Nel tempo delle migrazioni globali ampio e di evidente attualità è il dibattito pubblico intorno al multiculturalismo, al pluralismo giuridico, alle questioni etiche e politiche legate alla laicità dello Stato, al rapporto tra religione e Stato, al rispetto delle minoranze e delle identità. Qualora si volesse indicare, tra le novità editoriali di questo ultimo scorcio del 2018, un testo capace di fare il punto su questi temi e suscitare un certo interesse nel mondo accademico e politico italiano, non peregrina sarebbe la scelta di segnalare Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli 2018), ultimo lavoro di Cinzia Sciuto, redattrice di Micromega, rivista di cultura tra le maggiori nel panorama italiano.
L’autrice muove dall’osservazione che le società odierne occidentali hanno al loro interno il problema di come far convivere diverse culture, etnie, religioni che, in un relativamente breve lasso di tempo, stanno sottoponendo le istituzioni a tutta una serie di dilemmi di difficile soluzione. La Sciuto ritiene di aver trovato una via sicura e proficua per uscire dall’empasse: ritornare (grazie anche ad un’impostazione che molto deve all’Illuminismo e a Kant) a dare la priorità all’individuo, considerato nella sua irripetibilità e nella sua irriducibilità a qualsiasi comunità-entità che ne annulli le peculiarità. Occorre quindi uscire da impostazioni legate al comunitarismo e al multiculturalismo in quanto implicano indirettamente che le istituzioni religiose, più che gli individui stessi, coprano lo spazio pubblico, con creazione di vere e proprie comunità parallele in contrasto anche forte con lo Stato.
In difesa dell’individuo, contro l’approccio comunitarista-multiculturale, è essenziale promuovere uno Stato radicalmente laico, tesi che Sciuto enuncia già nelle primissime pagine del testo:
«l’atteggiamento più proficuo che uno Stato democratico e liberale possa assumere di fronte a questa profonda disomogeneità è quello di una radicale laicità. (…) è proprio in società complesse che a nostro parere è indispensabile individuare un nucleo, magari piccolo ma molto solido, di valori sostantivi di riferimento, un nucleo al cui centro (…) non possono che esserci i diritti umani fondamentali e la laicità».
Tenendo sempre presente l’obiettivo dell’autrice, si può quindi tentare di seguire il suo discorso definendone i caratteri principali e il percorso delle argomentazione adottate.
Laicità e diritti umani: la battaglia etica dello Stato
Il testo di Cinzia Sciuto ha come sicuro pregio quello di essere ben chiaro sin dall’introduzione relativamente agli obiettivi, al campo di ricerca che si è scelto (nella fattispecie, il continente europeo), alla tesi sostenuta, nonché alle posizioni da criticare in nome di una ripresa del cosmopolitismo.
Per giungere ad una critica efficace del multiculturalismo e del comunitarismo, la studiosa siciliana parte da una riflessione intorno allo statuto della laicità. Il termine, in effetti, si presta a una confusione di significato quanto mai prevedibile, resa manifesta nella nota, quanto scorretta, dicotomia tra laicità e religione. Dicotomia che, difatti, dovrebbe invece essere superata a favore di un nuovo concetto di laicità che, lungi dall’opporsi alla religione, ne diviene invece condizione favorevole al suo progredire:
«La laicità è dunque qui intesa come una sorta di condizione trascendentale della democrazia, non come polo di una simmetria, ma come requisito prepolitico della convivenza civile in una società disomogenea»
Da questa prospettiva, la laicità si rivela essenziale per garantire, nello Stato, un’apertura il più ampia possibile alle diverse fedi, con l’unica limitazione dell’impossibilità, da parte di quest’ultime di entrare nella sfera pubblica. Lo Stato, tuttavia, non può semplicemente attuare una pars destruens a livello etico-normativo nei confronti delle religioni: ecco perché, aggiunge la Sciuto, è necessario che lo Stato si imponga anche come primo e fermo promotore di pochi, ma granitici valori etici:
«In questo progetto di laicità c’è dunque un forte contenuto etico, normativo. Un contenuto “minimo” ma sostanziale, che traccia la cornice al cui interno i soggetti della società civile – e tra loro le religioni – possono liberamente muoversi (…). Lo Stato laico assume quindi il ruolo di garante dell’autonomia dei propri cittadini. Attenzione: non di arbitro tra le fedi, tra le ‘comunità ».
Corollario di questa forte presa di posizione è il deciso attacco alla tradizione che, inutile negarlo, è intrinsecamente considerata come qualcosa di negativo e obsoleto, vero ostacolo al potere dello Stato:
«La cornice della laicità è l’unica che consenta infatti ai singoli di emanciparsi dalla propria stessa tradizione, dalla propria stessa comunità di appartenenza, fino alla più piccola di esse che è la famiglia».
Una tale visione della laicità e del ruolo dello Stato, nei suoi contrasti con la tradizione, merita tuttavia di essere approfondita criticamente, non prima però di aver tracciato le altre idee-chiave del discorso di Cinzia Sciuto.
Le religioni nello spazio pubblico: il caso dell’Islam
Nel secondo e nel terzo capitolo, la redattrice di Micromega si propone di incentrare il discorso sopra le religioni (con riferimento particolare, nel terzo capitolo, all’Islam europeo) analizzandone il loro ruolo pubblico, senza alcuna pretesa di indicare una ‘vera’ religione né tantomeno di addentrarsi nelle complesse diatribe intorno alle differenti interpretazioni dei testi sacri. È un approccio che conduce alla riconsiderazione della religione nello spazio pubblico, o meglio, del fatto se la religione debba avere una qualche sorta di riconoscimento particolare da parte dello Stato o meno. Su questo tema sembra perentoria la proposta della Sciuto:
«Il punto dunque non è escludere le religioni dallo spazio pubblico, ma non concedere loro una posizione privilegiata, un valore aggiunto. Ciascun individuo informa la propria vita ai valori in cui crede, e per molti credenti la propria fede rappresenta il faro del proprio agire quotidiano (…). Ma lo Stato in quanto tale non può privilegiare la religione – né una in particolare, né alcune, né tutte le religioni in quanto tali – rispetto agli altri sistemi di valori o credenze».
Se una critica allo Stato confessionale (ovvero lo Stato che riconosce la preponderanza di un’unica religione) sembra poter essere accettata totalmente anche dai credenti in nome della laicità, più problematica risulta la convinzione che, proprio per non favorire nessuna religione, queste stesse si affrontino allo stesso modo, senza riconoscerne le peculiarità. Anche su questo tema, sarà opportuno ritornare in seguito, riflettendo se questo agire nell’indifferenza delle differenze tra religioni sia o meno un agire opportuno e corretto.
A seguire nel testo, quasi come esempio di come uno Stato laico dovrebbe agire nei confronti delle problematiche religiose, Chiara Sciuto sceglie di affrontare (con coraggio) un tema delicato e controverso come quello del velo, questione in cui spesso gli studiosi, anche di notevole caratura, sembrano in difficoltà e costretti ad ammettere soluzioni più per politically correct che per la forza decisiva delle loro argomentazioni. In effetti, osserva la Sciuto, se la questione è intricata e oggetto di facile fraintendimento, non per questo bisogna non parlarne, per evitare di rendere il velo un tabù religioso esente da critiche agitando l’accusa di ʽislamofobia᾽ per coloro che tentano di aprire un dibattito sul tema. Su questo stesso tema, merita allora di essere riletta l’interessante posizione della redattrice di Micromega:
«Di fronte al caso specifico di una donna per la quale il velo può essere, nei fatti e nelle condizioni in cui si trova a vivere, un modo per uscire dalle mura domestiche e affacciarsi nello spazio pubblico, è chiaro che questa donna va sostenuta e non ulteriormente vessata con divieti, ma allo stesso tempo è indispensabile portare avanti la battaglia culturale e politica contro la cultura della modestia e dei suoi simboli».
Da una tale riflessione si potrebbe quindi cominciare a rileggere la problematica in maniera meno schierata e senza paura di essere tacciati di ʽislamofobia᾽ qualora si avanzino proposte differenti da quelle comunemente accettate dal mainstream culturale. Per quanto, si può essere d’accordo o meno, «il modo di occupare lo spazio pubblico delle donne che portano il velo sia – più o meno intenzionalmente – funzionale alla narrazione islamista», non deve sfuggire che orizzonte comune deve essere comunque la libertà dell’individuo, nella fattispecie la libertà delle donne che decidono di portare il velo. Così come si è pronti a sostenere le donne che decidono di non indossarlo così vanno difese coloro che, in maniera sincera e libera da costrizioni, decidono di velarsi. È una scelta che ha una sola protagonista: la donna con le sue idee. Tutto il resto è intromissione, coercizione che andrebbero decisamente evitate considerando le già tante problematiche che il mondo femminile deve affrontare ogni giorno.
Il concetto di identità e l’inganno del multiculturalismo
È difficile poter incontrare nel dibattito contemporaneo un termine più abusato di quello di “identità”. Brandito come clava da una certa politica conservatrice, il concetto viene spesso sfoderato come arma di difesa contro culture e religioni diverse, ree di compromettere ed impoverire le nostre radici, la nostra, per così dire, essenza. Per ovviare a questo impoverimento del concetto, Sciuto si propone di riflettere su un paradigma diverso di identità, radicalmente differente rispetto a quello più comunemente usato:
«Il paradigma dell’autonomia (…) ha come punto di partenza l’individuo: è la singola persona che, in autonomia appunto, “sceglie” fra le diverse opzioni che il contesto sociale in cui vive le offre quelle che più le si addicono, componendo il proprio personale, unico e irripetibile patchwork, un percorso in cui è libera e autonoma».
La differenza tra questo paradigma individuale di identità e quello a cui normalmente si fa riferimento è presto detto,
«Mentre il primo paradigma è multidirezionale, anarchico, libertario, accogliente, complesso, cangiante, plastico, predispone a continui aggiornamenti per far in qualche modo convivere le diverse componenti della propria identità e prevede che la ʽsovranità᾽ sia in capo al singolo individuo che la ‘sceglie’, il secondo produce compartimenti stagni, impone un’identità dall’alto (o dall’altro), è monodirezionale, autoritario, escludente (…) rigido in quanto crea incompatibilità anziché ricercare relazioni».
Il concetto di identità individuale si configura quindi come estremamente prezioso poiché rispetta la libertà dell’individuo di creare se stesso, di non essere riconosciuto per caratteri (cultura, religione etc.) in cui la persona si trova, per usare un’espressione heideggeriana, “gettata”. Significa rispettare l’individuo non per la cultura o la religione che esprime, ma in quanto essere umano, componente dell’umanità tutta.
Con questo bagaglio concettuale, Sciuto affronta la sfida del multiculturalismo nell’ultimo capitolo del suo testo. Il multiculturalismo – argomenta la studiosa – nasconde, tra le immagini ingenue di una (auspicabile) armonia tra culture, problemi che potrebbero addirittura pregiudicare la tenuta democratica e laica dello Stato. Come scrive la stessa autrice,
«Il problema sorge quando dalla constatazione di una società multietnica e multiculturale (…) si fa derivare il principio che i membri della comunità politica vadano trattati diversamente a seconda della loro appartenenza alle diverse ‘comunità’ etnico-cultural-religiose (…). Quando, cioè, dalla constatazione di una pluralità di usi, costumi, tradizioni, lingue, fedi si fa derivare una pluralità di diritti che, inevitabilmente, conduce a una pluralità di sistemi legali».
Il multiculturalismo pretende di poter discutere e ragionare intorno a culture intese come sistemi ben definiti, implicando, in questo modo, un concetto di identità collettivo, che impedisce all’individuo di emergere come possessore di diritti, riconoscendolo, invece, come parte di un’entità più grande, la comunità, in cui ritroverebbe il proprio senso.
Una tale idea di multiculturalismo sembra tuttavia ricondurre a una sorta di beneplacito all’esistenza di comunità parallele all’interno del medesimo spazio. Oltre agli evidenti problemi sociali cui ciò potrebbe condurre, occorre analizzare se questo tipo di approccio sia in realtà da evitare da parte dello Stato laico e attento ai diritti umani. Da queste riflessioni, nasce quindi una delle domande più interessanti che la Sciuto propone nel suo testo:
«La domanda cruciale è: le persone vanno viste innanzitutto come appartenenti ed esponenti della comunità e della cultura in cui è capitato loro di nascere o come cittadini autonomi in grado di avere con la propria stessa cultura un rapporto dialettico e maturo? (…) Il multiculturalismo – ossia trattare i diversi gruppi come comunità separate invece che includere i singoli individui come soggetti pienamente titolari di diritti – crea quella segmentazione della società che a parole dice di scongiurare».
I diritti devono dunque rimanere diritti dell’individuo, e non di gruppo, in quanto ogni difesa di comunità diventa inevitabilmente difesa di un mondo culturale immutabile e statico, spesso nemico di ogni voce critica che possa ergersi fuori e (specialmente) dentro se stesso. Non è qui in questione l’opportunità di aggregazione tra individui per difendere le proprie convinzioni, ma è ferma convinzione di Cinzia Sciuto che «il rispetto è dovuto alle persone, non alle idee che quelle persone sostengono, né alle tradizioni che quelle persone perpetuano, né ai modelli che quelle persone incarnano». Lo Stato laico non può ammettere al suo interno di discriminare i suoi cittadini basandosi sulla loro cultura e religione, arretrando così in quello spazio pubblico che deve rimanere invece sotto l’egida dello Stato e del suo contenuto etico-normativo; in nome di questa convinzione, non sono pertanto ammessi differenti ordinamenti giuridici né tantomeno accordi Stato-comunità religiose, in quanto portatori, direttamente, di una concezione di identità collettiva e non individuale.
Oltre il manifesto: alcuni elementi di critica
Il Manifesto della Sciuto ha sicuramente il pregio di essere un testo capace di aprire, da un punto di vista differente, un nuovo fronte nella riflessione sul multiculturalismo, sul rapporto tra Stato e religione e sui diritti umani. Alcune affermazioni si prestano tuttavia a delle critiche (raccolte qui in due punti) che avanziamo nel tentativo di offrire ulteriore elementi di riflessione al lettore del testo di Cinzia Sciuto.
Stato e religione, laicità e secolarizzazione
Nessuna religione può pretendere di avere un riconoscimento peculiare da parte dello Stato, né può pretendere di esserne l’interlocutore. La religione, secondo la visione della Sciuto, deve rimanere necessariamente all’interno della sfera privata, soggetta comunque al vigile controllo dello Stato per quanto riguarda il rispetto della persona e dei diritti umani. Emerge quindi una convinzione radicale che tra religione e Stato non vi possano essere punti in comune, presupponendo con ciò che queste sfere siano nettamente contraddistinte. La Sciuto prende quindi in considerazione il caso islamico, cercando così di avvallare questa ipotesi di fondo:
«Altro equivoco da scongiurare è quello che vede la laicità come un valore tipicamente occidentale (…). La questione del rapporto tra politica e religione (…) non è una prerogativa del mondo occidentale, ma una sorta di topos universale della storia dell’umanità. È stata una questione che, per esempio, ha interessato la società musulmana fin dalla morte di Maometto».
Tale affermazione potrebbe facilmente essere messa in discussione non solo dal punto di vista storico (con Maometto si apre l’età dell’oro musulmana, quella dei quattro Califfi ben guidati, in cui potere politico e religioso coincidevano), ma anche dal punto di vista teoretico: l’Islam è religione che non conosce distinzione netta tra potere politico e religioso (din wa dawla), tanto che il sistema islamico, nizam, occupa in maniera globale tutta l’esistenza del fedele. Categorie come etnia, cultura, nazione, Stato, vengono dalla religione islamica messe in secondo piano rispetto all’idea di una umma universale, comunità di perfetti sperimentata già nell’età dell’oro a cui prima si accennava. Non si vuole con questa critica semplicemente rilevare un probabile errore interpretativo della religione islamica, ma l’idea che, poiché le religioni hanno tra loro pari valore per lo Stato laico, non sia necessario indagarne le peculiarità.
Date queste premesse, apparirà meno goffo il tentativo dei governi italiani di stabilire delle intese con le singole religioni. Le intese saranno anche una “toppa”, secondo la Sciuto, ma togliere la toppa significa in questo caso impedire a nuove religioni e culture di entrare nel tessuto italiano, in maniera controllata, riconoscendone le peculiarità e creando così le condizioni per un campo di incontro che possa portare ad un “multiculturalismo sano”.
Sciuto insiste radicalmente sulla necessità di criticare le culture e di non fare di queste dei feticci da rispettare e sacralizzare. È un affermazione in sé sicuramente lodevole e condivisibile, ma nei limiti che questa non sfoci in un relativismo assoluto che potrebbe invece paradossalmente portare come frutto amaro un richiudersi nella propria cultura, nelle proprie radici, spesso prologo all’adesione ai fondamentalismi religiosi.
La laicità sostenuta dalla Sciuto cerca quindi di impedire alle religioni di entrare nello spazio pubblico, specialmente in ambienti “sensibili” come quello scolastico. Secondo l’autrice di Non c’è fede che tenga le società occidentali sono poste di fronte ad una scelta netta:
«o si è un Paese confessionale con tutto il ‘diritto’ di imporre la religione di Stato nelle scuole pubbliche, o si è un Paese laico che (…) tiene le religioni fuori dalla scuola pubblica, tertium non datur».
Il bivio imposto dalla Sciuto è, probabilmente, frutto della sua interpretazione di una laicità che impedisce alla religione di trovare una sfera pubblica (e, ci sentiamo di aggiungere, di una visione della religione non certo positiva). Una tale impostazione del problema potrebbe essere anche corretta dal punto di vista normativo e di garanzia dei diritti, ma la stessa ottica laica non sembra poter aver la meglio nel mondo odierno dove si assiste ad un prepotente ritorno del religioso.
A questa laicità che pretende, forse in maniera troppo ingenua, di impedire al religioso di entrare nello spazio politico, si può opporre una visione laica differente, una ‘laicità per addizione’, secondo un’espressione coniata da Paolo Naso; una laicità che
«non esclude, come nel contesto francese, le differenze identitarie dallo spazio pubblico, anzi fa di quest’ultimo quel luogo affollato di presenze culturali e religiose di vario tipo che interagiscono tra loro, si incontrano e anche si scontrano, arricchendo il dibattito della società civile» (Bein Ricco: 2018, 67).
Questo diverso tipo di approccio sembra poter garantire il rispetto per gli individui nonché essere occasione di confronto tra culture differenti, approccio probabilmente anche più utile alla formazione di cittadini aperti al dialogo e al relativismo delle idee. Si potrebbe quindi concludere che tertium datur: ovvero una laicità conscia del suo valore all’interno dello Stato, ma rispettosa delle culture e degli individui che in essa si riconoscono, aperta ad un vero ‘pluralismo’ in cui le differenze divengono occasione di arricchimento personale in termini umani e culturali.