Un grande e doloroso mito corre lungo le pagine dell’opera di Vito Teti, e ricorre ancora tra le pagine meravigliose del suo ultimo libro, Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli, 2017). Questo mito – non soltanto una categoria scientifica, soprattutto un nome di destino – lo si potrà definire «antropologia dell’abbandono» e intendere come fuga, nostalgia, lacerazione. Si dovrà però chiarire che qui si parla di un fenomeno che investe radicalmente la vita di un uomo. E comprendere inoltre che non si dà abbandono (di una casa, un paese, una terra), se non alla luce di una verità tecnica, cioè l’impossibilità, sia essa passata o presente, della cura, la cura del sé abbandonante e la cura del mondo in cui si vive o si è vissuto. «Quel che resta» diviene dunque una categoria ancipite, dal lato dell’abbadono può voler dire residualità vivente e resistente entro un quadro di inarrestabile ecatombe, dal lato della cura voler anche significare altro, uno stato di colpevole amnesia, di smemoramento, di incuria.
Quel che resta è un «libro autobiografico», un autoritratto nel ritratto, in cui il ripensamento dell’autobiografia soccorre certamente per comprendere sia l’abbandono sia la cura, comprenderli però non come gelido oggetto di studio – per usare una parola cara a Giorgio Colli e perfetta per il caso Teti – Quel che resta - ma come autentica storia di una vissutezza, storia di una Erlebnis. Vita e Mutterland allora delineano l’orizzonte entro il cui perimetro la ricerca di Teti trova uno spazio di espressione personale, anche però uno spazio dell’immaginario culturale. All’idea di abbandono va associata anzitutto una scena, la presenza delle rovine, un patrimonio dell’immaginario collegato già a Roma imperiale, nondimeno uno spazio sacrale-filosofico esposto nella letteratura apocalittica cristiano-giudaica e ancora ripreso dall’apocalittica medievale (Gioacchino da Fiore) e infine rifluito nell’iconografia (pittura e disegno) delle rovine come topos e nome di quel che resta. È vasta e complessa la storia degli abbandoni e delle rovine, articolata e non priva di riflessi sentimentali questa storia di cose restanti che esprimono nella loro agonia la testimonianza stessa del rovinare.
Vita e Mutterland, nel segno della rovina assumono allora il valore di un patrimonio perduto: res amissa, in questo caso, vuol dire – con una locuzione centrale nel pensiero di Ernesto de Martino – apocalisse culturale. Qui però apocalisse non è propriamente rivelazione, è qualcosa di più, rivelazione di una distruzione. La rovina non è soltanto quel che resta sotto il profilo archeologico, è anche da intendersi in un senso più ampio e forse più doloroso, cioè come rovina culturale, rovina ad esempio del tessuto, o meglio della lingua sacro-religiosa, rovina della parlata (il dialetto), rovina di una comunità, rovina di un modo di essere e pensare la vita, rovina, in definitiva, dell’interezza di un mondo. Perdere qualcosa equivale dunque a perdere quella totalità che è il paese, e nelle rovine perdute perdere quella totalità miracolosa che sono i paesi, la magica sostanza di luoghi, lingue, tradizioni, culture che a noi ha donato proprio il nostro perduto paese. Non potrà dunque essere pensata la perdita di un paese, se non come una fine di mondo perché ogni fine di particolarismo è la fine di una nuance di vita, per l’appunto l’apocalisse talvolta di una storia secolare.
La parola «schegge», parola di orientamento scelta da Teti per identificare l’argomento della prima parte di Quel che resta, nella propria realtà semantica contiene allora la rovina, il rudere, cioè la nostra memoria e il significato profondo e ancora appellabile della nostra stessa vita come totalità intera, come struttura di una coesione culturale. Ma «schegge» contiene anche la parola «reliquie». Reliquia è unitamente una sineddoche del sacro, un resto sacrale e un resto, anche laico, di qualcosa che fu, che ritorna ed è vivente. Se si vuole, la reliquia può essere compresa come sinonimo di rudere, cioè la testimonianza diretta dell’intero di cui però resta un segno, una pars venerata in nome di un antico tutto perché la sua proiezione memoriale figura una rinverginante presenza sopravvivente.
Il rudere e la reliquia sono quindi sopravvivenze, testimonianze di una realtà passata, di una storia culturale. E in quanto frammenti di vita passata rivivono, domandano di rivivere come memorie. A tale riguardo, la memoria non va però registrata secondo una prospettiva folcloristica (mero revival di paese) ma intesa – come scrive Gramsci nei Quaderni del carcere – nel segno di una «terrestrità assoluta di pensiero», nientemeno che il recupero della lingua madre. Nell’orizzonte di una lacerante destinalità, esse appaiono come memorie sospese tra il desiderio di durare, poiché vivono una loro dura condizione di resistenza, e il realistico rischio dell’apocalisse culturale. Chi pensa, rivive e scrive di questa materia aurata e terribile non è uno studioso anaffettivo, al contrario è un uomo che scrivendo confessa d’aver vissuto e di continuare a vivere proprio tra le pieghe di quella vita rifluita nella pagina scritta. «In fondo, la scrittura, anche quella saggistica, è sempre autobiografica» confessa Vito Teti. E di qui che transita il lettore di Quel che resta quando comprende – è un autentico trauma rigenerante la stessa lettura – che il coinvolgimento sentimentale dell’autore (e il suo coinvogimento esperienziale), il suo struggimento trasognato per l’aura del proprio disparente mondo (che se ne va in niente) determina la fioritura di una singolare morfologia della condizione umana, l’afflizione, anche tragica, della melanconia.
Nel segno della melanconia, infatti, è inaugurata la seconda parte del libro, anta edificata su una categoria antropologica in perfetto equilibrio tra la sfera autobiografica e la sua verifica sul piano della realtà. Anzi, la dialettica delle idee e del sentimento, tra la questione personale e lo studio oggettivo del reale, nella dorsale melanconica del libro di Vito Teti diviene la pietra angolare di una più potente intelligenza del mondo, quella che pensa il sé come luogo inaugurale per pensare la realtà, pensiero dapprima messo in circolo culturale e che alla fine ritorna potenziato, ritorna in forma di nutrimento del sé originario:
«Dovevo imboccare altre strade, immaginare altri percorsi, interrogare altre tracce e utilizzare altri scarti per cercare di decifrare la mia melanconia, di darle un nome, assumendola su di me con tutto il dolore e le lacerazioni che simili operazioni comportano».
La melanconia è un topos antropologico di Calabria. La sua origine – che Teti fa rientrare, tra le altre cause, nella demartiniana paura di perdere la presenza – va probabilmente ricercata anche nella non completa elaborazione e maturazione proprio di quella presenza mai del tutto conquistata e dunque mai a rischio di essere perduta fino in fondo. La melanconia allora potrebbe assumersi non già come la conseguenza, ma come la spia rivelatrice di un lavoro in atto, un lavoro secolare, la conquista della presenza e la presenza come conquista, anzi essere intesa come il simbolo stesso dell’accanita difesa del conquistato e dell’ansioso anelito per ciò che ancora si rivela conquistabile. Nell’intervallo tra il rischio del nulla e l’attesa della totalità, la melanconia si fa calcificato stato d’animo, rovina di un già diruto sentimento, nome di un’ontologia comunitaria nata da qualcosa di più incarnato, la «realtà melanconica». Se la nostalgia è malattia del ritorno, la melanconia è malattia del luogo, crisi dello stare, crisi dell’immaginare. È anche volontà di abbandonare il luogo, volontà di viaggiare, spesso in mentis, lontano da Mutterland, nel rischio paradossale, e sempre in agguato, di soffrire poi per nostalgia e volere finalmente ritornare.
La melanconia e la nostalgia sono peraltro riflesse in un grande romanzo della letteratura calabrese contemporanea, L’ultima erranza di Giuseppe Occhiato, in cui Filippo Donnanna è un uomo che ritorna dopo l’antica spartenza e in fondo non sa stare. Ecco allora la grande legge, andare e ritornare, prima andare e alla fine ritornare: in mezzo, spesso, uno squarcio temporale, la vita altrove, lontano dal paese, in un vero e proprio esilio, mentre il paese un poco muore perché abbandonato. La melanconia come malattia del luogo, malattia dello stare (e di non saper stare) può anche essere interpretata come la prima causa dell’abbandono. La condanna di casa, paese e mondo alla relittitudine, l’esito apocalittico della fuga dall’origine – storicamente causata da condizioni di vita spesso proibitive – nell’atto di abbandono contiene un duplice significato, come il paese l’abbandonante è esso stesso abbandonato (dal paese).
«La fuga dal luogo è l’altro volto del radicamento e del sentimento di appartenenza» scrive Teti elencando le ragioni storiche, politiche e culturali dei grandi esodi fuori di Calabria: a titolo letterario, exempla quali la narrazione breve di Corrado Alvaro (Ritratto di Melusina), i romanzi di Francesco Perri (Emigranti), di Fortunato Seminara (Le baracche), di Saverio Strati (La Teda), di Pietro Lazzaro (Mille anime) e Giuseppe Fiorenza (Il paese del malocchio). Non sempre però abbandonare il paese equivale a un abbandono perché il «paese abbandonato resterà nel mito, nelle leggende, nei racconti, nei sogni, nei ritorni anche a distanza di decenni». Non sempre l’abbandono può essere spiegato da un singolo motivo, spesso è spiegabile pensando a «concause»: la cattiva politica, il disastro naturale (struggenti le pagine di Teti dedicate a Cavallerizzo), le necessità economiche e altro.
Abbandonare, e poi raccontare in letteratura l’abbandono, non è però un topos letterario soltanto calabrese, è soprattutto una tendenza culturale europea presente in casi riportati dall’autore, da Il villaggio sommerso (1980) di Valentin Rasputin, su un borgo abbandonato e inondato (nella fictio Matëra) sulle rive del fiume Angara in Siberia, a La pioggia gialla (1993) di Julio Llamazares, sulla scomparsa di Ainielle sui Pirenei spagnoli, e ancora a La cripta d’inverno (2009) di Anne Michaels, sulla città canadese di Moulinette sommersa dalle acque del lago artificiale San Lorenzo.
La lettura di Quel che resta di Vito Teti figura alla fine l’immagine plastica di una voce proveniente da un mondo di sconfinata bellezza, un mondo sentimentale abnorme, grandioso e potente nella sua pienezza di vissuto. E questa voce a un certo punto ritorna, ritorna al lettore come un’eco il cui nome è forse il tema più esemplare, il significato primo e ultimo, più profondo del libro: la nostalgia. Il ritorno, il desiderio del ritorno, la malattia, il dolore di voler (dover) ritornare per placare, spesso per illudersi di placare il sentimento in chi un tempo è partito e in un altro tempo vuole ritornare. Illusione e disincanto, della nostalgia del ritornante e del ritornato appaiono verità addirittura più dolorose della stessa nostalgia.
Teti dunque legge la via nostalgica sotto il segno del fantasma: un uomo è nostalgico non di un luogo ma di un tempo. Ancora di più, la nostalgia stessa appare nostalgica, è cioè nostalgica di un tempo che si potrebbe definire come l’immagine centrale di un immaginario in ricostruzione. Ma a un siffatto tempo, a questa immagine – un’età d’infanzia si potrebbe scrivere, la picciolità avrebbe scritto Giuseppe Occhiato – non si ritornerà mai più. Tale appare la ragione sostanziale in grado di spiegare la nostalgia – nel suo compimento del ritorno – con il sentimento della sperdutezza. Chi ritorna nel luogo agognato si sperde perché fallisce l’incontro con il tempo-immagine, con le parole di un grande filosofo Gilles Deleuze, con l’immagine-tempo.
È un tempo della memoria, non della mutevole realtà che questa memoria sovverte, un tempo inafferrabile (il «nevermore» di Jean-Bertrand Pontalis citato da Teti) il cui nome è dunque ancora e sempre lo stesso nome, la nostalgia (di un mondo di vita) irrestituibile. Nome di una nostalgia poi trasfigurata e ripensata nel quadro di un modello culturale dialettico tra il passato (contadino), con il suo reale mondo di vita, e l’irrealtà del presente (non a caso, Teti fa il nome di Pasolini), in cui l’idea stessa di vivere non è più l’esito di una fatica, di una costruzione, finanche di una scommessa sognante e passionale, ma il prodotto finito per così dire di un vissuto venuto dall’esterno, venuto a espropriare qualunque forma di individualità, di soggettività creatrice. Il mondo di vita, dunque, è l’oggetto di un pensiero nostalgico, la fonte stessa del rimpianto, anche se Teti non manca di osservare che questo mondo di vita non può essere scorportato dal cosiddetto «corpo-paese», la terra dell’età del pane in cui il resto, se si vuole, era la negazione stessa della vita: la fame, la miseria, la sporcizia, il degrado. Un sentimento paradossale, l’immagine-tempo che scatena la nostalgia, anche se è la nostalgia ambigua del si stava meglio quando si stava peggio. D’altra parte, per cogliere un segno di tale riflesso nella letteratura europea contemporanea, si potrebbe menzionare L’analfabeta di Ágota Kristóf, in cui l’esiliata in Svizzera ripensa al proprio paese, l’Ungheria, con lo stesso sentimento intuito da Vito Teti nelle pagine più belle di Quel che resta: «Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice».
Chi abbandona il paese, partendo abbandona nel paese anche la propria «ombra». Il qui del paese e l’altrove diventano allora luoghi di due identità il cui sdoppiamento testimonia l’origine unitaria, un’ontologia intera divisa per così dire dal destino. L’ombra pertanto è un’immagine dell’uomo-nel-paese, l’immagine di una totalità, il soggetto e la propria terra, una totalità divisibile e insieme indivisibile. E come l’ombra, fantasma di chi è partito per un altro mondo, non vi è paese da cui sia assente un resto. Esso non testimonia più – nella sua realtà culturale e umana – un simbolo di fine, anzi quel che resta è la sola realtà a poter restare. E se resta è per testimoniare che se qualcosa è stato ed è durato nonostante la violenza del destino e l’incuria dell’uomo, allora potrà nuovamente ritornare a essere.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
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Neil Novello, (Oslo, 1969) vive a Bologna. In poesia scrive Stellario boreale (2017), Falò de’ rosarî (2011) e Rosa meridiana (2004). È autore di un romanzo Nostàlghia (2013). In ambito saggistico, è autore di Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma (2017), Jean Genet. Epopea di bassavita (2012), Pier Paolo Pasolini (2007), ed è curatore di Giorgio Cesarano. I giorni del dissenso, La notte delle barricate (2018), Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo (2017), Tràgos. Pensiero e poesia nel tragico (2014), Apocalisse. Modernità e fine del mondo (2007), Eversori e martiri. Attraverso Artaud, Conrad, Genet, Nizan (2004). Collabora a diverse riviste: «Il Ponte», «Rivista di Studi Italiani», «L’Immaginazione», «Il lettore di provincia».
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