La questione della nozione di persona, nell’ambito degli studi socio-antropologici, ha da molto tempo occupato un posto centrale nella riflessione di molti studiosi. Uno dei primi autori a occuparsi del tema fu Marcel Mauss nel saggio del 1938 Une catégorie de l’esprit humaine: la notion de persone celle de «moi» in cui per la prima volta, attraverso la comparazione del concetto di persona in diversi contesti storici ed etnologici, il sociologo francese oggettivava la distinzione, fra individuo e persona. Per Mauss, come ha recentemente notato Camille Tarot: «Il s’agit de savoir comment, dans différentes sociétés et à différentes époques, se sont formées et dégagées les idées relatives à l’individu, à son rôle et à son caractère, à sa singularité et à son autonomie, à sa valeur»1. Partendo dai casi di popolazioni stanziate nel Nord e nel Sud America (solo a titolo di esempio i Pueblo, gli Hopi, i Kwakiutl) e passando attraverso il concetto di persona presso i Romani, radicalizzato in seguito dall’avvento della cultura cristiana, Mauss dimostra chiaramente come la nozione di persona sia una complessa costruzione in cui la pressione sociale è esercitata al fine di assegnare agli individui un posto preciso all’interno della comunità e permettere un ordine che, in definitiva, è la base su cui poggia l’esistenza della società stessa. La nozione di persona, inoltre, come coincidente alla nozione di individuo, per Mauss, sarebbe una peculiarità delle società occidentali profondamente influenzate dalla cultura cristiana medievale che, in maniera progressiva, ha affermato quella identità.
Un’altra pietra miliare dell’argomento qui trattato è rappresentata dal saggio di Clifford Geertz Persona, tempo e comportamento a Bali 2. Secondo Berardino Palumbo, la nozione di persona analizzata da Clifford Geertz, «è modulata da un complesso sistema di denominazioni, termini di parentela, tecnonimi, titoli di status ed immersa in un sistema calendariale teso all’immobilizzazione/reiterazione del tempo. [Questa nozione] tende a costruirsi come la replica, secondo stili altamente formalizzati, di tipi ideali e fissi»3.
Qualche anno dopo la pubblicazione del saggio di Geertz, Michelle Rosaldo avviava una riflessione decostruzionista del concetto di identità e ridimensionava, alla sola tradizione culturale dell’Europa e dell’America del Nord, la concezione secondo cui, a livello universale, esisterebbero una persona “esterna” (outer self) e un io “interno” (inner self), quest’ultimo depositario di una interiorità e di una identità psico-emozionale percepita e considerata come “reale”4.
Le riflessioni da parte degli antropologi sul concetto di persona, qui esposte in maniera molto semplificata, partono dal presupposto che l’identità individuale e sociale sia qualcosa di fisso e codificato all’interno di una data cultura. Nettamente diversa è invece la proposta di Debbora Battaglia che, nell’introduzione al volume Rhetorics of Self-Making, adotta una posizione “emica”, che lascia cioè grande spazio alle narrazioni e alle rappresentazioni, sia verbali sia corporali, degli informatori. Secondo Battaglia: «non esiste alcuna identità personale (selfhood) al di fuori dei modi, concreti e interattivi, di metterla in scena. Il sé è un’economia della rappresentazione, una reificazione messa in continua discussione dal suo essere mutevolmente interconnessa alle storie, alle esperienze, alle rappresentazioni di altri soggetti»5.
Come ha giustamente notato Berardino Palumbo a commento della citazione appena riportata: «Gli scritti contenuti nel volume curato da Battaglia […] sono tutti connotati dall’attenzione prestata alle forme narrative e pragmatiche (le retoriche e le poetiche) attraverso le quali, all’interno di processi storici e di contesti interattivi, i diversi sé si raccontano, agiscono e, narrandosi ed esibendosi, si costruiscono più o meno fluidamente. […] Non più dati universali o necessarie finzioni legali, “individuo” e “persona” vengono letti come movimenti delle politiche di figurazione del sé che consentono ai diversi soggetti di definirsi agendo e interagendo. Appaiono come forme storiche, inscritte in più articolate e complesse economie della rappresentazione, della morale e dell’agency […] che è necessario cogliere di volta in volta attraverso le concrete perfomances e le loro dimensioni»6 .
Tenendo presente questa tradizione di studi, nella prima fase della mia ricerca fra gli operai Fiat di Termini Imerese, ho tentato di tracciare, dando un ruolo primario alla narratività e all’agency dei miei informatori, quelle che potevano essere le peculiarità della comunità dei lavoratori del sito automobilistico e quali le differenze con il contesto locale e all’interno della comunità stessa. In uno studio divenuto un classico dell’antropologia industriale, Michael Burawoy notava, a proposito della sua ricerca fra gli operai di una fabbrica di macchinari agricoli, che: «In deciding whether relations in production are independent of the consciousness that people bring with them to the shop floor, it is necessary to have some measure of that external consciousness. I shall work on the assumption that different roles outside work foster different experiences and thus different consciousness»7. La stretta connessione presso gli operai, e più in generale nei contesti lavorativi, fra esperienza all’esterno e coscienza all’interno delle fabbriche è un tema che, dopo una certa socio-antropologia degli anni Sessanta-Settanta, ha pervaso gli studi dei contesti industriali di diversi sociologi e antropologi, anche italiani, che in diversi modi hanno notato come la costruzione identitaria dei lavoratori sia un delicato equilibrio e un compromesso fra la vita esterna e interna alle fabbriche in continua connessione e ridefinizione.
Analizzando, i lavori di Accornero, Carmignani e Magna 8, di Giuseppe Bonazzi 9 e Giuseppe Berta 10 e, infine, quello più strettamente antropologico di Fulvia D’Aloisio 11, ho ritenuto di potere effettuare una ricognizione sull’identità e la costruzione identitaria, nella situazione della Fiat di Termini Imerese, che tenesse conto di tre fattori fondamentali: 1) l’ambito di provenienza e le esperienze lavorative pregresse all’assunzione in fabbrica dei lavoratori della Fiat di Termini Imerese; 2) il grado di scolarizzazione; 3) il tasso di sindacalizzazione. È grazie a questi strumenti interpretativi e all’osservazione partecipante condotta fra il 2011 e il 2013 che sono emerse almeno tre generazioni di operai che hanno fatto il loro ingresso nella fabbrica automobilistica isolana.
La prima di queste generazioni è quella assunta fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. In questo caso si tratta di persone scarsamente scolarizzate, provenienti dal mondo dell’agricoltura, della pesca e dell’artigianato, da ambienti lavorativi cioè caratterizzati da un alto tasso di precarietà e da scarsi introiti. Per loro l’assunzione alla Fiat ha rappresentato un salto di qualità notevole nella loro vita. In fabbrica, sono stati assegnati spesso alla linea di montaggio o alla lastroferratura e, negli anni in cui hanno lavorato in Fiat, non hanno dimenticato le loro esperienze lavorative pregresse. Era usuale, infatti, che, nel tempo libero, ritornassero a svolgere il loro vecchio lavoro ottenendo, in molti casi, delle entrate significative per l’economia familiare, che andavano ad integrare lo stipendio di operaio della Fiat. Erano iscritti ad un sindacato più per amicizia con operai già iscritti ad una organizzazione sociale, che per una istanza ideologica12.
La seconda generazione è quella assunta fra il 1988 e il 1989. Si tratta di persone con un grado di scolarizzazione più alto (alcuni sono in possesso di un diploma tecnico) e svolgevano mansioni, in gran parte, più specializzate rispetto a quelli della prima generazione (verniciatura, manutenzione, gestione dei macchinari, ecc.). Nella gran parte dei casi, non hanno mai eseguito delle attività lavorative a tempo pieno al di fuori della fabbrica. Prima della loro assunzione, infatti, hanno svolto lavori occasionali che, in molti casi, non hanno rappresentato delle esperienze caratterizzanti. In questo senso l’impiego in fabbrica è totalizzante e la loro identità coincide quasi completamente con l’essere operaio. Sono pochi, infatti, quelli che svolgono un’attività integrativa. Anche fra gli operai di questa seconda generazione, si registra un alto tasso di sindacalizzazione dovuto, in questo caso, ad un’alta consapevolezza del valore del proprio lavoro.
La terza generazione, infine, è quella composta da lavoratori assunti dopo il 2000. Si tratta di persone con un buon grado di scolarizzazione (sono quasi tutte diplomate), entrate in fabbrica in seguito alla promulgazione della legge n. 196 del 1997, che introduce e regolamenta le prestazioni di lavoro a tempo determinato e i contratti atipici. Gli operai di questa generazione sono stati assunti tramite la mediazione delle agenzie di lavoro interinale. Per loro il lavoro in fabbrica è solo un’esperienza fra le tante che sono stati costretti a svolgere per vivere e, quindi, essi si identificano poco o per nulla con il termine “operaio”. Avendo avuto dei rapporti di lavoro limitati nel tempo, non hanno avvertito la necessità di aggregarsi e instaurare relazioni durature sul luogo di lavoro e, forse per questo motivo, il tasso di sindacalizzazione fra questi operai è quasi nullo 13 .
Questa breve e schematica presentazione della popolazione di fabbrica rispecchia le trasformazioni principali dei lavoratori Fiat. La prima generazione, infatti, è quella che si trova al bivio di esperienze lavorative diverse, ma capaci di creare due modelli socio-economici e culturali forti (quello agropastorale o “tradizionale” e quello industriale o “moderno”). Questa generazione si colloca verso la fine dell’industrializzazione siciliana dei primi anni Settanta che, anche se con vicende alterne, aveva creato un certo benessere economico nella zona e una migliore aspettativa di vita. La seconda generazione è quella degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, del periodo cioè in cui la Fiat aveva investito ingenti capitali nelle tecnologie, tanto da essere definita da Giuseppe Bonazzi la fabbrica «dell’alta automazione». La terza generazione è quella che viene assunta in seguito all’ingresso, nel mercato del lavoro, delle prime leggi sulla flessibilità e sulla precarizzazione dei lavoratori italiani. La Fiat in cui si forma quest’ultima generazione è un’azienda pienamente globalizzata, che sente le influenze del nuovo mercato del lavoro internazionale e adotta la filosofia produttiva del toyotismo, caratterizzata da una destrutturazione dei tempi e dei ritmi di lavoro14.
Porre l’attenzione sulla composizione identitaria e sulle modifiche della costruzione del sé nell’ambito del contesto della Fiat di Termini Imerese ha permesso di identificare una delimitata comunità di persone che, con il trascorrere del tempo, si è sempre di più distinta dal contesto di provenienza. Inoltre, seguire la trasformazione identitaria di quei lavoratori ha permesso anche di tracciare le modalità in cui negli anni si è trasformato il mondo del lavoro italiano nella direzione di una sempre più pervasiva e diffusa precarietà professionale e quindi esistenziale. È nel quadro di questa condizione precaria che gli operai Fiat stanno operando una profonda revisione delle loro categorie per discretizzare e dare senso al mondo: la concezione di tempo slegata da ogni contesto lavorativo che scandisce e dà un ordine e un ritmo alle vite dei lavoratori; la concezione dello spazio della fabbrica che, al livello simbolico, rappresenta un luogo di una impossibile rimodulazione professionale; e, infine, la ri-costruzione del sé secondo aspettative e azioni da rielaborare totalmente, sono gli aspetti basilari su cui i lavoratori dello stabilimento, messi forzatamente a riposo, stanno tentando di riflettere per elaborare e superare la perdita di una dimensione fondamentale dell’essere, il lavoro15 .
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014
Note
1 Tarot C., 2008, Problématiques maussiennes de la personne, « Cahiers internationaux de sociologie», vol. 1, n. 124, pp. 21-39.
2 Geertz C., 1987, Persona, tempo e comportamento a Bali, in Id. Interpretazioni di culture, il Mulino, Bologna, pp. 339-398.
3 Palumbo B., 2009, Politiche dell’inquietudine. Passioni, feste e poteri in Sicilia. Le Lettere, Firenze, 2009, pp. 22-23
4 Rosaldo M., 1997, Verso un’antropologia del Sé e dei sentimenti in Shweder R. A., La Vine R. A. (a cura di) Mente, sé, emozioni, Argo, Lecce, pp. 161-182.
5 Battaglia D., Problematizing the Self: A Thematic Introdution, in Id. (a cura di), Rhetorics of Self-Making, University of California Press, Berkley-Los Angeles, London, 1995, pp. 1-15, pp. 2-3.
6 Palumbo B. Politiche dell’inquietudine. Passioni, feste e poteri in Sicilia. Le Lettere, Firenze, 2009, p. 25. per quanto riguarda le nozioni di economie della rappresentazione e di agency cfr. Asad T., 2003, Genealogis of Religion. Discipline and Reasons of Power in Christianity and Islam, The John Hopkins University Press, Baltimora-Londra; Taussing M., 1987, Shamanism, Colonialism, and the Wilde Man. A study in Terror and Healing, Chicago University Press, Chicago; Herzfeld M., 2006, Antropologia. Pratica della teoria nella cultura e nella società, Seid, Pisa.
7 Burawoy M., 1979, Manufacturing consent. Changes in the labor process under monopoly capitalism, The University of the Chicago Press, London, p. 140.
8 Accornero A., Carmignani F., Magna N., 1985, I tre «tipi» di operai alla Fiat, in «Politica ed Economia», pp. 33-47.
9 Bonazzi G., 1964, Anomia e alienazione nella grande industria, Avanti, Milano; Bonazzi G., 2000, Sociologia della Fiat, Il Mulino, Bologna.
10 Berta G., 1998, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat (1919-1979), Il Mulino, Bologna.
11 D’Aloisio F., 2003, Donne in tuta amaranto. Trasformazione del lavoro e mutamento culturale alla FIAT-SATA di Melfi, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano.
12 A questo proposito diversi sono gli operai che, nel corso della ricerca, hanno dichiarato di essersi iscritti ad un sindacato senza alcuna conoscenza del significato che questo comportava. Come ha avuto modo di dire un informatore: «[…] fino a vent’anni io avevo lavorato in campagna, facevo l’agricoltore; quindi non è che avevo questa… sta cultura sindacale, sta sociale, sta cultura… io avevo la cultura… ero tanto timido che loro l’operazione l’hanno fatta. Mi ricordo queste parole di questo signore che mi dice… dico: “Zio Pippino, ma io per fare il rappresentante sindacale non so né qual è la mia mano destra, né qual è la mia mano sinistra, non ho completamente l’idea di quale può essere… poteva essere il mio ruolo”. Completamente non ho idea: un mese e mezzo di fabbrica, nessuna cultura sociale… completamente. Questo mi ha risposto: “Siccome tu, non capisci qual è la tua mano destra, qual è la tua mano sinistra sarà una condizione che non hai niente da venderti e quindi, a maggior ragione, sarai eletto”. La risposta di questa persona anziana: “Non sapendo dove andare, non hai niente da venderti, nemmeno lo capisci cosa ti puoi vendere”. Nel giro di una settimana questi fecero tutto, fecero le elezioni e sono stato eletto. Io, per timidezza, per 4-5 mesi non ho rappresentato i lavoratori (Intervista a V. C. del 15/06/2012).
13 A proposito della definizione della identità operaia di quest’ultima generazione è utile riportare la lettura che il sociologo Guy Standing dà dell’identità estremamente sfuggente e cangiante del precariato attuale, all’interno del quale può essere fatta rientrare la classe operaia di questa terza generazione (Standing G., 2012, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna, pp. 29-30).
14 Per maggiori informazioni sul toyotismo cfr. Ohno T., 1993, Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale. E il suo prezzo, Einaudi, Torino. Per approfondimento su questa filosofia di produzione che in Italia è stata anche indicata con le espressioni “fabbrica integrata” o “qualità totale” cfr. Revelli M., 1993, Introduzione in Ohno T., 1993, op. cit., pp. XI-XIV.
15 È da notare in questa sede come già Hannah Arendt sottolineava, in uno dei suoi testi più importanti, come le basi su cui si fonda la condizione umana siano: il lavoro, legato alla materialità e soggetto allo scorrere del tempo e all’usura del cambiamento; l’opera, attività umana che sublima il suo prodotto fino a farne un segno o un simbolo che supera la mera mortalità del lavoro e dello stesso soggetto che lo ha elaborato; l’azione, essenzialmente politica che immerge e fa intervenire i singoli nella comunità al fine di conquistare una condizione superiore (Arendt H., 1991, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano).