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Il materiale complesso della vita. Autobiografia e racconto in Nuccia Tasca

Foto copertinadi Vito Piazza [*]

Raramente un titolo mantiene ciò che promette: questo lo fa con quella leggerezza che Calvino nelle sue Lezioni Americane indica come qualità primaria della  scrittura. L’incipit del racconto autobiografico di Nuccia Tasca, Con passo leggero (I quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme-Bologna 2016), è insieme una premessa e una promessa: l’autrice si perde nella sua Venezia, ma non è uno smarrirsi, anzi paradossalmente un tentativo di ritrovarsi lasciandosi liquefare nella folla, immergendosi in questa società liquida che Bauman ha colto come elemento qualificante della società di oggi dove tutto scorre e la memoria non ha ricordi a cui aggrapparsi. Del resto la memoria è qualcosa di più della somma dei ricordi. Ed è da questo smarrimento che implica l’essere soli in mezzo ad una folla che Nuccia inizia il suo itinerario per dirci la Nuccia di ieri e quella Nuccia Tasca che è diventata oggi. Una delle chiavi di lettura è proprio questa: la memoria non solo come autobiografia, ma come quell’“apriti sesamo” fiabesco che qui apre ad un tesoro più grande: il senso di una vita che diventa – per la protagonista – il senso della vita.

Qualcuno ha detto che se non puoi fare quello in cui credi, credi almeno in quello che fai: e l’autrice cerca di mantenere questo equilibrio, anche se l’io narrante personificato in lei risulta invece essere un espediente letterario per quello che la psicoterapia cognitiva chiama “distanziamento”. È come se il romanzo fosse scritto in terza persona: Nuccia adulta che narra le vicende della Nuccia appena nata, di quella adolescente, di quella “adulta” ma sempre bambina che guarda i grandi avvenimenti (le avventure nel Canada) come fossero piccole cose e le piccole cose – gli eventi del quotidiano – come fossero grandi cose, eventi epocali. Spazio e tempo si dilatano e si racchiudono in una dimensione in cui il tempo cessa di essere misurato: l’autrice infatti – ed è il fil rouge di tutto il racconto – non si chiede cosa sia il tempo, ma chi è il tempo. La madre che esclama, alla sua nascita: «che brutta bambina!» è l’ilarità che entra a far parte della cultura familiare, e lei, lei, Nuccia che invece alla nascita del suo primogenito Mario dice con leggerezza di madre: «i miei occhi pieni di amore lo videro bellissimo». Anche se subito dopo – disincantata (l’estraniamento di cui si parlava) – corregge: «non è che lo fosse davvero, lo divenne bello dopo poche settimane».

La bambina nasce in tempi duri e pur non avendo coscienza storica del proprio tempo “respira” subito il clima di violenza del fascismo. La chiamarono Giuseppina, ma scelsero un secondo nome come era uso allora: Nuccia, come la cantante Nuccia Bongiovanni. Pochi cenni, ma significativi all’infanzia tra la fine della guerra e l’inizio del dopoguerra: l’allevamento di due galline per fornire un più sostanzioso contributo a quanto fornito dalla tessera annonaria e dagli zii che potevano definirsi benestanti. E in un momento tragico, quando i corpi di Mussolini e di Claretta Petacci furono esposti a testa in giù in piazzale Loreto, l’io narrante diventa la bambina che non sa cogliere le distanze: piazzale Loreto come piazza San Marco, la tragedia racchiusa in una rappresentazione mentale di una bambina che teme non per la morte di lei, ma per Claretta a testa in giù che potesse mostrare le mutande. E questa la dice lunga sull’ethos culturale entro il quale era stata educata. E poi lento il boom economico: la moscaiola – quattro assi con retina per salvaguardare il cibo dalle mosche – viene sostituita dal frigo, entrano gli elettrodomestici, la presenza silenziosa del nonno Pericle che è abbastanza ricco da dare sicurezza a tutti. Muore con la sigaretta fra le dita nonno Pericle anziano, nasce autistico lo zio Pino sempre chiuso nella sua fortezza vuota, sempre costretto a seguire i traslochi della nonna. Muore zio Pino: vecchio senza essere diventato adulto, come canta Jacques Brel. «Avevo undici anni e il cuore pesante» ricorda la Nuccia di ora. Ma per scrivere i segni della sua elaborazione del lutto usa l’inchiostro azzurro. Ed è qui un’altra chiave di lettura: il candore. Condito sempre con la speranza, con la voglia di mettersi sempre in gioco, sempre guardando al domani. Sembra preconizzare le parole di Edgar Morin nel suo La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (Raffaello Cortina, Milano 2000): il fatto di aver rinunciato a credere nel migliore dei mondi possibili, non significa affatto che abbiamo rinunciato a credere in un mondo migliore. Tralasciamo il rapporto col fratello: c’è materia per un altro romanzo. E poi i viaggi. Tantissimi. Ma quello più importante credo continui tuttora.

Bambini a Venezia in una foto di Candido Spinazzi

Bambini a Venezia in una foto di Candido Spinazzi

Bellissime le pagine del capitolo Dal Mediterraneo all’Artico canadese. C’è avventura. E la nave scelta, l’Olympia, è poco meno che una carretta, che traballa per tutta la traversata: signore grasse che cercando appoggio non centrano la sdraio, camerieri che vomitano sui piatti di portata, un sacerdote latitante e incapace di celebrare una sola messa. «Il viaggio non finì ad Halifax. Percorremmo in treno più di cinquemila chilometri, un viaggio di tre giorni e quattro notti. Attraversammo la Nuova Scozia, il Quebec, l’Ontario, il Saskatchewan». Altre notti in un albergo. L’idrovolante. Dopo tre ore di volo planò. Si stabilirono col marito e la presenza sempre più ingombrante della suocera. A seguito dei parti precedenti non avrebbe dovuto più avere figli. Invece accadde. E con gravi conseguenze: «ero una mamma di ventotto anni con tre bambini piccoli e stavo morendo. Quando mi risvegliai dal coma, la corteccia argentea della betulla che ricordavo coperta di ghiaccio scintillava al sole. La primavera vibrava nell’aria e con lei il mio ritorno alla vita. La convalescenza fu lunga, ma mi ripresi. Quando si incontra la morte accettandola senza averne paura qualcosa cambia. Mi chiesi chi ero e se mai mi fossi confrontata con la vita reale: entrai nei meandri della mia anima e realizzai che sapevo così poco di me stessa. Questa esperienza dolorosa fu un risveglio». E qui non si può non pensare ad Oliver Sacks: ritornare faticosamente alla vita dopo aver galleggiato per giorni nel torpore. Si suole dire che in punto di morte si rievochino in un flashback senza tempo tutti gli attimi della propria vita passata: gli anni di collegio, il vestito blu di trine, la sveglia trillante alle sei del mattino, la voce cantilenante della suora… Eppure si trova in un paese che ha segnato l’immaginario di tutti noi, quel luogo tutto d’oro che per molti ha funzionato da archetipo junghiano di un mondo ricco e perciò senza guerre.

Ritorna a vivere Nuccia, tanto che dà spazio a ciò che aveva mortificato nel suo corpo: l’esaudire un desiderio che per le autorità epistemiche è una colpa, ma che per lei fu un aggredire la vita con tutta consapevolezza: e la confessione del tradimento è talmente candida da dirlo al marito: «Perché lo dissi a Giulio? Forse perché pensai che oltre ad essere il mio sposo fosse anche mio amico». I rapporti si guastano, il marito non capisce e si fissa su quel momento, lo condivide con tutti, tranne che con lei. Non restava che rifugiarsi nel sogno visto che la realtà era l’elettroshock, una pratica insulsa e barbara che forse doveva servire a cancellare non tanto il suo male di vivere, quanto il ricordo di un errore che tale non era dato che “riprendersi la vita” è un diritto di tutti. E qui l’altra chiave di lettura: la ricerca della consapevolezza, la ricerca di non escludere nulla dalla vita vissuta, né gioie né dolori.

E  con passo leggero, discreto, in punta di piedi Nuccia ci racconta e si racconta le violenze subite dal marito: no, non sarà più una vittima che non reagisce, non subirà più l’onta di essere considerata un oggetto sessuale. Ora sa. Ora è adulta e gli adulti non hanno paura neppure dell’ignoto. Ora ha capito: ciascuno deve vivere la propria vita per se stessa, non in funzione del compagno o di altro. Questa la consapevolezza raggiunta da Nuccia: non più piacere, ma piacersi. «La mia filosofia di vita? Il bicchiere mezzo pieno. L’ottimismo fa parte del mio essere. Il bicchiere mezzo vuoto, il lato oscuro, è ignorato  per scelta. Analizzarlo significa guardarsi dentro, scoprire verità scomode, le inquietudini che minano le certezze. Ma la vita mi ha insegnato quanto sia dannoso fingere che non esista». L’inconscio prima o poi esplode, cara Nuccia, ma non è quel magma misterioso e devastante che immaginiamo. Ci parla. Cosa che puoi fare con Lorenzo [Lorenzo Barbera, sociologo, collaboratore di Danilo Dolci e fondatore del Centro di ricerche economiche e sociali per il Meridione di Gibellina – n.d.r.], una delle persone più trasparenti che tu hai conosciuto e che io ho conosciuto.

Il libro può essere benissimo anche un libro di formazione, come Il giovane Holden, per intenderci, ma è soprattutto un libro di vita. Leggero nei pensieri e nello stile. Ma non superficiale. Leggerezza è il contrario di superficiale, così come serio è il contrario di serioso. Un libro da leggere.

Si dice che un pessimo scrittore quale io mi reputo possa diventare un ottimo critico per la stessa ragione per cui un pessimo vino possa diventare un ottimo aceto. Non so se sono un pessimo critico, so solo che il libro è interessante. Da leggere. Con passo leggero.

Dialoghi Mediterranei, n. 22, novembre 2016
 [*] Testo dell’intervento letto dall’Autore in occasione della presentazione del volume di Nuccia Tasca, Con passo leggero (I quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme-Bologna 2016), tenutasi presso l’Atelier Pensiero Contemporaneo di Marinella di Selinunte (TP) il 17 settembre 2016.

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Vito Piazza, ha operato dagli anni Sessanta nelle scuole elementari della nuova periferia milanese. È stato, in seguito, dirigente superiore del Ministero della Pubblica Istruzione e professore di Psicologia dell’inserimento all’Università degli Studi di Milano. Autore di fortunate opere narrative (Attè ti picchia Luigi?, Erickson, Trento 2015) e di numerosi e innovativi testi di pedagogia e metodologia didattica (L’insegnante di sostegno, Maria Montessori, Per chi suono la campanella?, tutti editi da Erickson), ha anche pubblicato, con Sellerio, i racconti La valigia sotto il letto (1988) e Milanesi non si nasce (1996).

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