di Giuseppe Sorce
Quando stai per arrivare alla stazione di Liegi ti senti come dentro la pancia della balena di Pinocchio. Un grande e gigantesco costato per cui la luce del sole trapassa fluidificando le costole metalliche e luminescenti. Grandi volte concave e armoniose, dentro gli arrivano i treni su binari che come grandi arterie vitali gli scorrono poderosi. Il gioco delle ombre striate con l’incedere del treno in cui mi trovo crea una pasta a scaglie amalgamate, fuse nella velocità dove lo sguardo ricostruisce insieme arrivo e partenza, in un unico flusso architettonico di forme, linee e corpi. Così ci sentiamo il cuore di una grande comunità in movimento, le viscere pulsanti al riparo dal mondo al di fuori, dal vento che soffia gelido.
L’Europa senza una comunità europea non ha senso. E la comunità non siamo altro che noi, noi siamo gli unici a poter “fare comunità”. Comunità nel senso di relazioni, rapporti umani, è questo che conta per fare una comunità. Annuiamo insieme ai lati di un tavolino su uno di questi treni ad alta velocità – il biglietto preso in sconto il giorno prima. Stavo scambiando due chiacchiere con il mio vicino di posto. Sono appena tornato dal Belgio, gli dico, dall’Olanda e dalla Germania. Sì. Da dovunque io mi trovassi, ovunque io stessi andando non ho percepito distanze né distacchi. In quella parte d’Europa si respira l’Europa. Ogni sera in una città diversa, lingue diverse, l’inglese comunitario, i gesti all’italiana e qualche birra.
«Qui in Germania, sui notiziari si parla pochissimo di questioni strettamente tedesche, i servizi parlano solo di tutto ciò che riguarda l’Europa», mi aveva detto A. C. In Italia non è così, «le notizie riguardo l’Europa sono sotto l’argomento “esteri”». Eppure l’Europa ci riguarda, non è estero. Ed è vero, penso. Il treno che mi ha portato da Aachen a Bruxelles ha attraversato dei luoghi. Quello che mi porta da Palermo ad Agrigento sembra invece percorrere solo spazi.
Come si fa una comunità? L’Europa oggi è una comunità? L’Europa oggi è un luogo o ancora uno spazio economico, un luogo solo per le merci?
Gli alberi si fanno via via più alti, i fusti più grossi, il fogliame più denso. Le fattorie e le pale eoliche che scorgo dai finestrini del pullman sono una costante piacevole nel procedere lento verso l’ennesima città dell’area.Quella di cui sto parlando è forse l’area geografica più industrializzata d’Europa, più densamente abitata. Basta andare su Google Maps per rendersi conto che la rete di strade, autostrade e piste ciclabili in quest’aerea è capillare. Non ci sono confini, e questo mi sorprende, anche se non dovrebbe. Non percepisco limiti, linee, bordi. Soltanto la vegetazione lievemente muta.
«Qui l’Università è piena di giovani da tutta Europa, fanno i ricercatori o il dottorato o hanno qualche borsa. Lavorano tutto il giorno, lavoriamo tutto il giorno». Bello no? rispondo io. «Sì ma si lavora tutto il giorno, guarda che la depressione è una cosa diffusa», mi risponde. «La famiglia è lontana, gli amici pure. Alla fine si finisce per uscire tra noi italiani. Ok, spostarsi, confrontarsi, avere possibilità che il tuo Paese non ti dà è importante, ma tutto diventa più difficile e spesso non si reggono i ritmi». La velocità è il problema forse? La stessa velocità che collega facilmente le città si innesta nel tempo del quotidiano consumando energie intellettive ed emotive, e il crollo è dietro l’angolo. Si continua comunque, fra un assegno di ricerca e un tirocinio post lauream. Si continua sempre, sempre più lontano da casa. Ma cos’è casa allora?
«Cosa significa, oggi, “casa”? Sempre più, si risponderà indicando “chi” è casa piuttosto che “cosa” lo è. “Casa” sono le persone che amiamo, ovunque si trovino e ovunque ci troviamo. […] La casa non è fatta – perché non è mai stata fatta, oggi come sempre – di pietre, ma di relazioni. Relazioni amorose, amicali e lavorative. Relazioni, soprattutto, rispetto alle quali il luogo passa in secondo piano. Non perché non abbia importanza, ma perché non è più un dato a priori ma qualcosa che viene scelto, sulla base di priorità relazionali» (Gori 2005).
Adesso i conti si fanno con gli oggetti. Le app per controllare le coincidenze dei bus, degli aerei, dei treni, e per vedere i parenti su Skype. I rapporti si accorciano di durata, forse, e aumentano di intensità per sfuggire alla frenesìa della produt- tività. I rapporti si vivono nella refrattaria vicinanza di uno schermo che ci restituisce i volti noti che abbiamo lasciato da qualche altra parte, d’Europa appunto. «Questa Europa senza confini ci piace», dice I. L.. Se siamo qui è grazie all’Europa, se possiamo semplicemente fare qualcosa, è grazie all’Europa. «Certo trasferirsi per due anni all’estero è come mettere, in un certo senso, in pausa la propria vita» (G. D.). Perché? Chiedo io. «Perché sai che le persone con cui leghi in qualche modo se ne andranno alla ricerca di un’altra città, un altro progetto. E l’idea di tornare in Italia è fuori discussione, o forse sì ma chissà quando».
Ho notato una certa fluidità, devo dire, la gente da queste parti è indifferente al tuo accento, al tuo modo di fare. È come se l’Europa sia già praticata da tempo. Forse a causa della geografia del territorio, dell’assuefazione della gente del posto allo straniero. «Quale gente del posto? Nessuno è del posto. Sono rarissimi gli autoctoni. E questo è naturale». E. M. mi spiega come funziona. «In genere tu fai l’Erasmus e ti crei dei contatti. Poi ti laurei e fai richiesta per il dottorato. Spesso ti prendono anche per il post doc. Così capita che passi tre, quattro, anche cinque anni qui».
«Ho conosciuto decine, centinaia di persone in questa condizione, con backgrounds diversissimi dal mio, ma tutti accomunati dall’essere neobabilonesi, semistanziali, semi-urbani, spiritualmente nomadi. La loro (la nostra) vita non si fonda e non si proietta in un legame tellurico, non pensa nulla in termini definitivi, se non i propri progetti e le proprie relazioni di amicizia, di lavoro, d’amore» (Gori 2005).
Bruxelles è una città dinamica. È la città-Europa, dico a S. W., la città che respira e letteralmente si alimenta d’Europa. «Hai ragione, l’unica questione è che qui la gente è spesso di passaggio. Arriva, studia, lavora, fa esperienza e poi se ne va. È strano, è come se ci nutrissimo noi della città, ne mangiassimo dei pezzettini. E lei si nutre d’Europa, molto. Quasi tutto qui gira intorno al fatto che a Bruxelles c’è il Parlamento. Anche se sono pochi quelli che in realtà ne conoscono a fondo i meccanismi politico-amministrativi, l’Europa qui è tangibile».
Forse perché il Belgio è uno Stato piccolo, per metà fiammingo di tradizione e per metà francofono, ma qui in molti lavorano e vivono il quotidiano parlando solo inglese (e in effetti ne ho conosciuti parecchi), dice F. R., italiano. Ha completato gli studi proprio nella capitale e vi è rimasto. Non sa per quanto ancora. «Il primo anno è stato strano, non uscivo mai, non ho fatto vita sociale, neanche c’ho provato. Ambientarsi è facile, basta conoscere un po’ di inglese, poi il resto lo impari, il francese, l’olandese… I mezzi funzionano, è pieno di italiani se vuoi. I ritmi della città non sono come quelli di Londra o Parigi, né c’è il caos di Roma. Si vive bene, a parte il clima, ma va be’». Ma quanti sono gli italiani all’estero, in Europa? Tantissimi. Non è difficile sentirsi a casa. Non è difficile abitare l’Europa se sei giovane. «In Italia è molto peggio. Avere una casa e un lavoro stimolante e ben pagato… Magari fra un anno mi trasferisco in Francia».
La mobilità-praticata è lo strumento per esorcizzare la mobilità-imposta. La mobilità tanto evocata dalla politica italiana non può che trovare perciò una valvola di sfogo nell’Europa. Spostarsi come soluzione antagonista al mito della stabilità, con cui siamo stati cresciuti e verso cui ci sentiamo spinti dall’angoscia del “sistemarsi”. Spostarsi come edulcorante della noia della sedentarietà delocalizzata.
«La mobilità non è più una questione da dibattere, ma un elemento strutturale della nostra forma di vita, che richiede delle soluzioni pratiche, qui e ora. L’antieuropeismo in cui non possiamo non riconoscerci è una naturale reazione alla politica predatoria della Germania sul resto d’Europa. Il modo per avversarla, però, non è il movimento dei forconi, o la spiga che ride dei neorusticani, ma l’esatto contrario: rivendicare un’effettiva cittadinanza europea, al di là dei campanili e dei confini» (Gori 2005).
Avverti che effettivamente una comunità Europea c’è? E dei nazionalismi emergenti che ne pensi? «Noi non l’apprezziamo, in Italia. Come in altri Paesi, per esempio la Polonia». M. T. è per metà polacca. «Ci siamo nati per cui non l’apprezziamo. L’Europa in alcuni posti è vissuta male. I media spesso legittimano il sentire comune che vede l’Europa come qualcosa che proviene dall’alto e dall’alto imponga le sue esigenze. Come se fosse una forza centripeta che ti schiaccia sotto la spinta del suo movimento inarrestabile. La gente si sente pressata e di conseguenza insofferente. Per cui i nazionalismi sono la reazione a tale senso di schiacciamento».
Ci chiamano la generazione Erasmus. I nati da fine anni ’80 in poi. Io non l’ho mai fatto, ma sento di farne parte ugualmente. Ogni anno nei locali la sera, a lezione, al bar nelle pause, conosco gli studenti universitari d’Europa. Ogni anno conosco gli amici degli amici che sono partiti per un anno e che d’estate fanno un salto in Sicilia per le vacanze. Così si fa comunità. Molti amici che ho adesso li ho conosciuti in questo modo, a Palermo come a Bologna come a Lione. Così si fa comunità. Anche così ma non solo.
Ad Aachen il pub è stracolmo. Tutti più o meno mi hanno raccontato la stessa storia. È divertente. Tra nazionalità nascono dei gemellaggi frutto di affinità spesso supposte. O. E. è spagnolo, musulmano, si diverte ogni sera a guardare tutti gli altri che si sbronzano mentre lui sorseggia la sua cocacola in lattina con una cannuccia. Sempre alla moda, in forma, è uno sportivo con la passione per i viaggi, per gli eventi culturali e per i selfie. «Ho viaggiato molto, ho fatto l’Erasmus due volte, ho fatto anche il visiting student, ora sto facendo un master. Viaggiare mi piace, l’Europa me lo permette, ho amici ovunque. Alle aziende interessa che tu abbia fatto esperienze del genere, è un valore aggiunto che conta più del voto di laurea». Studia economia e sicuramente lo sa meglio di me. Mi fido. «Per me l’Europa è come una grande casa».
Nous sommes redevenus nomades. È il manifesto poetico ed esistenziale di Lévy. Ed è vero. Lui lo scriveva vent’anni fa quando ancora la rete, e l’Europa, erano una speranza dalle basi promettenti. Finora ho scritto e parlato di “Europa” non riferendomi mai a nulla di ciò che riguarda argomenti del tipo: economia, riforme, istituzioni, leggi, ecc. Non ne ho né le competenze né l’urgenza di starne al passo. Quello che mi interessa sono altri meccanismi. Io e i miei interlocutori, di cui ho riportato alcune delle voci, ci riferiamo ad una dimensione identitaria. E non ho avuto bisogno di spiegarlo preventivamente durante gli svariati dialoghi. Non ho mai usato la parola “identità”, con nessuno, eppure era chiaro che parlassimo solo di questo.
L’Europa è qualcosa che si percepisce ma che non si sa definire. Una sorta di entità-madre di matrice essenzialmente culturale. L’Europa è anche uno spazio, un territorio, che diviene un luogo. Una percezione situazionale che ha come criterio fondativo le relazioni tra le parti che lo compongono e il soggetto che ne fa esperienza. E i luoghi possono essere abitati. Come si faccia dell’Europa un luogo, come questo luogo possa essere abitato, è ancora da sperimentare. Ognuno dei miei interlocutori ha trovato, continua e continuerà a cercare le proprie strategie.
Come si abita l’Europa? Come si abita un luogo-identità?
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Riferimenti bibliografici
Lévy P. 1998, L’intelligenza Collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Milano, Feltrinelli.
Gori F. 2015, Pensare il pleistocene, in Pleistocity.blogspot.it.
_______________________________________________________________________________
Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Attualmente studia Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna.
________________________________________________________________