di Stefano Montes
Per iniziare, un’immagine: sepolta da anni nella mia mente. Una piccola spinta ancora, pochi secondi, l’immagine si fa strada, sta per emergere: induce alla riflessione, spinge alla scrittura. Eccola, ce l’ha fatta: dirò dopo come. L’immagine, intanto, in sé, cos’è: è quella di un uomo con il braccio destro al collo immobilizzato in seguito a un’operazione che gliene impedirà per qualche tempo l’uso. Lui, pur nel disagio, consapevole della goffaggine prodotta dalla situazione anomala, non si perde d’animo, comincia a utilizzare la sinistra come meglio può; all’inizio non è abituato e le dita fanno male; poi, poco a poco, s’impratichisce, acquisisce maggiore autonomia, consapevolezza, sempre più speditezza. Non sembra crederci nemmeno lui, tuttavia, da stimato neurologo qual è, mentre racconta – relegandolo nella prefazione, quasi non fosse anch’esso un caso di studio – l’evento vissuto.
Non posso crederci neanche io, nonostante l’antropologia e i miei studi appassionati sulla ‘fabbricazione’ dell’identità. Non ci avevo pensato, è un fatto: un diverso atteggiamento corporeo, per quanto minimo, ha conseguenze importanti sul senso dell’identità e del vivere. Sì, certo, lo so bene, da antropologo! Da persona comune, tuttavia, una volta superati acciacchi e malanni, tendo a dimenticarlo: tendo a vivere come fossi eterno, non vulnerabile alle malattie, ‘portatore’ di una medesima identità nel tempo. Purtroppo non è così: gli acciacchi vanno e vengono, io cambio col passar degli anni, prima o dopo non ci sarò più. E, ciò, vale per tutti! Siamo vulnerabili al tempo (della vita che passa), pur non dandolo a vedere, dimenticandolo individualmente, e il modo in cui ‘combattiamo’ la nostra vulnerabilità – cercando di ridimensionarla, considerandoci umani intenti alla perpetuità del nostro essere – non è altro che il lavoro stesso della cultura: il suo modo di definirsi (e definirci) attraverso i riti e miti che la contraddistinguono, una cultura dall’altra, nel tempo, nello spazio.
“Qual è il posto dell’individuo, la sua specifica attribuzione di senso alla vita, all’interno di questo inglobante mecca- nismo culturale?”, mi chiedo. Rileggendo il brano in questione, nel frattempo che ci rifletto, a casa, al ritorno dalla libreria, mi rendo conto che la memoria gioca brutti scherzi: l’immagine che avevo non era che un flusso di parole cristallizzate sotto forma di elemento fisso – l’immagine rappresa nella mente – che prende corpo con una sua autonomia mnestica, ritagliandosi dal resto del testo, dalla vita stessa che continua a fluire senza tregua. Ricordavo, per esempio, che Sacks avesse una disabilità soltanto alla mano, in realtà è stato operato alla spalla; non ricordavo che parlasse, in prima persona, d’immagine corporea e costruisse la prefazione situandola nell’atto: «Sto scrivendo con la mano sinistra, sebbene io sia decisamente destrimane. Un mese fa sono stato operato» (Sacks 1995: 15). Importa davvero che Sacks si rappresenti nell’azione e si ritenga coinvolto direttamente nella questione che studia? Importa veramente sapere cosa rimane nella mia o altrui memoria, nel tempo, vivendo al contempo? Si tratterà proprio di questo, qui, sebbene in forma volutamente diluita, smussata dalla narrazione, rivelatrice. Per il momento, voglio mettere l’accento sul fatto che Sacks si comporta al pari di uno di quegli etnografi che piacciono tanto a me: riflette e scrive facendo riferimento all’esperienza vissuta; traduce la sua traballante azione somatico-cognitiva in ampia considerazione teorica da comparare con le esperienze d’altri individui al fine di ragionare sui movimenti d’identità interpersonale.
La sostanza di cui parla Sacks – nella prefazione di Un antropologo su Marte – è che l’intero corpo e l’identità stessa, al sopraggiungere di malattie e disabilità, devono far fronte al mutamento in modo complementare, totale, persino straniante: è
«un continuo adattarmi e imparare a usare la sinistra: non solo per scrivere, ma anche per fare molte altre cose. Per compensare il fatto di avere un braccio appeso al collo, sono diventato molto abile – prensile – con le dita dei piedi. Sulle prime, quando mi immobilizzarono il braccio, per qualche giorno mi sentii sbilanciato; ma ora cammino in modo diverso e ho scoperto un nuovo equilibrio. Sto sviluppando modelli diversi, abitudini diverse… un’identità diversa» (Sacks 1995: 15).
Tornato a casa, sfoglio avidamente il libro di Sacks come se lo avessi per la prima volta tra la mani, come faccio sempre con nuovi testi ancora da leggere, benché non sia questo il caso: partendo dalla bibliografia, guardando l’indice, soffermandomi sulle note, andando di botto alla conclusione, concentrandomi a lungo sull’incipit, analizzandolo a mente. Insomma, mi concedo al suo libro in modo disordinato, guidato dall’intelligenza del caso. In un angolo della prima pagina, ritrovo una mia annotazione di allora: la cultura è «memoria non ereditaria della collettività, espressa in un determinato sistema di divieti e prescrizioni» (Lotman, Uspenskij 1975: 43). Accanto, un’altra annotazione più personale, un ricordo affiorato sulla spinta delle associazioni del periodo: da piccolo, ero mancino, avevo tendenza a usare la sinistra e la maestra aveva consigliato a mia madre di insistere, per l’apprendimento della scrittura, sull’uso della mano destra.
Ricordi, annotazioni, libri letti, immagini, parole scritte e vita vissuta si mescolano senza un piano. Per non parlare del caso, che ci mette lo zampino: ho recuperato il testo di Sacks – riportandolo alla memoria, alla interposizione di immagini e parole, nonché alla riflessione più circoscritta sull’identità – grazie al fatto che, stamane, per svagarmi un po’, mi sono recato (liberamente, senza programma preliminare, in assenza di un vero obiettivo) in libreria e il mio sguardo è caduto distrattamente su Gratitudine. È successo! Che c’è di strano? Vado sovente in libreria non soltanto per comprare qualche libro, ma anche perché sono interessato al comportamento degli utenti, al loro modo di interagire con altri utenti, conversare, sfogliare un libro, acquistarlo, fare una pausa prendendo un caffè: in breve, la libreria è per me un terreno di osservazione-partecipante di un frammento di vita ordinaria, qualsiasi, quasi invisibile, endotica – direbbe Perec (Perec 1973) in opposizione a esotica – e, per questo, ancora più interessante. A onor del vero, non andavo oggi in cerca di qualcosa, non ero ‘agito’ da un motivo specifico, non avevo neppure lo spettro di un obiettivo generale da realizzare. Volevo soltanto rilassarmi, sfogliare qualche libro perdendomi, per mio sollazzo, nel pensare, arrendendomi allo scompaginato andazzo di forme e colori! Frutto del caso fortuito, mi sono imbattuto nell’ultimo libro di Sacks in cui l’autore, prossimo alla morte, manifesta la propria gratitudine per la vita, una vita che lo ha colmato di gioia e a cui è riconoscente, una vita che ha deciso, fino all’ultimo, di vivere «nel modo più ricco, più intenso e produttivo possibile» (Sacks 2016: 25-26). Mi colpisce il modo in cui, nella vita al termine, il tempo assume senso denso, proiettando gli individui nel presente o nel passato, scremando l’essenziale dall’inessenziale. E così è per Sacks:
«Non vi è tempo per nulla di inessenziale. Devo concentrarmi su me stesso, sul mio lavoro e sui miei amici. Non guarderò più ‘News Hour’ tutte le sere. Non farò più attenzione alla politica o alle discussioni sul riscaldamento globale. Non è indifferenza, è distacco. Il Medio Oriente, il riscaldamento globale e le disparità crescenti mi interessano ancora profondamente, ma non sono più cose che mi riguardano: appartengono al futuro» (Sacks 2016: 28, mio corsivo).
È certo che, al cospetto della morte, gli obiettivi si ridefiniscono e il tempo si ricompone in modo sconcertante. A casa, davanti lo schermo ammiccante del mio computer, tutto preso dallo slancio provvisto dalla situazione, decido di mettere a fuoco ancora una volta su quello che, ormai da qualche anno, faccio sistematicamente nelle mie etnografie endotiche, affrontando la questione ogni volta da una prospettiva diversa per meglio decentrarla, decentrarmi: interrogo gli altri e me stesso sulle finalità del vivere, cerco di cogliere il senso del vivere senza tirarmene troppo fuori, senza sottrarmi all’esistere in corso. Sarebbe mai possibile, d’altronde, mettere in pausa l’esistenza, per rifletterci dall’esterno? Da anni, ormai, nonostante le difficoltà, mi produco in incursioni sul senso del vivere inesorabilmente dall’interno, cercando vie di fuga da un improbabile esterno. Vale la pena esplicitarle, queste difficoltà, se non altro perché, una volta affrontate, si trasformano in vantaggi teorici e spunti di riflessione. Vale la pena soffermarsi sul loro valore perché, oltre tutto, contribuiscono a conferire senso al vivere.
Di fatto, un’indagine etnografica sul senso del vivere è complicata, sfuggente: pochi sanno quale senso attribuire al vivere, pochi ne sono veramente consapevoli di primo acchito. Posta la questione, la risposta, almeno inizialmente, è sempre la stessa, perplessa: “Non ci ho pensato, non saprei!”. Si vive e basta di un bene presunto e assunto come imperituro; non ci si chiede, soprattutto di punto in bianco, senza ragione, quale senso abbia il vivere, in particolare se all’interno del flusso di vita non si manifesta un ostacolo da superare la cui presenza produce un effetto di retrospezione sul soggetto. L’attribuzione di senso non è scontata: si vive, per lo più, adagiandosi nel tempo che scorre, situandosi nella routine, concedendosi agli automatismi. E la vita va! E la vita va al termine! Magari lo si sa implicitamente perché, a un certo stadio della propria esistenza, si è scelto un modo di vivere – decidendo di sposarsi, cambiando paese e lavoro oppure intraprendendo nuovi studi – e ci si è abituati a questa modalità continuativa del vivere senza porsi il problema, lasciandosi andare alle consuetudini acquisite. Il fatto – singolare – è che il senso del vivere non si presta a domande dirette, non si lascia cogliere con facilità nemmeno interagendo con altri alla spicciola, né trasformando la questione in un campo di stampo più classico, osservando e partecipando, creando complicità, affidandosi – come suggeriva Malinowski – a interrogazioni su fatti concreti che superino le difficoltà dell’astrazione:
«Anche se non possiamo porre domande a un indigeno riguardo a regole astratte e generali, possiamo sempre chiedergli come viene trattato un dato caso. Così, per esempio, se chiediamo informazioni su come si comportano di fronte a un reato o su come lo puniscono, sarebbe inutile porre a un indigeno una domanda vasta di questo genere: ‘Come trattate e come punite un criminale?’ […] Ma un caso immaginario, o un avvenimento reale, stimoleranno l’indigeno a esprimere la sua opinione e a fornire abbondanti informazioni» (Malinowski 2004: 21-22).
Questo suggerimento è sempre valido in antropologia, anche in siti meno esotici, persino in libreria, al bar: più che chiedere, per astrazioni e teorie avulse dal contesto, per sapere senza fraintendimenti – oltre che fare capo alle persone dotate di competenze specifiche in un settore – bisogna andare a fatti precisi per poi, in un secondo tempo, generalizzare. Questo principio vale ovunque: tranne casi eccezionali, non si chiede a un meccanico di risolvere problemi spirituali; non si richiede l’intervento di un prete per sapere come mai l’auto non parte.
La cultura – ogni cultura – è suddivisa in settori più o meno interrelati del sapere, rappresentati da ruoli specifici incarnati da individui competenti in un campo o nell’altro. Chiedere direttamente a un (solo) informatore, anche se oculatamente scelto, non è tuttavia sufficiente se si vuole focalizzare l’attenzione sul senso del vivere e avviare una ricerca in tale direzione. Infatti, per quanto riguarda l’indagine sul senso della vita, siamo così all’interno del nostro vivere – poco probabile d’altronde concepire l’‘essere’ al di fuori del ‘vivere’ – che nessuno può dirsi detentore esclusivo di un sapere essenziale sulla questione: la vita è dappertutto, persino nella morte (che, proprio per questo, viene pensata in alcune religioni come un ‘aldilà’ che estende, oltre misura, la sua portata).
Non si tratta dunque di fare le giuste domande, concretamente poste, oppure di andare in luoghi lontani al fine di subirne uno straniamento rivelatore; bisognerebbe invece, per cominciare, reimpostare i fini della ricerca smussando alcune opposizioni che ostacolano un pensiero applicato al vivere quotidiano: rinunciare all’‘esotismo’ della ricerca sul campo (la vita è un campo ovunque si viva e si vada, nei suoi ambiti più ordinari o straordinari); fare a meno di un simulacro di osservazione-partecipante improntata allo studio dell’altro come se il soggetto osservatore-partecipante fosse una neutrale cinepresa priva di soggettività (chi osserva è un soggetto, tra simili, che ritaglia il mondo da una prospettiva specifica non totalizzante); spostare l’accento dalla nozione di cultura all’altrettanto complessa nozione di vita (se la riflessione sulla cultura è pur sempre importante in quanto consente di mettere a fuoco sulle qualità di ‘insieme’ di gruppi e comunità, l’accento sulla vita consente inoltre di ripartire dall’intreccio di cognizione, emozione e soma che caratterizza l’individuo). Sono piccoli passi, ma di grande importanza se si guarda alla storia dell’antropologia e alle sue diverse strategie di ricerca utilizzate nel tempo.
Tornando, quindi, ai suggerimenti di Malinowski riguardanti la concretezza delle domande poste su eventi e casi particolari, questi, comunque sia, rivelano i modi attraverso cui la vita viene ritagliata per settori all’interno di una cultura, e non le attribuzioni di senso assegnate nel tempo, direttamente o indirettamente, da individui e collettività. Il senso del vivere non riguarda un solo evento particolare e isolato oppure un piccolo frammento di esistenza considerato separatamente, ma una vita nel suo ‘insieme complesso’, possibilmente in confronto con le altre, soprattutto nella sua ‘presa’ culturale d’ordine sostanziale e differenziale, nelle diverse attribuzioni individuali e collettive di valori, sovente implicite e inavvertite da parte del singolo nel fluire del tempo. Per queste ragioni, il vivere – in teoria, in pratica – è in definitiva sfuggente, non inquadrabile all’interno della proverbiale creazione di complicità con un informatore attentamente scelto sul campo per accedere al sapere. L’esempio celebre di Geertz a Bali è paradigmatico e conviene ricordarlo: arrivato sul campo insieme alla moglie, rimane invisibile agli occhi dei nativi fino al momento in cui va a un combattimento illegale dei galli, è costretto a fuggire in seguito a una retata della polizia, si ritrova infine a prendere riparo in casa di un nativo grazie al quale può stabilire quella complicità secondo lui necessaria affinché la ricerca possa prendere avvio. Il disequilibrio iniziale (in termini proppiani, ‘il danneggiamento’) viene liquidato e l’ordine viene così restaurato:
«Il mattino dopo il villaggio era per noi un mondo completamente diverso. Non solo non eravamo più invisibili, all’improvviso eravamo al centro di tutta l’attenzione, l’oggetto di una grande effusione di cordialità, interesse e soprattutto divertimento […] A Bali essere presi in giro significa essere accettati» (Geertz 1988: 387-388).
Ed essere accettati significa acquisire l’autorità necessaria – allorché si ritorna a casa e si ‘confeziona’ l’etnografia – a dire, con competenza e credibilità, sul sapere altrui senza che queste prerogative, relative alla veridizione, possano venire messe in dubbio: perché si è stati accolti ufficialmente e si è diventati uno di loro. Rileggendo il testo di Geertz si ha l’impressione che, una volta ottenuta la complicità da parte dei nativi, i problemi siano risolti e che la ricerca possa avere inizio tranquillamente, d’altre scosse esente: acquisita la complicità dei nativi, la ricerca va da sé. In realtà, nell’etnografia di Geertz altri elementi – epistemologicamente più importanti della sola ‘complicità’ – entrano in gioco, ma rimangono indiscussi: la concezione stessa della ricerca; le attribuzioni di soggettività individuali e collettive ai balinesi; l’interpretazione del combattimento come fatto artistico o altro; il ruolo poco chiaro assunto dalla moglie di Geertz; la comprensione dell’altro in quanto soggetto con cui dialogare alla pari oppure, al contrario, vedere ‘di spalle’. Come scrive Crapanzano lapidariamente: nonostante le aspirazioni fenomenologiche di Geertz, «non c’è alcun tentativo di capire i nativi dal punto di vista dei nativi» (Crapanzano 1997: 106).
Il testo di Geertz non è che un esempio, fra i tanti, di focalizzazione (narrativa, concettuale e pragmatica) su alcuni segmenti della ricerca divenuti, per tacita convenzione, parte integrante di un modo di concepire l’etnografia – in versione esotizzante – come forma di discontinuità da ciò che la precede e segue: dalla vita ordinaria nel proprio paese; dal viaggio compiuto per rendersi sul luogo esotico; dai problemi connessi al finanziamento della ricerca; dal processo retorico di scrittura e testualizzazione; dall’eventuale ricerca del lavoro o dall’assillo imperante della carriera accademica. Al fine di delimitare una ricerca etnografica nel suo raggio d’azione d’ordine spaziale non è invece necessario mettere tra parentesi ciò che precede e segue la ricerca in modo fisso: ciò che precede e segue una ricerca è anch’esso degno, antropologicamente, di essere preso in conto in quanto entità in fase continua (benché variabile) con l’ordine temporale dell’esistenza stessa, anch’essa da indagare in tutti i suoi multiformi aspetti.
Ciò che viene sistematicamente messo tra parentesi non è in nessun caso impertinente, quale che sia l’approccio usato, bensì rivelatore, e va indagato: perché dice molto rispetto al ‘partito preso’, sovente implicitamente adottato, nel fare ricerca; dice molto rispetto alle assenze e presenze d’ordine teorico, metodologico e pragmatico. Cosa viene messo in rilievo, fondamentalmente, nei testi di Malinowski e di Geertz? Una delle questioni più importanti riguarda proprio la figura dell’antropologo, visto nella contraddittoria posizione di chi arriva sul posto e, al pari di un naufrago, si lascia tutto alle spalle: la propria vita, gli affetti, la lingua, la cultura. Perso tutto, all’antropologo-naufrago non rimane altro che iniziare la propria ricerca con la forza di un ‘eroe solitario’. In termini proppiani, si direbbe che la ‘qualificazione’ dell’‘eroe’ – l’etnografo sul campo – viene attribuita ‘per difetto’, mentre la ‘realizzazione’ del compito assegnato viene rappresentata come ardua ma possibile grazie al fatto che il soggetto è ‘con le spalle al muro’ (si ricordi che, negli Argonauti, la spiaggia dove Malinowski approda diventa, simbolicamente, il limen da cui non si può tornare se non dopo aver compiuto la ricerca): così il compito assegnato è equivalente a un dover-fare e a un non-poter non-voler fare. L’antropologo è ‘costretto a farcela’, nonostante il compito prospettato sia dato – soprattutto in prefazioni che ne giustificano l’apparente liminarità – come immane; di pari passo, alla nostalgia per ciò che l’antropologo si è lasciato alle spalle all’arrivo interstiziale sul campo, fa seguito il suo impegno per la ricerca indefessa sui nativi.
A conti fatti, al soggetto-etnografo non rimane altro che questo: mettersi al lavoro di buona lena. Come scrive Pratt a proposito di quelle etnografie in cui l’immagine dell’antropologo-naufrago è ricorrente e contraddittoria: «naufraghi e prigionieri per molti versi realizzano l’ideale dell’osservatore partecipante» (Pratt 1997: 66). L’immagine è contraddittoria perché se, da una parte, manifesta l’ideale dell’osservatore partecipante ‘costretto’ a vivere all’interno di una cultura (e ne è divenuto profondo conoscitore), dall’altra non rende conto del fatto che l’antropologo fonda la propria complicità sullo scambio di merci (corrompendo, così, la presunta purezza della cultura, contaminata proprio dalla sua intrusione).
A questo riguardo, altrettanto paradigmatici, se non di più politicamente, sono gli esempi di difficoltà incontrate sul campo da Evans-Pritchard ne I Nuer. Ne elenco alcuni tra i più significativi per i fini qui preposti: i portatori si rifiutano ostinatamente di accompagnarlo nel territorio nuer; la loro lingua è complicata, quasi impossibile da apprendere; il conflitto sul posto è ancora in corso e le tensioni che ne derivano minacciano l’andamento della ricerca; Evans-Pritchard, in quanto rappresentante del governo inglese, viene considerato un nemico da tenere a distanza; nelle conversazioni con gli informatori, grazie alle quali Evans-Pritchard dovrebbe acquisire gli elementi della cultura, i nuer fanno continuo ostruzionismo alle sue domande; la regolarità e sistematicità del suo lavoro vengono frequentemente ostacolate dal va-e-vieni inconcludente di nuer nella sua tenda. Questi tratti – difficoltà vissute sul campo, valorizzate senza riserbo – andrebbero discussi singolarmente per capire in che modo rendono possibile la manifattura di un tipo di etnografia o un altro. Ciò che più conta qui, per i miei fini, è che, al pari di Geertz, anche nel caso di Evans-Pritchard le difficoltà vengono superate, nonostante i fastidi e le sofferenze ostentate; esse mostrano la ‘bontà’ – retorica – del fare di chi è sul campo ed è riuscito ad ottenere i suoi scopi.
L’etnografia che scrive Evans-Pritchard – Geertz, a suo riguardo, parla di «diapositive antropologiche» (Geertz 1990: 71) – ne è l’esempio evidente: se non avesse superato le difficoltà prospet- tate non avrebbe potuto scriverla. Il risultato retorico di tutto questo è che ‘il ricercatore sul campo’ e ‘il narratore nel testo’ sono ambedue credibili, autorevoli e il lettore può prendere per buono ciò che essi dicono e fanno. A una lettura più scaltrita, tuttavia, si vede bene che le retoriche dell’oggettivazione relative alla ricerca sul campo – utilizzate da Evans-Pritchard e dagli altri antropologi – elidono proprio la dimensione temporale, nonché i contesti storici caratterizzanti appieno le vite dei popoli studiati. Invece, oltre Evans-Pritchard, è opportuno ribadire che i popoli si muovono nella storia e dovrebbero essere visti come soggetti a tutto tondo, se non altro al fine di meglio rivelare gli indebiti incastri di potere e sapere che influenzano la loro vita effettiva. Nel caso specifico di Evans-Pritchard, questo incastro tra sapere e potere (e il parallelo tentativo di elisione) viene sorprendentemente, benché contraddittoriamente, rivelato dallo stesso autore: «Ho iniziato il mio studio sui Nuer su richiesta e finanziamento del governo del Sudan Anglo-Egiziano, il quale ha anche contribuito generosamente alla pubblicazione dei risultati» (Evans-Pritchard 1975: 27). Come fa notare Rosaldo, sarebbe interessante conoscere la ragione per cui il governo anglo-egiziano ha finanziato la ricerca in un paese, in conflitto, su cui gli inglesi cercavano di estendere il loro pieno potere coloniale. Secondo Rosaldo, Evans-Pritchard tenta, in definitiva, di «isolare la purezza dei dati […] dai contesti contaminanti da cui sono estratti» (Rosaldo 1997: 123).
Alla luce di queste considerazioni, diventa allora più chiaro capire il motivo per cui è importante affinare l’analisi delle retoriche contenute nelle etnografie. Più particolarmente, mettere in evidenza la retorica usata da Evans-Pritchard – una retorica che occulta i nessi tra potere e sapere – consente di reimpostare la ricerca in modo più libero. Applicarsi meta-antropologicamente a Evans-Pritchard rende più liberi dagli effetti nefasti del colonialismo e più consapevoli dei suoi effetti, ancora presenti nel mondo, sotto forma di nociva e strisciante globalizzazione, se non addirittura di vero e proprio neocolonialismo. Ciò vale pure per gli altri autori di cui si è parlato e per le loro retoriche implicite. Rivolgere l’attenzione alle retoriche utilizzate da Geertz, analizzandole, rende più consapevoli rispetto all’eccesso di interpretativismo messo in opera dall’autore a discapito del diritto di parola degli stessi balinesi. A sua volta, prendere in conto le retoriche di Malinowski, esplicitandole, rende più liberi dall’eccesso di pianificazione della ricerca incentrata sul fare individuale di un – rappresentato come solo, nostalgico e competente – soggetto, per di più motivato all’azione dalla forte discontinuità posta con la vita vissuta nella cultura di appartenenza. Questi autori di cui parlo non sono che esempi, ovviamente, di una meta-analisi che potrebbe estendersi a altre opere, altri antropologi: il mio intento, qui, è esemplificativo e tende a mostrare il principio più generale che retorica e senso, vivere e ricostituzione testuale non vanno, in nessun caso, tenuti separati.
Tornando al senso del vivere e alla vita come oggetto di studio antropologico, si deve inoltre mettere in risalto un elemento comune a Malinowski, Evans-Pritchard e Geertz: tutt’e tre ricorrono a un modello simile, fondato sull’ostentazione di un ostacolo da affrontare e superare, basato sulla pianificazione della ricerca da condurre sul posto in termini di forte discontinuità con tutto ciò che ha preceduto – soprattutto esistenzialmente – l’entrata in campo dell’etnografo. La vita sociale e individuale dell’antropologo viene lasciata fuori, così come tutti gli altri elementi connessi alla sua appartenenza e cultura d’origine, mentre la vita sul campo, al pari di un racconto di magia russo, viene inquadrata all’interno del ‘danneggiamento’ (di proppiana memoria) posto, ostentato e risolto grazie alle virtù ‘eroiche’ dell’etnografo. Arrivo ‘mitico’ sul posto, difficoltà insormontabili sul campo, creazione della complicità con i nativi, scelta accurata di informatori, eventuale amicizia che ne assicura la ‘buona informazione’, regolarità dell’osservazione e partecipazione per lunghi periodi di tempo sono, in etnografie più esotizzanti, alcuni dei sintagmi – figurativizzanti la funzione del ‘danneggiamento’ – eletti a forme rappresentative con cui fare i conti al fine di incontrare l’altro e poter avviare la comprensione-ricezione della sua cultura.
In che modo, allora, fare un passo ulteriore in antropologia, per andare oltre stereotipati sintagmi agentivi e narrativi? La vita stessa dovrebbe diventare oggetto di studio antropologico a tutto tondo, rimpiazzando l’armatura ideologica dell’‘essere e andare altrove’ – affermatasi in passato – con un più efficace e odierno pensiero del ‘vivere in divenire qui e altrove’. Per reimpostare efficacemente la ricerca, in sostanza, bisognerebbe concentrarsi sulla vita in divenire e sui molteplici modi di ritagliarla per elementi di discontinuità e continuità. Se affermo questo – parlando di ‘ritagliare’, nonostante la mia propensione per il divenire – è anche perché sono consapevole del fatto che è difficile fare totalmente a meno di discontinuità. È poco realista concepire l’esistenza senza produrre una categorizzazione di qualche tipo che produce del discontinuo (con qualcosa) e del continuo (con qualcos’altro).
Rifiuto senz’altro una discontinuità tra (un’idea di) campo e (un’idea di) vita che le tenga separate: la vita è essa stessa un campo a tutti gli effetti. Tuttavia, più che rinunciare totalmente a ogni forma di discontinuità e continuità, preferisco pensarle, di volta in volta, come possibili elementi di forza: perché, queste, caratterizzano le culture, configurandole, assegnando loro significatività. Così, tra le altre, non rifiuto nemmeno la ricerca sul campo in luoghi esotici: non si tratta di farne a meno, in toto o in parte, ma di tenere conto di ciò che ci si lascia alle spalle, mettendo invece in rapporto ciò che si fa nei luoghi esotici con ciò che si fa a casa propria, il mondo locale con il mondo globale, le mescolanze di poteri e saperi con i generi testuali che le veicolano o le camuffano. Ciò vale pure per gli informatori: non si tratta di farne a meno (per diventare osservatori-partecipanti o altro), ma di considerarli, più che fonte di sapere neutrale o subordinato, dei veri e propri interlocutori con cui dialogare, ‘giocando’ inoltre con loro a invertire le posizioni attanziali relative al ‘proprio’ e all’‘altrui’.
Credo, infatti, che l’‘avventura antropologica’ sia un modo per decentrare se stessi e gli altri, i propri posizionamenti e quelli altrui: al fine di vedere meglio se stessi e gli altri, nel va-e-vieni tra il locale e il globale, il sapere e il potere. Pienamente d’accordo, quindi, con quegli antropologi che vedono l’antropologia come «modo per liberarsi delle consuetudini percettive scoprendo altre modalità di approccio, per avvertire la moltitudine dei mondi che si nascondono nel mondo» (Le Breton 2007: XIX). Con una differenza, però, che ribadisco: il proverbiale straniamento provato dall’antropologo non vale soltanto per le consuetudini percettive, ma, parimenti, per quelle cognitive, emotive e le – inevitabili – testualizzazioni. In questa prospettiva, è anche più chiara la ragione per cui – soffermandomi su Malinowski, Evans-Pritchard e Geertz – faccio ampio riferimento teorico ad autori palesemente collegati al movimento di Writing culture. Questo movimento ha tenuto in alta considerazione le nozioni di testo, soggettività e scrittura. Ciò è diventato in seguito, per oppositori e critici, un modo per relegare queste nozioni nel passato da superare o nel novero del già noto da sostituire con altro. A mio parere, invece, la lezione più importante, ancora attuale, consegnata da Writing culture ai posteri, è che la loro riflessione – convergendo su testi e scritture, soggettività e autorialità’ – diventa un mezzo efficace per mettere a fuoco su contesti pragmatici e storici obliterati, così come su incastri di poteri e saperi fatti passare per innocui, o su discipline e discorsi concepiti come innocenti strumenti di neutrale sapere.
Come ricorda Foucault, la «discipline est un principe de contrôle de la production du discours» (Foucault 1971: 37). Ineludibilmente legata ai contesti storici, alla stregua di altre discipline, l’antropologia si pone tuttavia una finalità soggiacente che la rende critica rispetto all’acquisizione del sapere disciplinare e ‘naturalmente’ orientata a un dialogismo della ricerca e dell’esistenza: sfuggire al controllo esercitato da un solo tipo di produzione di conoscenza. E questo, fin qui, potrebbe bastare per quanto riguarda Writing culture e l’ordito di potere e sapere da combattere al fine di recuperare senso al vivere.
C’è, tuttavia, ancora un’altra ragione per cui ho preso di mira Malinowski, Evans-Pritchard e Geertz: le loro etnografie, oltre a creare una discontinuità forte tra la vita vissuta (nel proprio paese) e la ricerca (in luoghi esotici), tengono in scarso conto l’effettivo senso del vivere dei nativi e i loro modi di attribuire senso alla vita. Il modo di vita dei trobriandesi, dei balinesi e dei nuer viene descritto, qualora avviene, per lo più all’ingrosso: ciò che è effettivamente assente è la tangibile attribuzione di senso dato alla vita dei/dai nativi, mentre, nelle etnografie degli antropologi in questione, si focalizza soprattutto l’attenzione sulla nozione inglobante di cultura. Che senso ha la vita degli individui all’interno di una cultura intesa, invece, come non dissipatrice delle singole specificità e di una teoria più centrata sull’essere umano? Spesso, in funzione dei diversi orientamenti teorici, l’essere umano viene «eluso a vantaggio dell’azione, dell’esperienza o della relazione che sono diventate gli oggetti dell’intelligibilità» (Piette 2016: 17). Come ripartire allora dall’individuo, dal senso del vivere, senza ‘annegarlo’ nel mucchio di nozioni totalizzanti, ivi compreso quello di cultura?
Come ho già anticipato all’inizio, non è semplice interrogarsi sulla vita e sul senso del vivere, proprio e altrui, dall’interno e dall’esterno di una cultura. Non è però un motivo per rinunciarci del tutto. Un buon punto di partenza può – deve – essere la commistione di personale e impersonale, vissuto e osservato, proprio e altrui, che trasforma – se debitamente preso in conto – ‘l’etnografia d’altri’ in una ‘auto-etnografia di sé e degli altri’. Un punto di partenza può essere costituito da frammenti di vita ordinaria in apparenza marginali. Nel mio stesso frammento di giornata, per esempio, per quanto poco rappresentativo e comune, si intrecciano le diverse questioni a cui ho accennato. Mi sono imbattuto, oggi, per caso, in una giornata qualsiasi, su un libro di Sacks. Il caso è stato agentivo, mi ha spinto ad agire, a proiettarmi nell’universo del ricordo, a tornare a casa e rileggere altri testi di Sacks: in libreria mi fermo a sfogliare Gratitudine, rivado con la mente a Un antropologo su Marte; tornato a casa, mi metto a rileggere L’occhio della mente e penso di scrivere qualcosa che faccia il punto sulla situazione. Che vuol dire questo?
Molto semplicemente, vivo – viviamo – in un mondo in cui esperienze e testi si mescolano senza priorità, letture e riletture si rimandano talvolta casualmente, visualità e gestualità si incastrano e si ritraducono sovente in modo imprevisto; le immagini, poi, hanno un peso particolare nel formarsi e scorrere del pensiero che, proprio per questo, non può essere concepito come statico, isolato e ordinato in sé. In definitiva, non si tratta soltanto di soffermarsi sul solo agire in sé o sulla dimensione cognitiva o percettiva dell’essere umano, ma, più propriamente, di focalizzare l’attenzione sul modo stesso di vedere la vita nella sua ampiezza, di concepirla e assegnarle un senso in funzione dei diversi incastri e intrecci: alcuni da accettare, altri da rifiutare. Per esempio, crediamo ingenuamente di muoverci in una costante dimensione di pianificazione delle azioni: in vista di ottenere un qualche risultato che ci soddisfi. In realtà, il caso e l’imprevisto fanno parte integrante della nostra esistenza, dettandone sovente l’andamento a discapito della pianificazione degli obiettivi posti. È possibile infatti, in opposizione al precedente, concepire un andamento di vita – persino collettiva – non imposto dalla ferrea legge della pianificazione: si pensi alle comunità hippy degli anni sessanta oppure ai meno conosciuti hobos americani, i quali andavano senza meta, per gli Stati Uniti, accontentandosi di qualche lavoretto, eleggendo a loro stile di vita il viaggio e il ‘tirare avanti’ senza scopo. London, vagabondo lui stesso, nel racconto delle sue peripezie di straccione per gli Stati Uniti, lo sottolinea: «Il vagabondo […] vive […] nel momento presente. Ha capito la futilità dello sforzarsi per qualche scopo, e conosce il piacere del lasciarsi portare alla deriva dai capricci del Caso» (London 1976: 45). Anderson, anche lui vagabondo, divenuto in seguito sociologo, considera quello dell’hobo uno stile di vita vero e proprio, caratterizzato dall’assenza di una pianificazione di vita a lungo termine e di una residenza unica: l’uomo «senza dimora sceglie a caso il cibo come il lavoro» (Anderson 1996: 43).
Insomma, nella vita, c’è chi si pone uno scopo e vuole realizzarlo a tutti i costi, pianificando senza sosta e vivendo per questo; c’è chi, invece, alla maniera degli hobos, vive il più vicino possibile alla dimensione del presente e della casualità. Quali che siano le scelte individuali, è comunque necessario introdurre «l’aléa comme catégorie dans la production des événements» (Foucault 1971 : 61). Inoltre, non è forse possibile riassumere una vita in termini di pura casualità o di sola pianificazione: l’una o l’altra separatamente. Sono infatti ambedue presenti, sebbene per gradi diversi. Ciò che conta è che la pianificazione della vita non deve, in generale, essere vista in opposizione all’intervento del caso e dei suoi inaspettati suggerimenti. In passato, invece, le mire strutturanti di alcuni antropologi sono state talvolta impostate a partire da un’idea di ordine e pianificazione del fare. Oggi, invece, è utile insistere – continuare a insistere (Rosaldo 2001; Balandier 1991) – sulle interrelazioni tra ordine e disordine, nonché sulla valenza del caso e dell’imprevisto. Questo non vuol dire cadere nella trappola del presentismo: di una vita da vivere a tutti i costi nel presente immobile o nella beata attesa del caso riparatore. Più che di un presentismo omogeneo, si tratta semmai di modalità diverse di assunzione del presente (oltre che di passato e futuro) da parte di individui e comunità: ci sono, infatti, molti modi di vivere nel/il presente in dipendenza dei diversi contesti.
Il lavavetri bangladese, con il quale chiacchiero di tanto in tanto da qualche anno, mi racconta che vive una vita in costante attesa di qualcosa che accade e non sembra mai accadere. È (stato) bloccato nella sospensione del tempo presente che non vuol volgere al meglio e non lascia il passo al futuro il quale, invece, non arriva e non si presenta a lui mai come tale. La sua vita al presente non è una vera e propria scelta ed è la sola tecnologia (il cellulare e internet) che gli consente di stare in contatto con i suoi cari in Bangladesh, provvedendo a smussare le asperità della giornata passata sotto il sole a cercare di lavare vetri ad automobilisti riluttanti. L’intreccio di presente e di casualità dei surrealisti francesi è tutt’altra cosa: è provvidenziale, vitale, creativo, e non un blocco dell’essere o del vivere. Invece, il contrario si può affermare dell’esperienza vissuta da Levi – all’interno del campo di concentramento – per il quale il futuro si presentava come una barriera, quindi, in realtà, come un non futuro:
«Per gli uomini vivi le unità del tempo hanno sempre un valore, il quale è tanto maggiore, quanto più elevate sono le risorse interne di chi le percorre; ma per noi, ore, giorni e mesi si riversavano torpidi dal futuro nel passato, sempre troppo lenti, materia vile e superflua di cui cercavamo di disfarci al più presto. Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili, il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata» (Levi 1958: 105).
Ciò che intendo dunque dire, citando Levi ed altri, casi estremi e non, è che esiste una stretta relazione tra il senso attribuito al vivere e il modo in cui – culturalmente, individualmente – il tempo viene modellato e assunto o, talvolta, persino imposto. Che fare a riguardo? Per meglio enucleare il senso del vivere, la bilancia (della ricerca) dovrebbe pendere verso le pratiche quotidiane, sottolineando i modi secondo cui casualità e progetti si incontrano e sono realizzati dai singoli. Il tempo è infatti – oltre che dato culturalmente per schematismi – un «symbolic process continually being produced in everyday practices» (Munn 1992: 116). Si giustificano, così, in questa prospettiva, le oscillazioni del tempo in quanto prodotto di pratiche quotidiane. Così, pur ricorrendo al tempo e soffermandosi sui vari modi di viverlo in una dimensione più prossima al presente, le oscillazioni semantiche sono molteplici e vanno prese in carico.
La dimensione del lavavetri bangladese di cui ho parlato, più che una vera vita vissuta nel presente, sembra oscillare verso un’attesa infinita, priva di grandi speranze. La dimensione vissuta da Levi nel campo di concentramento si presenta sotto forma di un rallentamento eccezio- nale del ‘vivere nel presente’, in conseguenza del quale il futuro diventa una vera e propria barriera insuperabile: non sembra trattarsi più di un’attesa o di un presente vissuto, ma, nella resa metaforica, di un blocco spaziale insu- perabile. Per i surrealisti francesi, al contrario, l’attesa, in quanto gioiosa anticipazione, è già l’evento stesso vissuto euforicamente: «indipendentemente da ciò che accade, che non accade, è l’attesa che è magnifica» (Breton 1937: 39). Malgrado le difficoltà di distinzione netta tra ‘un’attesa polisemica’ e un ‘presente vissuto incondizionatamente’, rimane il fatto che l’attribuzione di senso al vivere quotidiano si articola in stretta adesione alla dimensione temporale. E non è fuor di luogo – l’intreccio malcelato di sapere e potere incombe – ricordare il principio che la dimensione temporale è, essa stessa, manipolabile dall’alto, persino nella forma dell’apparentemente innocua attesa. Scrive Bourdieu:
«L’attesa è uno dei modi privilegiati di subire il potere, e il nesso tra tempo e potere – e occorrerebbe censire e sottoporre ad analisi tutte le condotte associate all’esercizio di un potere sul tempo degli altri, sia dalla parte del potente (rimandare, prendere tempo, far sperare, differire, temporeggiare, soprassedere, rinviare, arrivare in ritardo o, al contrario, precipitare, prendere alla sprovvista) sia da quella del ‘paziente’, come si dice nell’universo medico, uno dei luoghi per eccellenza dell’attesa ansiosa e impotente»(Bourdieu 1998: 239).
Non è evidentemente questa l’attesa di cui parlano i surrealisti francesi. Tutt’altra cosa ancora è il ‘viver presente’ degli hobos americani o degli hippies degli anni sessanta: il loro presente incondizionato viene vissuto come trasgressione al potere dominante e ai codici, imposti dall’alto, contro cui rivoltarsi al fine di vivere una vita più libera, associata al caso, tenuta al riparo da forme opprimenti di pianificazione.
Torna qui utile distinguere, benché non nettamente, tra una ‘vita vissuta al presente’ come rivolta (gli hobos) e un’incerta vita vissuta nell’impotente ‘sospensione dell’attesa’ (migranti e sopravvissuti). A queste due forme temporali oscillanti (vivere nel presente; vivere nell’attesa), si deve contrapporre una vita vissuta nella pianificazione o, comunque, mettendo in risalto la virtù pianificatrice del futuro. In questa prospettiva, una versione del tempo fortemente connotata e rappresentativa è quella fornita da Van Gennep secondo cui
«vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo, mutare stato e forma, morire e rinascere; in altre parole si tratta di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire, ma in modo diverso» (Van Gennep 1981: 166).
È celebre, talvolta criticata perché ritenuta semplificatrice, la tripartizione dei riti di passaggio approntata da Van Gennep: separazione, margine, riaggregazione. Meno commentata è invece questa sua definizione del vivere fondata sull’aspet- tualizzazione dell’agire visto per tratti discontinui e continui che consentono all’autore di pensare l’esistenza per fasi da superare secondo una progressione ritualizzata (per esempio, la nascita, il fidanzamento, il matrimonio, la laurea, il colloquio di lavoro, la morte). In essenza, le varie fasi di un’esistenza, debitamente suddivise, richiedono riti opportuni, ben pianificati, perché queste fasi possano venire affrontate e superate adeguatamente. Per dirla diversamente, il futuro, nell’ottica di Van Gennep, viene addomesticato, reso meno ‘sofferto’ o imprevisto, grazie a riti e piani d’azione. Più particolarmente, secondo Van Gennep la pianificazione delle azioni (rituali), in seno a una cultura, assurge a elemento centrale per il senso del vivere.
Per riepilogare, dunque, al ‘vivere nel presente’ e al ‘vivere nell’attesa’, bisogna aggiungere la modalità di vita fondata sulla ‘pianificazione del futuro’ (all’interno della quale si inserisce quella più specifica concepita da Van Gennep). A queste tre forme di ‘oscillazione’ del senso del vivere/del tempo, se ne deve associare una quarta: il passato da recuperare. Il recupero del passato – la vita rivolta al passato – non è soltanto, come si potrebbe credere, quella modalità adottata dagli anziani per vivere il corso della loro vita presente e attribuirgli senso guardandosi indietro. Rivolgersi al passato, per trarne senso, è una ‘modalità culturale’ più ampia che riguarda, al contempo e indistintamente, scrittori e antropologi: si pensi a Proust e l’immensa opera di recupero del tempo perduto – compiuta nei sette volume della Ricerca – attraverso l’attivazione delle memoria volontaria e involontaria; si pensi pure a Lévi-Strauss e alla distillazione del ricordo, associato al profumo, che lo riporta in Brasile e lo aiuta a trascrivere – in Tristi tropici – il passato trascorso in quel paese. Non ci si deve stupire più di tanto, comunque. Il senso di ciò che si è, il senso di ciò che è la nostra identità – in solitudine o con altri, individualmente e in collettività – proviene in parte dalla memoria, dal suo depositarsi culturalmente nelle varie ‘sostanze’ che ne traspongono l’esperienza e le forme codificatrici: una foto, un libro, un museo, una poesia, un brano musicale, una forma di danza, una edicola votiva, etc.
Ciò detto, tornando alle difficoltà incontrate nell’interrogare gli altri sul senso del loro vivere poste da me all’inizio, rimane un fatto: il vivere tende a fluire in modo implicito e a venire a galla, alla coscienza, soprattutto in quei casi in cui succede qualcosa che stravolge la routine, irrompe nell’ordinario e muta la sua regolarità. L’idea è dunque che si riflette – si è costretti a riflettere – più specificamente sul senso del vivere allorché ci si trova alle prese con ciò che lo mette in pericolo: la morte e le malattie o un incidente, per esempio. Non sorprende, quindi, che il senso attribuito al vivere sia strettamente associato ai modi messi in opera dai riti per addomesticare proprio morte e malattie. Questo presupposto – si combatte la morte o la malattia attraverso i riti del vivere, resi significativi da una cultura – diventa anche un modo per definire, autoreferenzialmente, la cultura stessa e le forme rituali.
In questa prospettiva, l’esempio di Sacks è paradigmatico. Sacks mette bene in evidenza il rapporto stretto esistente tra identità e corpo in Un antropologo su Marte, e lo fa parlando pure di se stesso, dell’incidente che gli è capitato alla spalla e gli impedisce di scrivere normalmente. Non è la prima volta, tuttavia, che Sacks parla di se stesso. In Su una gamba sola, racconta un incidente, avuto anni prima durante un’escursione in montagna, mentre si trovava da solo e rischiava di morire. Torna a parlare di se stesso in seguito, addirittura in forma di diario, quasi fosse un paziente che prende appunti per il proprio medico, ne L’occhio della mente, e lo fa spietatamente. Sacks, come tutti, sa di essere vulnerabile, ma non ha paura di mostrarlo. Racconta, infatti, crudamente del tumore maligno che invade il suo occhio destro nel 2010 e, poco a poco, il suo corpo, fino alla morte nel 2015. Rivela, nella malattia, gli incastri temporali che sottraggono senso al vivere e, pur tuttavia, contribuiscono ad arricchire l’essere umano, lo rendono consapevole dei suoi limiti, lo inducono a riflettere sul senso del vivere:
«Avere un cancro, qualsiasi cancro, significa un cambiamento istantaneo di status nella propria esistenza. La diagnosi è una soglia oltre la quale c’è una vita che, per quanto lunga, sarà costellata di esami, cure, vigilanza; e immancabilmente, in modo più o meno consapevole, una riserva nei confronti del futuro» (Sacks 2011: 158, mio corsivo).
La malattia e la consapevolezza della morte lo portano, più che a concentrarsi sul soprannaturale o spirituale, a riflettere sul senso del «vivere una vita buona e degna» (Sacks 2016: 54). Significativamente, la risposta che si dà, pensando allo shabbat da ebreo non credente, è condivisibile: «quando uno sente d’aver fatto la sua parte […] può, in coscienza, abbandonarsi al riposo» (Sacks 2016: 54). La parte che ognuno di noi vuole avere nella (propria) vita è altamente variabile e dipende, come si è visto, da molti fattori, non ultimo le possibilità economiche, la famiglia in cui si è nati, l’adesione (o meno) a una religione. Che lezione trarne, allora, più in generale? Cambiamenti dovuti a malattie, sofferenze o prossimità della morte, modificano il senso del vivere del singolo, il suo senso del tempo. Questo è certo e interessante. Ciò su cui è necessario riflettere, in modo più accurato, è la maniera individuale di reagire alle avversità, in ottemperanza o meno alla propria cultura, credo e stile di vita, in relazione alle specifiche vulnerabilità di ognuno di noi in un mondo pensato spesso, politicamente, per gerarchie sociali e per imposizioni di poteri arroganti. La vita di Sacks, nonostante il tumore, è stata fortunata, piena e l’autore mostra gratitudine. Non è così per tutti, non è così per i vulnerabili di un mondo in movimento, travagliato.
In conclusione, cosa ho inteso fare io in questo breve saggio, nel mio piccolo, rileggendo per caso la storia di Sacks? Recuperando pezzi di mie interviste, facendo capo a mie osservazioni-partecipanti con lavavetri, riferendomi a letture di testi e testimonianze scritte di autori diversi, ho inteso mettere l’accento soprattutto sui modi in cui il senso del vivere e le diverse forme di temporalità (vivere nel presente, vivere nell’attesa, vivere nella pianificazione, vivere nel recupero del passato) si associano, oscillano o entrano in attrito. Se ho messo a fuoco – forse in maniera smodata, me ne rendo conto – sul nefasto intreccio di potere e sapere che pervade l’esistenza è soltanto perché credo – fermamente – che l’antropologia debba mostrare, da parte sua, impegno verso i vulnerabili del mondo e, allo stesso tempo, rivelare gli incastri manipolatori che vengono dall’alto. La vita è un esperire e, al contempo, un concetto le cui possibilità (di controllo) non debbono essere lasciate in mani d’altri, pochi altri, il potente di turno. In questo, ritengo, esempi in passato di insubordinazione – incarnati dagli hippies e dagli hobos – non sono tutt’oggi da sottovalutare. Che resta da fare, in sostanza, in chiave antropologica? Recuperare il processo del vivere, lavorare sulle sue modalità di attuazione nelle diverse culture, attribuendogli senso, prendendo di mira, più da vicino, gli individui in carne e ossa e le loro vite specifiche, mi sembra una strada da – continuare a – percorrere teoricamente, pragmaticamente.
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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