L’undici luglio del 1982 tutta l’Italia festeggiava una delle vittorie più epocali della sua storia calcistica. Negli stessi giorni tutti gli abitanti di Beirut assistevano, impotenti e sgomenti, allo “stupro” della loro capitale, già vessata da sette anni di guerra in-civile, da parte dell’esercito israeliano.
Dal 1938 l’Italia non vinceva un Mondiale, mentre dal 1967, dopo l’occupazione sionista di Gerusalemme est/al-Quds, nessuna capitale araba subiva un’invasione da parte del nemico storico del mondo arabo. C’è però da dire che nel 1958 Beirut aveva assistito ad una mini guerra civile, una sorta di prova generale di quella devastante del 1975-1990, ma in quel caso lo sbarco dei marines USA fu richiesto dall’allora presidente Camille Chamoun, unito in un’alleanza con potenze occidentali, contro un nasserismo panarabista in grande fermento.
Nell’estate del 2006, proprio negli stessi giorni in cui gli Azzurri vincono il loro quarto Mondiale, Beirut viene nuovamente bombardata dall’aviazione israeliana. Trentatre giorni di attacchi, morte e distruzione.
A questo punto, i libanesi, che hanno sempre avuto un debole per il nostro Paese, collegando i due fatti sopracitati, cominciano ad essere assaliti da un leggerissimo sospetto: è quindi facile immaginare il loro sospiro di sollievo quando hanno saputo che l’Italia, per ben due volte consecutive, non si è qualificata ai Mondiali. Meglio non correre rischi….
Al di là dell’inquietante coincidenza degli attacchi sionisti con le vittorie degli Azzurri, non è questo il motivo per cui il primo posto nei cuori dei libanesi è da sempre occupato dalla nazionale brasiliana, e non sarà facile da scalzare. Al limite, il tifo per l’Italia potrebbe contendere il secondo posto a quello per la Germania, che gode di grande popolarità e sostegno, in vari strati della società.
Per farsi un’idea di come i libanesi vivano il tifo calcistico e quali siano i motivi che li hanno spinti a sostenere alcune nazionali straniere rispetto ad altre (da notare che quella della Repubblica dei Cedri non si è mai qualificata ai Mondiali), basta il bel documentario di 23 minuti, girato da Tony Elkhoury e Anthony Lappé , Lubnan yarbah ka’s al-’alam (“Lebanon wins the World Cup”, 2015). Il montaggio segue in parallelo la storia di due ex combattenti nella guerra in-civile, di opposte fazioni: un cristiano falangista di destra e uno sciita di sinistra. Le loro testimonianze si intersecano con due eventi del calcio internazionale, i Mondiali del 1982 e quelli del 2014. Entrambi nutrono la stessa devastante passione per la Nazionale brasiliana.
Lo sciita racconta con struggente nostalgia degli stratagemmi messi in atto per riuscire a vedere la partita Italia-Brasile del Mondiale di Spagna, mentre faceva i turni in trincea. L’aspetto più interessante è che durante la partita, seguendo il suo racconto, Israele smette di bombardare Beirut, “come se loro stessero guardando la partita”. La delusione e lo shock della sconfitta per entrambi sono fortissimi, enfatizzati dal fatto che pochi minuti dopo la fine dei 90 minuti, Israele riprende i suoi massicci attacchi aerei e di terra, con missili, bombe e tutta l’artiglieria pesante.
L’idea interessante, sviluppata dai due registi, è quella di far incontrare per la prima volta i due protagonisti, ex nemici, davanti ad una partita di calcio in tv in cui gioca il Brasile nel Mondiale del 2014. Abbracci e grande entusiasmo come tra amici di lunga data.
Cup Final e la questione palestinese
Gmar Gavi’a (“Cup Final”, 1991) è il secondo lungometraggio del regista israeliano Eran Riklis, che si è poi fatto conoscere dal pubblico italiano con La sposa siriana (2004) e Il giardino di Limoni (2008), tanto per citare quelli che più hanno avuto più successo di critica e pubblico.
Se il cuore dei libanesi batte da sempre per la Nazionale del Brasile, quello palestinese lo fa invece per l’Italia, per svariate ragioni, legate anche alla politica italiana, specialmente alla solidarietà espressa dai partiti di sinistra di fine anni settanta e inizi anni 80.
In quegli anni Yasser Arafat incontra a Roma il Presidente della Camera Nilde Iotti, Giulio Andreotti e il Presidente Sandro Pertini. Sotto l’impulso del Ministro degli Esteri Emilio Colombo, alla Conferenza dei Paesi Cee di Venezia nell’ottobre del 1980, esce una risoluzione che, per la prima volta a livello europeo, riconosce il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese e la partecipazione dell’Olp al processo di pace.
Pertini, dopo il massacro di Sabra e Shatila nel settembre del 1982, si reca a Beirut portando la coppa vinta ai Mondiali ad Arafat. Sullo sfondo storico dei Mondiali di Spagna si dipanano gli eventi di Cup Final, accompagnando alcuni dei momenti di maggiore suspence, fino al finale e… alla finale.
Il tempo diegetico inizia il 6 giugno 1982, alla vigilia dell’inaugurazione dei Mondiali di Spagna, quando Cohen, un riservista israeliano, viene arruolato nella massiccia operazione di invasione del sud del Libano.
Peccato perché, mentre il governo del suo Paese ha deciso di attaccare il Libano con l’esercito di terra, lui ha già in tasca i biglietti aerei per la Spagna e le partite dell’Italia. Cohen è infatti un tifoso sfegatato degli Azzurri, ma non ha uno spiccato spirito patriottico.
A seguito di un’imboscata la sua pattuglia salta in aria. Lui e un altro commilitone rimangono leggermente feriti e vengono fatti prigionieri da un commando della Resistenza palestinese, capeggiato da Ziyad. L’obiettivo di quest’ultimo è raggiungere Beirut, evitando le numerose pattuglie israeliane sparse nell’area. Dopo uno scontro a fuoco con una di queste, l’altro prigioniero rimane ucciso e Cohen rimane da solo. A parte la comprensibile diffidenza, il rapporto con i carcerieri è scandito da momenti di relax: Cohen condivide con loro la passione per gli Azzurri, e tra qualche partitella a calcio o un ballo durante un’inverosimile festa di nozze, in tempo di guerra, o la visione di qualche partita del Mondiale in TV, sperimenta, oltre a qualche umiliazione, un trattamento umano che nessun altro regista israeliano avrebbe mai avuto il coraggio di mostrare.
Riklis anche con i suoi successivi summenzionati lungometraggi, mostrerà al pubblico israeliano l’assurdità delle politiche di occupazione, trattando con rispetto e intelligenza aspetti sociali importanti della vita dei drusi del Golan occupato nella Guerra dei Sei giorni, oppure le angherie subite da una palestinese che ha la disgrazia di avere il suo giardino di limoni accanto alla residenza di un alto responsabile israeliano.
A rinforzare l’effetto di verosimiglianza suscitato dai suoi film, il regista si ispira spesso a storie reali, compreso in Cup Final. I commenti delle partite dei Mondiali, ascoltati o visti in tv, col tifo assordante sugli spalti sono a volte la colonna sonora alternativa a quella che accompagna il film, dal ritmo ossessivo e incalzante, soprattutto nelle numerose scene notturne.
All’uscita nelle sale israeliane e nei festival, dove ottiene alcuni riconoscimenti internazionali, il film non manca di suscitare varie polemiche. Alcuni critici israeliani denunciano la prevalenza dei dialoghi in arabo o in inglese (tra Cohen e i palestinesi), elemento che sarà poi presente nei successivi lungometraggi con soggetti relativi al rapporto con il mondo del “nemico” arabo.
Senza stereotipi né generalizzazioni, il film entra nell’intimo della vita dei protagonisti palestinesi, ne mette in luce debolezze o desideri di vendetta. Ognuno ha la sua storia e, come il riservista, avrebbe preferito passare la vita con moglie e figli, ma ha una missione da portare a termine. Emblematico il caso di Ziyad, interpretato dal bravo Mohammed Bakri, che lascia gli studi di farmacia in Italia, dove ha moglie e un figlio, oppure il dottor Omar, che si laurea anch’egli nel Paese degli Azzurri. Ovviamente la passione per la Nazionale di calcio non è condivisa da alcuni membri del commando.
Dopo quasi un mese di marcia e di tragedie, i palestinesi di Ziyad sono quasi alle porte di Beirut. La finale del Santiago Bernabéu entra in scena, attraverso le lenti di un binocolo, e c’è ancora la speranza di resistere da eroi. Chi vincerà? Chi sopravviverà quando calerà il sipario col “Game is over”?
Tra un crescendo di pathos e un commovente idealismo sull’umanità dei due protagonisti, Cohen e Ziyad, e metaforicamente di due popoli ufficialmente nemici, Riklis avrebbe meritato l’Oscar soltanto per questa pionieristica opera. Il pubblico italiano ne sarebbe anche stato assai onorato. In periodi lontanissimi dall’omologazione pro-sionista dei media di questi decenni, ricordiamo che la Federazione Italiana Gioco Calcio ha dedicato la vittoria ai Mondiali di Spagna al popolo palestinese per il suo eroico spirito di resistenza contro la più lunga occupazione della storia contemporanea.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Aldo Nicosia, ricercatore di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Bari, è autore de Il cinema arabo (Carocci, 2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci, 2014). Oltre che sulla settima arte, ha pubblicato articoli su autori della letteratura araba contemporanea (Haydar Haydar, Abulqasim al-Shabbi, Béchir Khraief), sociolinguistica e dialettologia (traduzioni de Le petit prince in arabo algerino, tunisino e marocchino), dinamiche socio-politiche nella Tunisia, Libia ed Egitto pre e post 2011. Nel 2018 ha tradotto per Edizioni Q il romanzo Il concorso di Salwa Bakr, curandone anche la postfazione. Ha curato per Progedit la raccolta Kòshari. Racconti arabi e maltesi (2021).
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