anche grazie alla loro vera e propria creazione, cioè alla produzione di idee, schemi o forme fin lì inesistenti. Ma com’è possibile che questo avvenga? Se l’uomo è un “progetto gettato” che si orienta nel mondo grazie alle proprie mappe, se vi ha successo a dispetto della sua conclamata imperfezione biologica solo grazie allo sforzo di trasformare la realtà applicando quanto progettato a tavolino, come può inventare qualcosa di nuovo, sia che lo faccia dando forma diversa a cose già esistenti o creandone di assolutamente nuove? La risposta a quest’interrogativo, data mille volte nel corso della storia e poi codificata da Karl Popper sulla scorta di Darwin, è: grazie al procedere per prove ed errori. Ma quel procedere, in realtà, ha un nome ben preciso, sebbene assai raramente pronunciato: improvvisazione.
Il processo per prova ed errori, caratteristico della ricerca e, più in generale, dell’agire umano in situazioni ignote – le quali, dato che la realtà è in continuo mutamento, sono di fatto numerosissime – è infatti per sua natura privo di metodo o di ricette ed è basato essenzialmente sulla libertà di scelta e d’azione da parte di colui che lo effettua: è solo quella libertà, quella possibilità di esercitare l’arbitrio in base a considerazioni che non sono conseguenze lineari di qualcosa di già previsto, progettato, codificato a seguito di esperienze previe, che rende possibile provare; e il fatto che ciò comporti un elevato rischio di errare è cosa che non avrà in questo caso un valore esclusivamente negativo, ma che invece verrà valorizzata in vari modi – facendone tesoro per non ricaderci, ispirandosi per mettere a punto nuove ipotesi da testare, facendone una base per un nuovo percorso sperimentale, e via dicendo.
La libertà, dunque, e l’errore, due parametri che nel procedere metodico-progettato non hanno dignità (il secondo ha un valore esclusivamente negativo, la prima è alla fin fine solo mancanza di rispetto del progetto, ovvero mera indisciplina), sono invece i pilastri del processo che caratterizza lo sviluppo evolutivo, la ricerca e la creatività, così come lo sono della prassi improvvisativa – e ciò prova come quest’ultima sia un essenziale momento intrinseco agli altri processi.
Se, come ci è apparso, improvvisare è una delle prassi portanti del vivere umano, senza la quale neppure il suo caratteristico tratto esistenziale – l’essere un “progetto gettato” nel mondo – potrebbe attuarsi concretamente, come si spiega il fatto che l’improvvisazione da un lato, come abbiamo visto, venga perlopiù connotata di negatività, dall’altro non sia mai stata presa seriamente in considerazioni nelle ricerche antropologiche, psicologiche, filosofiche? Perché le sono stati al massimo dedicati degli studi concernenti la sua pratica in ambito artistico e non ci si è mai occupati con maggiore analiticità del modo in cui essa funziona in campi quali la conversazione, la ricerca scientifica, la filosofia, la creatività nei più diversi ambiti pratici (l’ingegneria, l’architettura, l’artigianato, la botanica, l’educazione, ecc.)?
Non pretendiamo di rispondere compiutamente qui a questi interrogativi, che meriterebbero un maggiore approfondimento, e ci limiteremo a indicare alcune possibili ipotesi di risposta. La prima è che l’improvvisazione sia stata trascurata o, per meglio dire, obliata perché se ne aveva paura. Proprio a cagione dei suoi limiti e deficit intrinseci, il sapiens non è di solito a proprio agio quando deve affrontare le cose “a mani nude”, senza cioè poter contare su progetti, istruzioni o, comunque, esperienza pregressa da poter riutilizzare. In quei casi, tende a sentirsi solo di fronte all’ignoto e a non fidarsi di sé stesso [8]; ammettere l’importanza e la pervasività di una prassi incerta e responsabilizzante qual è l’improvvisazione poteva perciò risultare inquietante e destabilizzare l’equilibrio esistenziale della cultura dei sapiens.
Una seconda ipotesi, complementare alla prima, è legata alla priorità che nella cultura umana hanno, e hanno sempre avuto, le opere rispetto alle prassi. Una priorità che, come ben si capisce, riguarda il valore e non l’ordine cronologico, secondo il quale, ovviamente, l’agire pratico – o forse sarebbe meglio dire prassico – viene necessariamente sempre prima dell’opera compiuta, essendo questa l’esito conclusivo di quello. È infatti l’opera, se ben riuscita, la depositaria di quell’ideale perfezione a cui il sapiens sempre tende, forse ancora una volta per l’ambizione di trascendere la propria costitutiva imperfezione; la prassi, invece, essendo ontologicamente legata all’agente, cioè proprio a quel deficitario sapiens, ne condivide l’imperfezione e sembra perciò non meritare troppa considerazione: non può non essere svolta, ma con l’occhio alla perfezione dell’opera e sotto la guida di un modello altrettanto idealmente perfetto qual è il progetto, non perché abbia un valore in sé [9]. Il suo valore è meramente strumentale e non merita attenzioni che vadano oltre il suo uso.
Una terza ipotesi, che va a completare la precedente, è legata al fatto che la processualità è da sempre vista come un momento di passaggio privo di una “sostanza ontologica”: ciò che “veramente” conta sono l’essere – che compete alle cose, agli enti – e il suo venir meno, il nulla; la loro permutazione, così come l’agire che accompagna tale mutamento, appare solo come un temporaneo e poco significativo momento di passaggio. Ne è prova il fatto che, nella storia del pensiero filosofico, il divenire è (quasi) sempre stato subordinato ai suoi correlati essere e nulla, a dispetto del fatto ch’esso sia il loro ineludibile momento di collegamento.
Un’ultima ipotesi, o forse solo un corollario della precedente, è che dare attenzione e centralità esistenziale a una prassi processuale ontologicamente incerta e strettamente legata all’errore qual è l’improvvisazione sarebbe entrato in collisione con quella pervasiva cultura che maggiormente ha cercato – e tuttora cerca – di dare risposta all’esigenza di assolutezza e perfezione dei sapiens: la religione. L’improvvisazione, infatti, pone l’accento sulla finitudine umana; sottolinearne l’onnipresenza e mostrarne l’insostituibilità sia nella messa a punto, sia nell’applicazione delle prassi normate, avrebbe indebolito la “sacralità” di queste ultime, incluse quelle religiose. Ne sarebbe potuta scaturire una rivalutazione del finito e dell’imperfetto rispetto all’infinito e al perfetto, con la conseguente destabilizzazione degli ordini gerarchici in ogni campo – epistemologico, sociale, etico, estetico.
Ma, come accennato, quelle riportate sono solo ipotesi sulle quali riflettere e da cui non è certo questa la sede per trarre conclusioni. È invece forse giunta l’ora di indagare tanto su di esse, quanto sulla prassi improvvisativa in generale. Ma, per farlo, da dove possiamo partire? Una prima, parzialissima risposta a quest’ultimo interrogativo rimanda a quanto detto nella prima parte di queste riflessioni: il sapiens improvvisa, sempre, anche quando crede di non farlo e di essere impegnato in semplici “esecuzioni” di progetti idealmente perfetti e conclusi; di più, egli improvvisa anche quando mette a punto quei progetti. Da qui dovrebbe partire un’indagine che abbia di mira saperne di più non solo su quella prassi ma anche – e forse soprattutto – sull’umano agire esistenziale: dall’analisi dell’agire concreto, delle sue forme e modalità, di come esso s’incrocia con altre prassi non improvvisate, di come risponde alle esigenze umane e alla necessità di essere giustificato e validato a ogni sua occorrenza.
Una seconda risposta, più feconda ancorché aperta e precaria, rimanda invece agli studi che, nonostante l’oblio in cui è stata relegata la prassi improvvisativa, pur esistono su di essa: quelli svolti, cioè, sul solo campo nel quale le è stata lasciata legittimità – quello dell’arte.
E qui la buona notizia è che non solo delle ricerche esistono, ma anche che esse si stanno moltiplicando e stanno anche allargando il loro sguardo aldilà del mero ambito artistico.
Ovviamente, in campo artistico non sono mai mancate le riflessioni, le teorizzazioni e i manuali per l’apprendimento dell’improvvisazione, specialmente nei settori della musica, della danza, del teatro e della poesia [10] (più raro l’uso dell’improvvisazione nelle arti figurative e perciò anche la riflessione su di essa). Anzi, in ambito artistico gli studi sono talmente copiosi che sarebbe fuori luogo elencarli qui. È tuttavia proprio dalle riflessioni svolte in ambito musicale che, negli ultimi anni, si è iniziato prima ad approfondire la ricerca, poi a censire e analizzare quanto prodotto da artisti e musicologi, infine a cercare di sistematizzare il concetto e la prassi, aprendo in tal modo la via a ricerche epistemologiche trascendenti l’ambito specifico e rivolte, forse per la prima volta, allo studio dell’improvvisazione “in sé”, intesa cioè come prassi umana universale, diversamente e opportunamente declinata nei diversi campi dell’agire umano.
La ragione di questa priorità dell’ambito musicale è presto detta: perché in questo campo artistico l’improvvisazione ha avuto da sempre uno spazio – la musica si origina, nella notte dei tempi, come pratica sociale estemporanea, ed era esercitata anche da grandi grandissimi compositori come Johan Sebastian Bach, che era solito improvvisare con la propria famiglia, Wolfgang Amadeus Mozart, che improvvisava nei concerti nelle corti europee, o Niccolò Paganini, che “non ripeteva” proprio perché quel che aveva suonato era improvvisato e non scritto – e nel corso del Novecento è diventata parte dell’attività artistica di molti importanti compositori, che si sono rivolti a essa per provare a superare i limiti della musica scritta. Inoltre, sempre nel Novecento è nato un genere di musica – il jazz – che, fin dalla propria origine, ha fatto dell’improvvisazione esplicitamente uno dei suoi tratti essenziali. Con l’andar del tempo l’incontro di musicisti classici contemporanei di matrice europea con quelli provenienti dal jazz, le cui radici sono invece afroamericane, ha prodotto confronti, spesso anche critici, che hanno fatto emergere meglio sia gli elementi caratterizzanti la prassi generale, sia la necessità di una sua comprensione più profonda e dettagliata.
È su questo crogiolo di studi, ricerche e dibattiti, peraltro sempre ben radicati nella conoscenza e nell’analisi delle prassi concrete, che può essere opportuno far convergere l’attenzione per iniziare ad avvicinare la comprensione dell’improvvisazione “in sé”.
A beneficio di chi volesse avvicinarsi al tema, un primo lavoro utile è la recente monografia di Francesco Giomi, Musica imprevedibile. Storia, metodi e training per l’improvvisazione collettiva [11]. Si tratta di una corposa rassegna dell’improvvisazione musicale novecentesca che passa dalla contemporanea al jazz, dalla musica elettronica alle sperimentazioni, soffermandosi in modo chiaro e istruttivo, sebbene necessariamente non esaustivo, non solo sulle riflessioni degli artisti – da compositori contemporanei come Berio, Scelsi, Karlheinz Stockhausen, Bruno Maderna, John Cage, Cornelius Cardew, a jazzisti dell’area del free jazz, fino alla ricerca musicale condotta in Inghilterra e in Italia negli anni Sessanta e Settanta [12] – ma anche su quelle di musicologi [13] e filosofi.
Proprio i filosofi, infatti, negli ultimi anni hanno iniziato a occuparsi di improvvisazione [14], in parte per affrontare temi di tipo propriamente estetico, in parte per comprendere meglio l’improvvisazione e la sua apparentemente paradossale caratterizzazione di pratica tanto libera e ametodologica, quanto accurata e valutabile attraverso criteri ben precisi, ancorché cangianti.
Tra i primi filosofi a occuparsi di improvvisazione non solo dal punto di vista dell’estetica, o quanto meno a suscitare con i suoi studi un interesse non solo settoriale, è stato Davide Sparti. Appassionato di jazz, proprio da questa musica ha mosso le sue ricerche, inizialmente guardando all’improvvisazione come pratica culturale e sociale, considerando il suo – interessantissimo e contrastato – rapporto con la tradizione e spingendosi ad affacciarsi oltre il suo impiego in ambiti artistici [15]; poi, occupandosi del significato identitario che una musica per sua natura in mutamento aveva per il popolo che l’aveva originata, ovvero i neri americani, a loro volta in continuo mutamento socio-identitario [16]; in seguito, ancora, dedicandosi a studiare il rapporto tra opera e prassi, ovvero tra musica scritta e musica improvvisata, e il ruolo della presenza fisica dell’esecutore, ovvero del suo corpo, nella “creazione istantanea” [17]; infine, trattando gli aspetti identitari dell’improvvisare (in musica) sui singoli agenti – i musicisti – obbligati per statuto a “tradire” loro stessi per trascendere ogni volta le loro produzioni artistiche, così da evitare il rischio di trasformare l’improvvisazione in una mera ripetizione di quanto eseguito in precedenza [18].
Sempre nello stesso decennio Gary Peters, docente alla St. John University di New York, pubblica The Philosophy of Improvisation, altro lavoro seminale che cerca di cogliere i tratti caratterizzanti la prassi improvvisativa in quanto tale, studiandone le occorrenze in ambito musicale e mettendola in correlazione con intuizioni presenti nella storia della filosofia. Solo qualche anno più tardi, nel 2012, esce Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica di Alessandro Bertinetto [19], rassegna di questioni aperte nell’estetica musicale che, nelle ultime pagine, porta in primo piano la musica improvvisata, osservando come essa metta in rilievo l’importanza delle relazioni e del comportamento dei soggetti coinvolti – musicisti e pubblico – così come degli «aspetti visivi, gestuali, spaziali», che vi assumono un ruolo decisivo tanto nella creazione, quanto nella recezione della musica:
Ripartendo da queste osservazioni, che si ricollegano a quanto già esplorato da Sparti, Bertinetto negli anni successivi ha approfondito la ricerca in numerosi articoli e in due altre monografie. Nella prima, Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione [21], ha affrontato temi come lo statuto ontologico dell’improvvisazione, il confronto con quello di opere sia scritte, sia registrate, e soprattutto la sua logica procedurale, ovvero la sua normatività, resa solo apparentemente impossibile dalla sua ametodologicità e libertà, ma in realtà solo irriducibile alle modalità lineari che siamo soliti applicare nell’agire progettual-applicativo; nella seconda, Estetica dell’improvvisazione [22], ha ripreso l’importante tema della normatività, ampliando lo sguardo oltre l’ambito musicale e analizzando l’esercizio della pratica in altri campi sia dell’arte, sia extra-artistici. Questo lavoro, analiticamente eccellente, è una vera miniera di spunti e riflessioni, oltre a includere una ricca serie di riferimenti alla letteratura filosofica che si occupa dell’argomento [23].
Manca ancora, in buona sostanza, un’estensione delle ricerche ai campi delle pratiche più ordinarie, della conversazione e delle pratiche della ricerca, sia scientifica, sia soprattutto filosofica. Se nel primo caso potrebbe essere utile avvalersi degli studi dell’etnometodologia [24] e nel secondo di quelli già svolti sul fenomeno della conversazione [25], nel terzo siamo su un terreno assai più inesplorato e ostico, anche a cagione del suo essere la ricerca scientifica e filosofica uno dei molti ambiti in cui i sapiens coltivano la loro ambizione per la perfezione e la definitiva compiutezza, come abbiamo visto in rotta di collisione con la costitutiva imperfezione e contingenza dell’improvvisazione. Qui, come ho avuto modo più volte di indicare, suggestioni e spunti vengono dall’universo delle cosiddette “pratiche filosofiche”, ambito in cui la filosofia viene declinata come verbo e come azione – il “filosofare” – piuttosto che come predicato e oggetto – l’“opera filosofica” [26]. Pur nelle loro differenze, queste pratiche vogliono portare l’esercizio del filosofare – ovvero quella prassi di ricerca la cui esecuzione è ineludibile condizione per la realizzazione delle opere filosofiche, vale a dire libri, teorie e idee – in ambiti diversi da quelli tradizionalmente a esso vocati quali sono biblioteche, accademie e convegni, e senza l’obiettivo di produrre “opere”, bensì solo con quello di lasciare che gli effetti di tale proceduralità – la riflessione, il dissodamento e lo spontaneo mutamento del pensiero – producano i suoi effetti su coloro che la svolgono. Ora, le riflessioni epistemologiche su tali pratiche hanno più volte messo in rilievo la presenza in esse della prassi improvvisativa [27]; tuttavia, essendo la loro proceduralità essenzialmente la stessa messa in atto nella ricerca filosofica tradizionale, ne consegue che quelle riflessioni epistemologiche sono applicabili anche a quest’ultima, fatte salve poche e mirate precisazioni.
Alcune suggestioni su come si possa procedere in questa direzione le ho presentate qualche anno fa in Improvvisare la verità. Musica jazz e discorso filosofico [28], le cui “conclusioni euristiche” propongono, articolandole in tre tesi, delle direzioni di ricerca comparata: una tra ciò che avviene nella pratica musicale improvvisata e quel che invece accade nell’esercizio del filosofare, alla ricerca di affinità e differenze esistenti tra la “riuscita” di una performance artistica e la “verità” che è obiettivo della ricerca filosofica; una seconda, mirata a confrontare le due proceduralità per evidenziarne gli elementi comuni e – soprattutto – l’interna logica (non necessariamente del tutto identica per entrambe) in base alla quale i criteri di validazione (della “riuscita” e del “vero”) possano giustificatamente cambiare senza contraddizione; una terza, infine, indagante la capitale importanza che in entrambi i campi hanno l’intersoggettività e la comunità degli attori, di fatto principali giudici della qualità del processo in esecuzione.
Trascurata e confinata al solo ambito delle arti, l’improvvisazione è invece una pratica che pervade tutta la nostra esistenza, tanto da poter affermare che vivere è improvvisare, nella misura in cui tra gli esistenziali dell’homo sapiens l’essere improvvisatore è il complementare del suo essere pensante e progettante. Come abbiamo cercato di mostrare in queste riflessioni, un più approfondito studio della pratica improvvisativa ha molto da insegnarci riguardo sia a come l’uomo agisce, nei più vari campi, sia a ciò che egli è nella sua complessità, in quanto limitato e transeunte. Abbiamo indicato alcune possibili vie per cercare di comprendere meglio questa prassi e per mettere a fuoco come essa sia connessa ad altre fondamentali pratiche umane, solitamente ritenute rispetto a essa diverse e lontane: tali vie passano dagli studi sull’improvvisazione che già esistono in ambito artistico e specificamente musicale, dai quali trarre aspetti della prassi che sia possibile universalizzare e, fatte le debite precisazioni, applicare all’esercizio dell’improvvisazione anche in altri ambiti dell’agire umano.
Questo genere di studi sta avendo negli ultimi anni un’accelerazione, ma c’è ancora molto da fare – il che rende la sfida senza dubbio interessante. Ancor più alla luce del fatto che oggi, agli albori del terzo millennio e con il sempre più drammatico manifestarsi dei catastrofici danni che sta infliggendo al pianeta l’ambizione dei sapiens di trasformare il mondo a loro piacimento attraverso raffinati e perfetti progetti, sembra ancora più urgente che in passato spostare l’attenzione della ricerca e della cultura verso la finitudine, la limitatezza e l’imperfezione che caratterizzano l’agire umano, che sono appunto tratti che la prassi improvvisativa include senza con ciò dar loro uno stigma di negatività. La ricerca e la valorizzazione dell’improvvisazione possono pertanto costituire un momento di una più ampia “cultura del limite”, che vada a sostituire quella della crescita e dell’onnipotenza, basata invece su un ideale di perfezione che l’uomo non può né incarnare, né tantomeno controllare.
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