Qualcosa si muove
Forse è un segno positivo che ci siano ‘su piazza’ tante proposte di ‘manifesto’ che suggeriscono progetti praticabili per l’azione consapevole, per il farsi della cittadinanza attiva che ‘abita’ la società civile.
Trascuro qui i manifesti di più lunga traiettoria, e in specie quelli lanciati dalla Società dei territorialisti [1], quello di fondazione, e poi via via i progetti di convegni che sono concepiti come approfondimenti del Manifesto: la democrazia dei luoghi, riabitare la montagna etc…Prendo qui in considerazione solo quelli che vengono da gruppi operativi che lanciano idee, che hanno una prospettiva specifica o di settore o di territorio. È quel che accomuna i manifesti che qui abbiamo pubblicato, quello sul ‘turismo dolce’, quello sul ‘welcome’ e i piccoli comuni, quello sulle piccole scuole. Un po’ diversa è la proposta di manifesto di Vito Teti perché viene da una militanza personale sia di antropologo che di cittadino, ma anche da un progetto di rete che nasce con la Rete del ritorno e coinvolge direttamente anche la Rete dei piccoli paesi che, in queste pagine de Il centro in periferia, cerchiamo di raccontare o di rappresentare. Di recente la rete dei piccoli paesi si è arricchita anche di una pagina facebook che si chiama Restare paese e che è una sorta di autoracconto dialogato di chi vuole segnalare le proprie attività finalizzate al riabitare i luoghi marginali.
Di sicuro questi manifesti indicano un ‘brulicare’ di iniziative, che non vanno necessariamente in direzioni comuni, ma che hanno visibili sintonie. Anche i testi che abbiamo raccolto in questa sezione del n.35 di Dialoghi Mediterranei, e che non sono ‘manifesti’, quello di Luca Bertinotti e di Settimio Adriani-Alessandra Broccolini, forniscono scenari del fare e bilanci di esperienze operative [2].
Quindi qualcosa si muove. Ciò che più sorprende positivamente è vedere in questi manifesti i nodi che rovesciano il negativo in positivo, perché sovente illuminano una traiettoria in cui appaiono tracce evidenti di un futuro possibile e collettivo, non solo e non tanto dolori e nostalgie o sogni minoritari (che pure abbondano nel nostro universo). Così per il turismo dolce che rovescia l’idea della lentezza indicata come negativa dalla modernità (tutto deve muoversi in fretta per il moderno-progressista: strade, spedizioni, merci, pensieri, relazioni umane) e la mostra come produttiva, infatti il turismo dolce:
«Riguarda le attività produttive e culturali, dalla caseificazione di pregio alle coltivazioni biologiche, dalla divulgazione naturalistica alla promozione escursionistica. Il turismo dolce è capace di adattarsi alla domanda modulando l’offerta in base al luogo, al tempo e alla congiuntura climatica, coprendo anche le mezze stagioni. È un turismo morbido che non danneggia l’ambiente ma lo valorizza, non urla ma dialoga, e cresce lentamente con la possibilità di fermarsi, correggere e ripartire su nuovi sentieri».
Una idea di fermento, di adattamento, anche di seconda cittadinanza o seconda patria, quasi di incontro ‘fecondatore’ tra turisti ‘dolci’ e luoghi potenzialmente produttivi. In un certo senso Ernesto De Martino, quando parlava di ‘patria culturale’ e Alberto Cirese quando parlava per sé di molteplici patrie, in qualche modo si sentivano multilocali e come tali erano potenzialmente ‘turisti dolci’. Una idea che possiamo guardare come modello non solo teorico ma anzi già largamente praticato nelle esperienze della montagna che non sono certo il mainstream, ma che hanno ormai un certo successo.
Così come il Manifesto dei piccoli comuni del Welcome mostra che le leggi sulla accoglienza, che spesso ci sembrano negative, mettendo insieme i fondi della Europa, dello Stato e delle Regioni, col consenso attivo dei Comuni, se applicate adeguatamente, possono invece costituire una risorsa che connette migranti e paesi accoglienti in un possibile successo che ridà vita ai paesi e dà paesi a chi cerca una nuova vita. Anche qui un incontro fecondatore (forse da aggiornare dopo la nuova legge e la perdita di ruolo degli SPRAR) che può dare vita a nuove realtà abitative la cui idea di riferimento resta quella di Riace (vedi il Centro in periferia nel n. 34 di Dialoghi Mediterranei).
«Grazie agli attuali strumenti Europei e Italiani contro l’indigenza e per l’inclusione sociale (Reddito di Inclusione, PON inclusione, Strategia Nazionale per le Aree Interne) è concretamente possibile perseguire una politica di welfare locale ad “esclusione zero”;
grazie agli attuali strumenti normativi regionali in materia di riabilitazione del disagio psichiatrico, delle disabilità fisiche ed intellettive, del recupero delle dipendenze patologiche, degli anziani fragili e dell’infanzia a rischio (Progetti Terapeutici Riabilitativi Individualizzati-PTRI con Budget di Salute) è possibile attuare un welfare comunale capace di prendersi carico delle persone fragili del proprio territorio, con percorsi capaci di incidere su Habitat, Formazione/Lavoro, Socialità/Affettività;
grazie al fondo straordinario delle politiche di Asilo, gestito da Ministero dell’Interno ed Anci, è possibile attivare in ogni Comune una presa in carico personalizzata dei migranti, attraverso l’adesione al Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) e bloccare le distorsioni dell’attuale sistema di accoglienza basato sugli appalti delle prefetture a privati interessati al business dell’accoglienza; grazie alle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, le risorse sufficienti a soddisfare il fabbisogno energetico di un piccolo comune possono essere trovate nel corretto utilizzo di beni comuni quale il sole, il vento, la geotermia e l’acqua; le complessità sociali che incidono sulla qualità di vita dei nostri territori (disgregazione delle famiglie, bullismo, dipendenze patologiche, digital divide, incuria dei beni comuni, difficoltà a contemperare le esigenze occupazionali con le esigenze di tutela ambientale, depauperamento e desertificazione degli ex distretti industriali, difficoltà a valorizzare il genius loci) richiedono una cura dei luoghi e delle relazioni sociali significative che un welfare comunale può promuovere molto meglio di attività centralizzate e lontane dal territorio» [3].
Anche qui sembra effettuarsi un rovesciamento, da una serie di leggi marginali sulla marginalità emerge una sorta di ‘centro’ di vita locale, la ricostruzione di una complessità vitale. Ricorda quel capovolgimento che trasformò gli scarti (la ‘spazzatura’ in risorsa) in possibilità vitali. Ricorda anche un aneddoto alle origini dell’antropologia: il racconto delle cose raccolte da Charles Darwin nel suo viaggio transoceanico sulla nave Beagle, che sembravano al capitano della nave ‘spazzatura’, e che erano invece le basi di una nuova scienza e i documenti di una visione nuova della storia naturale.
Lo stesso effetto lo fa il Manifesto delle piccole scuole (vedi intervento di Fabiola Scagnetti) che trasforma tratti negativi della scolarità in formazione avanzata, chance migliore, adeguatezza alle nuove tecnologie. È quasi affascinante, per chi si sia occupato di scuola, vedere ribaltato sia il valore delle pluriclassi, sia quello della distanza, sia quello della arretratezza. Nella esperienza della rete delle piccole scuole il concetto guida è che ‘fare scuola’, anche dove ci sono pochi bambini, aiuta la comunità a ‘restare paese’, e quindi a trasmettere memoria ed esperienza locale, ad approfittare della compresenze scolastiche di bambini di età diversa per un apprendimento duttile in cui anche i bambini più grandi fanno da guida (come nella Scuola di Barbiana, come nelle famiglie numerose del passato). Approfittare del ‘vuoto’ demografico è anche avere la libertà di poter andare fuori della scuola, socializzare di più il processo educativo, conoscere l’ambiente. Infine la distanza, il piccolo numero, l’articolazione delle età consentono di sperimentare l’uso della didattica a distanza e delle nuove tecnologie a scuola, cosa spesso difficile nella classi numerose e nei programmi affollati. Le piccole scuole stanno ai piccoli paesi, e alle comunità di accoglienza (che aumentano il numero degli scolari), come questi stanno a una visione diversa del futuro basata sul ‘ritorno’ al territorio delle ‘aree interne’ come centrale per la vita dell’Italia futura.
«Le piccole scuole sono quindi sedi privilegiate di sperimentazione didattica e di elaborazione di idee per migliorare gli ambienti di apprendimento, anche quelli delle scuole più grandi. L’esistenza delle piccole scuole non è una tematica di interesse solo per l’Italia. La Rete Europea per lo Sviluppo Rurale (ENRD) è nata come punto di riferimento per lo scambio di esperienze e per la costruzione di evidenze che conducano a dei miglioramenti nell’implementazione delle politiche di sviluppo per le piccole scuole. Le aree periferiche, e con esse le scuole che vi sono collocate, devono essere considerate un’assoluta priorità per il Paese, da tutelare, valorizzare e far crescere, con uno sforzo congiunto di tutte le istituzioni…La presenza della scuola in queste aree rientra a pieno titolo tra le scelte politiche, ma costituisce anche una questione di estremo interesse per la ricerca didattica, tanto che l’INDIRE da alcuni anni investe parecchie energie sul tema. Un percorso virtuoso che trova la sua origine nella ricerca educativa fatta sul campo, che impegna Università italiane e internazionali, ricercatori e docenti universitari, insegnanti, dirigenti scolastici, amministratori locali, esponenti politici »[4].
L’intervento-manifesto di Vito Teti ha un carattere più generale, meno di settore, chiede un più ampio progetto e lo offre soprattutto a coloro che ne potrebbero essere protagonisti. I potenziali ‘ritornanti’. Cerca di dare respiro comune e ampio al mondo dei piccoli paesi enunciando da un lato la consapevolezza che i paesi non potranno mai più tornare ad essere quello che furono, e che riabitare richiede immaginazione, creazione, innovazione anche a partire dall’ascolto delle memorie e dei saperi che il territorio quasi suggerisce e comunque incorpora, dall’altro la consapevolezza delle difficoltà del ritorno. Propone che tutte le articolazioni della società civile costruite nel tempo dopo gli anni ’60 si rifunzionalizzino allo scopo del ritorno, della trasmissione, del fare cultura, e al centro di questi presidi del riabitare vengono indicati i musei.
«In una situazione di lento abbandono dei paesi, un museo può diventare (laddove esiste o è previsto) un punto di aggregazione della comunità. Naturalmente, parlando di piccoli paesi (spesso spopolati) l’organizzazione, la filosofia, le finalità del museo non possono che essere diverse da quelli dei grandi musei urbani (musei d’arte, pittura ecc.). Pur essendo possibile l’esposizione di opere d’arte “minori” (pittura, scultura ecc.) che spesso hanno una rilevanza non solo locale, penso soprattutto a musei del territorio e del mondo popolare: oggetti della cultura materiale, attrezzi di lavoro, abitazioni e spazi aperti, resti e ruderi di chiese, palazzi, abitati. Un museo in piccoli centri in genere non può che raccontare il contesto in cui nasce, la storia delle tradizioni abitative, produttive, alimentari, culturali.
Restare non ha che fare con la conservazione, ma richiede la capacità di mettere in relazione passato e presente, di riscattare vie smarrite e abitabili, scartate dalla modernità, rendendole di nuovo vive e attuali. Quello che ieri era arretratezza oggi potrebbe non esserlo più. La montagna improduttiva e abbandonata oggi offre nuove risorse, nuove possibilità di vita. Per mille ragioni anche il restare – ed il restare di chi ha viaggiato o di chi torna – condivide la fatica, la tensione, la nostalgia dell’errare. Restare non significa soltanto contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere e affidare ad altri nomi, soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo. Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui ed ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio» [5].
Torniamo a un tema diffuso in tutti i testi, e lo riprendiamo da quello di F. Scagnetti:
«Scrive l’economista Fabrizio Barca: “l’indebolimento delle aree interne non è l’inevitabile frutto di cambiamenti sistemici irresistibili, ma deriva in gran misura da politiche errate: riforme istituzionali cieche-ai-luoghi; investimenti pubblici che hanno assecondato il mantra (infondato) di un’inevitabile concentrazione nelle metropoli benefica per tutti; e infine sussidi pubblici elargiti a pioggia nei territori impoveriti dalle prime due politiche, per sopirne le tensioni sociali”» [6].
Questa nozione di una programmazione ‘cieca-ai-luoghi’ è uno dei nodi forti del dibattito italiano, anche sulle TAV e sulle TAP, sui rischi sismici e idrogeologici. Ed è uno dei temi comuni a tutti i manifesti che presentiamo. Anche se lo è in modi diversi. Il Manifesto del ‘welcome’ ad esempio guarda soprattutto ai migranti, mentre negli altri questi non sono in primo piano. Il riabitare anzi è spesso pensato come un ritorno, magari dopo due generazioni, o anche solo dopo una esperienza di migrazione diretta. Ci sono piccoli paesi che propongono abitazioni a costi vicino allo zero, ma non aspirano ad avere richiedenti asilo bensì a incoraggiare investitori che siano pensionati europei, o anche giovani occidentali che cercano di innovare stile di vita e di lavoro, ma non ‘neri e africani’. Il caso di Riace resta in questo senso un modello e insieme una anomalia, benché il modello dei piccoli comuni del welfare vi faccia riferimento.
Qualcosa si muove, ma non sempre le cornici di riferimento sono comuni, anche se lo sono le intenzioni di andare contro la corrente che prevale e porta verso le città, le metropoli, la congestione delle storie e degli spazi. Per me la cornice generale più interessante resta quella elaborata da Alberto Magnaghi, anche in dialogo con Becattini, e dalla Società dei Territorialisti, una idea di nuova civilizzazione che abbia al centro le periferie e che sia mirata al ritorno, puntando alla coscienza di luogo come base del postfordismo, superando la coscienza di classe, per uno sviluppo basato sui saperi e i prodotti a vocazione locale e su una democrazia ‘comunale e federale’ [7].
Eccone un quadro di lavoro verso la coscienza di luogo:
«Un percorso verso una nuova civilizzazione che si concretizza in nuove forme di popolamento ecologico delle campagne e della montagna, nella ricostruzione dell’urbanità delle città e delle loro reti solidali nelle bioregioni urbane e, infine, nella costruzione di sistemi socioeconomici locali fondati sulla valorizzazione del patrimonio territoriale ed orientati verso l’autogoverno delle comunità locali. Il ritorno al territorio non significa il ritorno a delle forme di vita particolari o a dei sistemi socioeconomici e culturali del passato ma rinvia in generale al ritorno a delle condizioni di vita sostenibili e durevoli delle specie umane sulla terra. Rinvia a delle condizioni dell’ambiente umano che sono in via di degrado crescente, a causa dei vasti processi di deterritorializzazione, di esodo e di urbanizzazione del mondo, ad opera di agenti del capitale tecno finanziario mondiale» [8].
Credo che sia utile avere scenari di futuro possibile, anche se fortemente prospettici, che possano orientare le pratiche locali, integrando nel tempo teorie e esperienze in modo da ridurre progressivamente lo scarto tra utopia e realtà.
Una nuova occasione per discutere di questi temi è data da un volume di recente uscita dell’editore Donzelli, Riabitare l’Italia: Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, 31 testi per 41 autori, in 589 pagine, coordinate da Antonio De Rossi, docente di progettazione architettonica e urbane. Ne approfitteremo per rifletterci sulle pagine di Dialoghi Mediterranei.
Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019
Note
[1]http://www.societadeiterritorialisti.it/wp-content/uploads/2013/05/110221_manifesto.societ.territorialista.pdf
[2] Si veda ad esempio, nel primo, il bilancio della esperienza degli Elfi del Gran Burrone, e, nel secondo, il tema del riuso delle casette legate alla transumanza
[3] Angelo Moretti, Piccole Comunità, pietre di scandalo. Manifesto per una rete dei piccoli comuni del #welcome, vedi infra
[4] Fabiola Scagnetti, Piccole scuole, grandi comunità. Il Manifesto vedi infra
[5] Vito Teti, Riabitare i paesi. Un “Manifesto” per i borghi in abbandono e in via di spopolamento, vedi infra
[6] Lucatelli, S., Monaco, F. (cura), La voce dei sindaci delle aree interne, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018
[7] Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Torino, Bollati Boringhieri, 2010; Becattini Giacomo, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Roma, Donzelli, 2015
[8] Alberto Magnaghi, La conscience du lieu, Paris, Eterotopia, 2017 (trad. mia), quarta di copertina
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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