di Flavia Schiavo [*]
Il quartiere di Five Points, in Lower East Side, ‘casa’ di uomini e donne che arrivavano soprattutto dall’Europa, nella fase delle grandi migrazioni tra XIX e XX secolo, registrò tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento, un tasso di conflittualità interetnica e di criminalità elevatissimi, denunciato quest’ultimo, come tra i più alti che in ogni altra città del mondo: una vecchia fabbrica di birra, ad esempio, situata in Downtown, sovraffollata, abitata da circa un centinaio di workers che sarebbe più corretto definire homeless, fu luogo dove avvenne un omicidio per notte, per una quindicina di anni, sino alla demolizione, nel 1852.
Si trattava di una dinamica diffusa che accadeva per molte ragioni: l’enorme quantità di arrivi a New York; lo sviluppo frenetico della città governata da un rampante ‘Capitale” e contraddistinta da forti sperequazioni; la pressoché assoluta (tranne rarissimi casi) assenza di planning e di politiche di ‘riforma’ tese a mitigare il disagio sociale, la mancanza di un adeguato controllo esterno, la collusione dei bosses con la compagine politica corrotta, tant’è che alcuni bosses occupavano cariche istituzionali.
Per controllare l’incremento della criminalità, la City fondò un dipartimento di polizia sul modello londinese, nel 1845, con 1200 agenti in servizio in una fase in cui gang [1], bande di ladri, come i Forty Thieves fondati da Edward Coleman [2], operavano in un sistema di autogestione, e nell’assenza del governo che, nella sua parte crony, clientelare, rappresentata da Tammany Hall, intratteneva con le bande uno stretto rapporto. La polizia, solo nel 1862, arrestò 82 mila persone, il 10% della popolazione totale della città; lo stesso anno a Five Points furono uccisi cinque policemen. Durante la seconda metà dell’Ottocento la falange corrotta di Tammany Hall, sostenuta da immigrati irlandesi, si infiltrò nella polizia di New York, che venne dichiaratamente utilizzata come strumento politico. La polizia municipale, la Municipal Police, fu appunto istituita nel 1845, sostituita nel 1857 dalla polizia metropolitana, la Metropolitan Police. Venne così rimpiazzato il semplice sistema di sorveglianza notturna in vigore sin dal XVIII secolo e istituito dai coloni che fondarono New Amsterdam. Inizialmente i poliziotti portavano, sino al 1854, solo un distintivo. Furono impegnati a sedare, spesso con violenza, le rivolte urbane, come l’Astor Place Riot del 1849, il tumulto del 1863 contro la legge sulla coscrizione o i disordini di Tompkins Square del 1874.
La polizia era estremamente corrotta, nonostante alcuni tentativi, come quello portato avanti da Theodore Roosevelt, il futuro presidente, che nel 1895 tentò di risolvere l’importante questione, utilizzando la carica, che abbandonò dopo soli due anni, come un trampolino di lancio per la sua carriera politica che si era arenata. Gli atti di Roosevelt, oltre ad avere intenti moralizzatori, crearono scompiglio e generarono conflitti, come quando il futuro presidente decise di far chiudere i saloon la domenica, unico giorno in cui i workers avrebbero potuto riposarsi, socializzare e bere insieme. Ciò provocò una sommossa pubblica. Il sindaco riformista, William L. Strong, inizialmente gli aveva offerto un incarico come commissario per i servizi igienico-sanitari, rifiutato da Roosevelt che, invece, accettò l’offerta successiva: il posto nel Consiglio dei commissari di polizia.
Fu intrapresa, così, la crociata per ripulire New York City, promossa anche da un riformista attivo, il reverendo Charles Parkhurst, che aveva spinto per la creazione di una commissione che indagasse sulla corruzione; essa, nota come Commissione Lexow, venne presieduta dal senatore Clarence Lexow. Vi si tennero audizioni pubbliche che rivelarono l’elevatissimo livello di corruzione della polizia, testimoniato anche dai proprietari dei club e dalle stesse prostitute, le quali fornirono notizie dei pagamenti ai funzionari di polizia colpevoli di perpetrare l’illegalità piuttosto che rispettare la legalità. Pur essendo figlio di una classe elevata, Roosevelt, cercò di comprendere la natura della corruzione e le sue relazioni profonde con il contesto sociale, esplorando anche ‘la strada’ e, con Jacob Riis che aveva pubblicato cinque anni prima un importantissimo report sulla condizione di migranti, si avventurò di notte per le strade buie di Manhattan, a Five Points e a Lower East Side. Il «New York Times» pubblicò l’8 giugno 1895, un articolo dal titolo «Police Caught Napping», che faceva riferimento al ‘Presidente Roosevelt’ (egli era infatti era presidente del Consiglio di polizia) e spiegava come Roosevelt avesse trovato i poliziotti addormentati o impegnati a socializzare, mentre avrebbero dovuto pattugliare e sorvegliare.
In fase precedente permasero le due forze di polizia, quella municipale e quella metropolitana, composte da diversi gruppi etnici in antitesi tra loro. Inizialmente i componenti della Metropolitan Police furono aiutati da alcune gangs, come quella dei Bowery Boys [3] che intervennero contro la gang irlandese dei ‘Dead Rabbits’. I disordini popolari furono intensi, quando legati a interventi della polizia che cercava di far rispettare alcune leggi di riforma e di limitazione dell’uso dell’alcol, chiudendo pub e club. Gli immigrati tedeschi, il 12 luglio del 1849, si ribellarono a tali chiusure e, durante i disordini che seguirono, fu ucciso un fabbro. Mentre si varavano leggi per limitare la vendita e il consumo di alcolici, numerosi tra gli ufficiali e i dirigenti del dipartimento di polizia prendevano tangenti da aziende locali, facilitando la vendita di liquori illegali. I giornali, oltre a riportare la cronaca, spesso davano notizie relative alla brutalità della polizia, scrivendo che i membri delle forze dell’ordine picchiavano ubriachi o facinorosi, all’interno di alcuni pub localizzati soprattutto a Five Points, Lower East Side e Tenderloin.
Quest’ultimo era un quartiere a luci rosse a Manhattan, fiorente tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. In origine era localizzato tra 24th Street e la 42nd Street e tra la Fifth Avenue e la Seventh Avenue, in una fase in cui NYC era definita dal reverendo Thomas De Witt Talmage «la moderna Gomorra». Nel XIX secolo il quartiere a luci rosse era localizzato nell’attuale SoHo, chiamato all’epoca “Hells Hundred”. Mentre la città si espandeva verso nord, i quartieri dei teatri lungo la Broadway e la Bowery si spostarono anch’essi a nord, insieme alla attività legittime e illegittime connesse allo spettacolo, pur esistendo ancora “Rialto” a Union Square.
Intorno al 1880 Tenderloin comprendeva nightclub, bordelli, casinò, sale da ballo. La clientela era trasversale, non solo workers, ma anche categorie abbienti che frequentavano bordelli gestiti da ‘imprenditori’ del settore. In uno dei casini prossimo a un quartiere residenziale sulla West 25th Street, alla vigilia di Natale i profitti venivano dati in beneficenza. Nel quartiere era altissimo il tasso di criminalità, tenuto, paradossalmente, sotto controllo attraverso la corruzione della polizia che riceveva cospicue tangenti.
I tentativi di ripulire e abolire il quartiere a luci rosse furono sempre deboli, le prostitute infatti cambiavano settore per poi reinsediarsi nell’area precedente. In questo modo si otteneva solo l’aumento delle tangenti di protezione agli sfruttatori e ai bosses. Tra essi “Clubber” Williams che, quando si ritirò dall’attività criminale, era milionario, dopo aver versato fiumi di dollari a Tammany Hall.
Il quartiere di Tenderloin era abitato da molti afroamericani che aspiravano a un salto di status verso la midclass. Ma ancor più durante quel periodo storico la polizia aveva atteggiamenti discriminanti verso i neri, scatenando, a volte, sommosse e disordini: alle vessazioni della polizia, i neri rispondevano efficacemente, e alle reprimende brutali delle forze dell’ordine corrispondevano azioni adeguatamente forti da parte della Black Community, sin quando i neri più abbienti iniziarono a trasferirsi a Harlem.
Tenderloin non era l’unico quartiere malfamato in tal senso, l’informalità della trasformazione urbana, in un certo senso, aveva un analogo nell’informalità dei comportamenti. Tale pluralismo, che faceva i conti con la cultura europea più retriva e moralista, generava a volte una ‘mixite’ degli spazi: vicino a St. Paul Church, ad esempio, proliferavano numerosi bordelli. NYC era, infatti, una sorta di paradiso libertino: durante la fase dell’indipendenza, nacquero moltissimi figli illegittimi. Nello stesso tempo alcune associazioni miravano al recupero, con intenti moralizzatori, di donne definite ‘perdute’. Una singolare coesistenza, più esplicita che nelle città europee, tra visioni bigotte e pratiche decisamente più tolleranti. Anche Five Points era denso di bordelli, sale da gioco, ring di boxe, saloon. Spesso gestiti da donne, questi luoghi manifestavano piuttosto che un’insolita indipendenza femminile, la proliferazione di figure di controllo, tra cui gli sfruttatori, come raccontato dal romanzo del 1848, di Ned Buntline, Mysteries and miseries of New York, sulla vita nella Bowery e negli slums.
L’alcolismo era di certo una delle questioni connesse al crimine: sin dalla fine del XVIII secolo città come Philadelphia avevano più di centocinquanta taverne autorizzate; a New York intorno al 1770 ve ne erano altrettanto. Ma le taverne, oltre ad essere giudicate luogo di deriva morale, erano ambiti dove si compiva una interazione sociale, non definibile come integrazione, ma come incontro tra persone provenienti da continenti diversi. L’ubriachezza, non passibile di accusa da parte dei magistrati, rappresentava uno dei comportamenti attribuiti allo stereotipo di alcuni tra i gruppi etnici su cui si esercitavano maggiori vessazioni razziali, come gli irlandesi, ma in realtà l’eccesso di consumo alcolico era diffuso tra l’intera compagine dei workers che bevevano soprattutto birra, compresa la forza lavoro impiegata nell’edilizia e nelle costruzioni navali. In fase iniziale i lavoratori facevano pause connesse all’iniziale flessibilità degli orari di lavoro. Durante il XVIII secolo, infatti, il lunedì non si lavorava.
La ‘cultura della taverna’ si opponeva alla autorità e alla disciplina che era, ovviamente, controbilanciata da modalità reattive da parte delle imprese che licenziavano per cattiva condotta chi facesse abuso di alcol. In alcuni casi ciò si traduceva nell’assunzione di donne e di cinesi, prima dell’espulsione di quest’ultima etnia con un Immigration Act del 1882: The Chinese Exclusion Act, una legge federale, siglata dal Presidente Chester A. Arthur il 6 maggio del 1882.
Anche nelle città europee si ponevano questioni analoghe, ma nel vecchio continente tali problemi facevano i conti con una struttura urbana storicizzata e ‘pesante’, con interventi urbanistici più precisi negli intenti e negli esiti funzionali, con un modello economico e di comportamento sociale più definito, con alcune spinte riformiste, con le Utopie e con una compagine reattiva, a livello dei lavoratori, maggiormente strutturata. In America, dove le città sorgevano rapidamente e su un territorio reputato ‘vuoto’, in assenza di regole troppo limitative, in cui le destinazioni funzionali non rispondevano a filosofie o teorie troppo vincolanti, i sindacati sorsero in fase successiva e la moltitudine, che viveva con maggiore difficoltà il coordinamento, gestiva gli altissimi livelli di disagio secondo un modello fortemente autogestito, e decisamente più flessibile. Da un lato ciò presupponeva una maggiore fragilità, dall’altro, però, apriva a correnti innovative più vivaci e rapide che instauravano modi imprevisti e ‘geniali’ risoluzioni in ambito urbano.
L’enorme quantità di migranti viveva in aree non troppo estese, distribuite in modo discontinuo, ma in fase iniziale, localizzate soprattutto tra l’ambito immediatamente a ridosso del waterfront di Brooklyn e alcune aree sud Manhattan (Lower East Side era tra queste). Tali esseri umani, servili alla gestione del Capitale, erano intercambiabili, unicamente considerati come forza lavoro. Se avessero potuto esprimere la propria espressione più anarchica, avrebbero nuociuto al ‘progetto implicito’ che New York City esperiva: diventare la capitale economica del XX secolo.
I lavoratori risiedevano in edifici fatiscenti (i tenements), in contesti con altissime densità abitative (Schiavo, 2016; 2017; 2018) e con pochi spazi pubblici: nel grande quartiere di Lower East Side, e in tutta la città, anche dopo il Piano del 1811, vi erano pochissimi spazi pubblici dove incontrarsi. Il Piano, che aveva tracciato a Manhattan una semplice maglia regolare, non aveva previsto luoghi pubblici o ‘servizi’. Non solo il Central Park nacque, a metà dell’Ottocento, per una spinta dal “basso” da parte di intellettuali e cittadini, ma molti altri, tra piazze e ‘giardini’ pubblici, luoghi di coesione sociale, sorsero per azione individuale o per spinte immobiliari, fulcri privi di quell’assetto monumentale che contraddistingueva le trasformazioni di città europee come Parigi o Vienna.
In questo spazio informale newyorchese, figlio dell’economia e di una contraddittoria relazione con la cultura europea, numerose etnie cercavano una reciproca prossimità e, sperimentando difficoltà di inter-comunicazione non solo per le differenze linguistiche ma anche per quelle religiose o legate al cibo, tendevano ad abitare in nuclei pressoché compatti. Polacchi, tedeschi, irlandesi, italiani, occupavano unità immobiliari ed edifici adiacenti per autoproteggersi, per fruire dell’aiuto dei compaesani, perché irretiti in dinamiche di controllo criminale (il governo dei bosses e la gestione del mercato del lavoro, fin dalle partenze dalle patrie d’origine), e perché era ‘necessario’, in quel contesto di sopravvivenza estrema, difendere la propria quotidiana esistenza, in termini a volte brutalmente appropriativi.
Tra il XIX e gli inizi del XX secolo New York City stava esplodendo: il territorio consolidato dei Five Bouroghs e il flusso migratorio che fece della città la Porta d’America, insieme alla distribuzione dei comparti produttivi e residenziali sorti al di fuori di uno strumento urbanistico rigido o prescrittivo, stavano configurando una metropoli estesa, caratterizzata da una struttura plastica. Pur essendo fluida, l’articolazione urbana era – occorre precisarlo meglio – dotata di confini e barriere interne: una disposizione mobile ed eterogenea in cui la segregazione non era la cifra primaria, ma dove comunque le differenti categorie dei workers si distribuivano in enclave specifiche come Five Points, che fungeva da cerniera impenetrabile tra l’area del distretto finanziario e la porzione più a nord di Manhattan. L’intera parte denominata Lower East Side, assumeva, proprio per l’insediamento progressivo dei tenements (localizzati, però, anche altrove), valori immobiliare minori, pur essendo a ridosso del Financial District e dunque confermava la propria identità: l’essere casa dei lavoratori malpagati.
La grande ondata migratoria iniziò intorno al 1820 ed ebbe un picco intorno al 1910. In quegli anni giunsero milioni di persone attratte dall’economia vivace, dal mercato del lavoro e spesso dalle testimonianze dei parenti già immigrati. I workers erano reclutati sovente dai bosses che governavano il mercato del lavoro, ottenendo enormi profitti e gestendo una grande massa di persone.
Il fenomeno delle migrazioni derivava da infinite concause: dai nodi irrisolti che i vari gruppi vivevano nelle rispettive patrie, dalla retorica e dal mito dello spazio libero, vergine e disponibile dell’America del nord, Confederazione che si stava differenziando, dando vita a un territorio eterogeneo morfologicamente e culturalmente, fatto di vaste praterie e di grandi città che diventavano sempre più dense e popolose. Alcune, come NYC stavano conformandosi senza particolari restrizioni, in base ai processi di colonizzazione che dalla metà del XVII secolo avevano visto l’arrivo di numerosi europei, insediatisi nell’estrema punta sud di Manhattan.
A New York City, alla fine XIX secolo, quando già la popolazione ammontava nel 1890 a 2.507.414 (popolazione complessiva); 1.441.216 (Manhattan); 838.547 (Brooklyn) coesistevano, quindi, aspetti di fittizia integrazione interetnica – fittizia perché la vicinanza era soprattutto tra gruppi omogenei – e di dichiarata segregazione. Lo spazio era fortemente conteso, estremamente problematico, e poneva le persone, in assenza di azioni e politiche di governo urbano orientate alla tutela delle categorie deboli, in diretta competizione e nella condizione di gestire in termini autonomi, individualistici, alcuni processi connessi al “diritto alla città”. Tale acquisizione dei ‘diritti’, il diritto alla cittadinanza, ai servizi, allo status sociale, da un lato presupponeva ipotetici percorsi di empowement, dall’altro catapultava i workers non solo nel proteiforme mercato del lavoro, ma li rendeva prede delle feroci dinamiche del real estate. Un doppio binario: da un lato la prigionia nel Capitale; dall’altro la consapevolezza, la reazione e la convinzione di essere in grado di cambiare la propria esistenza. Una triade per certi versi illusoria, ma fondativa del mitologema su cui si eresse l’America rampante del XX secolo. Tali ultimi aspetti reciprocamente collegati configuravano un presunto orizzonte difficile da vivere e da raggiungere, per la durissima routine cui i workers erano sottoposti a causa dell’assenza di interventi e di politiche compensative o tutelative, non meno che per il mercato del lavoro che voracemente e al servizio dello sviluppo divorava la prima risorsa necessaria, limitata, ma quantitativamente estesa: le persone impiegate per costruire città, edifici, strade, ferrovie, canali.
Un quadro complesso e mutevole che, cambiando nei modi ma non nella direzione, si alimentava non solo dei corpi ma dell’immaginario dei migranti, immaginario proiettivo, servile al potere economico del Capitale e parte sostanziale della retorica che, dalla Costituzione in avanti, aveva edificato una narrazione condivisa, l’unica condivisa, in cui protagonista era l’individuo il cui obbligo, la cui prima ragione teleologica, era la ricerca della ‘felicità’. Cos’era per un americano la Felicità? Erano i soldi? La ricchezza? Il benessere? La libertà? L’inclusione? Il potere? La tolleranza? Cos’era quel macro-concetto che da solo meriterebbe un trattato per il suo valore emozionale, ‘filosofico’ ed etico e per l’impatto che ebbe sulla forma sociale nel suo insieme?
Il mercato immobiliare tendeva a differenziare i luoghi: pur in modo fluido, quelli più significativi assumevano un valore di centralità, concetto che a NYC diviene più chiaro se esplorato in termini comparativi con le città europee: il Piano ottocentesco in Europa, di matrice tardo settecentesca o animato dalle idee nate durante la Rivoluzione industriale, ridisegnava, infatti, le città, coniugando due elementi cardine, l’omogeneità e la differenziazione delle funzioni e delle categorie sociali cui le funzioni stesse erano destinate. Il centro, pur non essendo unico, era riconoscibile ed era costituito da un teatro, un boulevard, da un asse portante progettato, da un monumento simbolico-rivelativo, da oggetti fisici rappresentativi del potere politico e religioso, da un sistema di elementi in sequenza, o persino da alcune grandi dimore private. Tale articolazione dei “centri” ottocenteschi, possedeva oltre che una indiscussa visibilità paesaggistica, una stabilità che organizzava l’intera città borghese, sia nella struttura fisica, sia riguardo alla forma simbolica. Tutto ciò a New York non accadeva: la città, allestita attraverso una semplice maglia regolare a terra, cresceva tramite l’iniziativa privata; realizzava, nell’impermanenza, nella variazione e nell’imprevedibilità, snodi, punti, aree; liquidamente si configurava un network instabile, che non utilizzava come elemento linguistico cardine il monumento, ma alle volte un edificio o una intersezione tra corpi di fabbrica, la permeazione tra elementi eterogenei, uno spazio aperto, un giardino, una testa di grattacielo, che appariva, sorprendendo, in una città falsamente geometrica, anche a partire dal caso o da “deviazioni” individuali non coordinate.
In questo spazio inventivo le persone si muovevano a prescindere dalla classe di appartenenza: il Brooklyn Bridge conduceva a un ambito misto, dove il distretto finanziario era vicinissimo al mercato del pesce, dove i grattacieli rappresentativi, come il Woolworth Building, erano prossimi all’area dei grandi Newspapers; ma in questo spazio inventivo le persone, alcune e per molto tempo, abitavano in specifici nuclei. In essi non si penetrava facilmente e vigevano regole, sindacate e risindacate al di fuori di ogni concetto di Democrazia. In quelle aree che furono, alla fine del XIX secolo, indagate da Jacob Riis, la gestione dei comportamenti sociali riguardava quasi unicamente le persone che abitavano i luoghi stessi.
I fenomeni di segregazione si esprimevano anche in termini di razzismo e di pregiudizi razziali, sottesi a dinamiche di sfruttamento nei confronti di alcune etnie, come i cinesi o gli irlandesi – oltre ai neri (the nigers, i ‘negri’) e gli italiani – utilizzati per costruire ferrovie e la rete dei canali, fin nelle gelide aree di confine con il Canada. I gruppi etnici si localizzavano in specifiche aree, gli Ebrei a Lower East Side, gli Italiani a Mulberry Street, il cuore di Little Italy, mentre nei Five Points, al centro di Lower East Side, lo slum reputato infrequentabile e pericoloso, si insediarono soprattutto gli Irlandesi che avevano raggiunto gli States a partire dai primi dell’Ottocento e in seguito per sfuggire ad alcune catastrofi, come la carestia di patate, che causò la morte di circa un milione di persone e la migrazione di un numero altrettanto alto di irlandesi. I dati del censimento del 1890 rivelano che erano giunti quasi mezzo milione (483mila) di irlandesi. Di questi, 190mila erano rimasti a New York City. Più di 260mila si erano stabiliti nel Massachusetts, principalmente a Boston, mentre in Illinois erano arrivati circa 124mila irlandesi, di cui 79mila si erano stabiliti a Chicago, città economicamente fiorente per l’economia connessa alla carne.
Se alla voce “Negro” della Encyclopaedia Britannica, nella prima edizione americana, del 1798 si leggeva: «I vizi più noti sembrano essere il destino di questa razza infelice: si dice che ozio, tradimento, vendetta, crudeltà, impudenza, furto, menzogna, turpiloquio, dissolutezza, meschinità e intemperanza abbiano estinto i princìpi della legge naturale e abbiano messo a tacere i rimproveri della coscienza. Sono estranei a qualunque sentimento di compassione e costituiscono un terribile esempio della corruzione dell’uomo quando lasciato a se stesso», l’establishment descriveva gli irlandesi altrettanto criticamente, non solo su testi tanto prestigiosi, come l’enciclopedia, ma su quei Newspapers che avevano larga diffusione, dove si definivano gli irlandesi in modo estremo, rissosi, ubriaconi, e portatori di una atavica “colpa”, essendo cattolici in una terra in prevalenza protestante.
Tale atteggiamento non era espresso solo in ambito sociale, ma diveniva cogente in alcune leggi federali; fin dal 1798 il Congresso, infatti, approvò tre Aliens Acts, innervati da sentimenti razziali che avevano il potere di fermare l’immigrazione di qualunque Paese in guerra con gli States.
Come afferma Asbury, autore del libro (del 1927) Gangs of New York, Five Points era stato inizialmente occupato da schiavi liberati e irlandesi low-class ed era sede di numerose gangs [4], ma non era solo terra di scontri e illegalità: the Old Brewery, la vecchia birreria demolita nel 1852, noto luogo di omicidi, era pure ‘territorio’ di incroci. Ospitava infatti, al momento di massimo affollamento, circa mille persone, tra neri e irlandesi, che vi coabitavano.
In questo contesto ìmpari, tra disagio, sviluppo, cultura urbana formata all’intersezione di molti mondi, prolificavano le gangs che, potrebbe dirsi, derivano anche da una assenza pressoché totale di governo pubblico, da una mancata accettazione di alcuni gruppi, reputati troppo diversi e caratterizzati da una identità solida, che si automanteneva, e dalle forme di razzismo tutt’altro che larvale che alcuni etnie subirono. In particolare quella degli irlandesi, ritenuta lesiva anche nei confronti dei neri che, chiamati a Five Points ‘irlandesi affumicati’, venivano descritti come più ordinati degli stessi irlandesi, definiti ‘negri bianchi. Gli irlandesi, considerati pigri e rissosi, erano giudicati criticamente anche perché energici, carismatici e fortemente reattivi, anche in ambito lavorativo, sabotando i cantieri o scioperando.
Tale forma di pesante razzismo, oltre a scatenare conflitti, determinò un meticciato, come rilevavano numerosi articoli: tra essi i numerosi pezzi che, sul giornale di J. Pulitzer, «The World», si occupavano dei migranti e trattavano della formazione della compagine multietnica come struttura sociale della città. Gli irlandesi, gruppo numeroso e controverso, seguirono per integrarsi un doppio binario: da un lato, innervando e rafforzando il network del sottogoverno con l’asservimento ai bosses e la formazione di gangs, e dall’altro, entrando nell’alveo di alcune istituzioni. Nel 1840 c’erano pochi poliziotti irlandesi, un anno dopo quella etnia costituiva più di un quarto dell’organico dei cops newyorchesi, e il 75% dei vigili del fuoco. Si trattava, in un certo senso, di categorie border line tra il lecito e l’illegale. Come già detto, erano molti i poliziotti corrotti e tra i vigili del fuoco militavano numerosi Bowery Boys, una gang in lotta con gli irlandesi. L’informalità insita nel sistema si rifletteva anche nei comportamenti, che contenevano contraddizioni e antitesi tra il modello puritano e valoriale e quello che originava da strutture fluide di organizzazione sociale senza etica né valori.
Le testimonianze sul disagio urbano non erano solo frutto di restituzioni locali sui giornali newyorchesi: oltre al mastodontico De la démocratie en Amérique [5], di Alexis de Tocqueville e Gustave de Beaumont, pubblicato tra il 1835 e il 1840, anche importanti europei e con altra intenzione, si confrontarono con New York.
Durante la prima metà dell’Ottocento, infatti, Charles Dickens, partendo a gennaio del 1842, fece un lungo viaggio negli Stati Uniti e, nel giugno del 1842, di ritorno nella sua patria, pubblicò un volume, American Notes. Quando Dickens arrivò a New York la buona società newyorchese organizzò alcuni eventi mondani, tra questi un ballo, niente affatto citato nelle sue American Notes. Lo scrittore, probabilmente anche per il proprio background e in memoria della giovinezza vissuta tra gli stenti, preferì aderire alla cultura urbana esplorandola in termini meno mediati. Così dopo le passeggiate sulla Broadway, una sorta di boulevard se guardato con occhi europei, Dickens si addentrò nei meandri cupi di Lower East Side, dove vivevano i migranti più poveri, descrivendo in modo crudo quei luoghi tanto incerti e pieni di dolore umano:
«What place is this, to which the squalid street conducts us? A kind of square of leprous houses, some of which are attainable only by crazy wooden stairs without. What lies behind this tottering flight of steps? Let us go on again, and plunge into the Five Points […]. This is the place; these narrow ways diverging to the right and left, and reeking every where with dirt and filth. Such lives as are led here, bear the same fruit as else where. The coarse and bloated faces at the doors have counter part sat home and all the world over [...]. Debauchery has made the very houses premature old. See how the rotten beams are tumbling down, and how the patched and broken windows seem to scowl dimly, like eyes that have been hurt in drunken frays. Many of these pigs live here. Do they ever wonder why their masters walk upright instead of going on all fours, and why they talk instead of grunting?»[6]
Uno dei capitoli di American Notes, il VI, è dedicato in toto a Five Points, e rende una delle più interessanti descrizioni, anche se critica, del luogo che fu poi rappresentato fedelmente dal report di Riis. Raccontato come un quartiere senza crescita socioeconomica gravato da moltissimi problemi igienici, Dickens narra il proprio viaggio all’interno dello slum, rilevandone, però, la duplice energia: da un lato luogo di estremo degrado, dall’altro luogo della compresenza tra due aspetti speculari, il conflitto e la risoluzione del conflitto in termini autogestiti da parte dei migranti che oltre a scontrarsi trovavano spazi, luoghi e pratiche, per incontrarsi.
Dickens, infatti, entrando nella sala da ballo di un afroamericano, Pete Williams, al n. 67 di Orange Street, oggi Baxter Street, assistette a un singolare spettacolo che lo colpì profondamente. Pur essendo assai critica la descrizione di Five Points, lo scrittore parla infatti di maiali per strada, definendoli gli spazzini della città, quasi anticipando il testo di Engels sulla condizione della classe operaia in Inghilterra. Oltre a cogliere le terribili condizioni umane, Dickens riuscì a vedere come l’integrazione tra neri e irlandesi fosse possibile nella sala di Pete Williams, tra musica e danza. Questa dinamica di integrazione, infatti, venne descritta mettendo in evidenza l’atmosfera e la mescolanza tra le persone, sia per gruppo etnico sia dal punto di vista sociale, esistente nella sala da ballo, atmosfera in forte contrasto con l’esterno. La narrazione, assai puntuale, descrive la padrona di casa, moglie di Pete Williams, e cita un ballerino professionista, Master Juba [7], quasi certamente, William Henry Lane, uno dei primi artisti neri di successo che si esibì per la regina Vittoria in Gran Bretagna. È legittimo pensare che proprio American Notes fu un trampolino di lancio per Master Juba che si era esibito nel teatro di P. T. Barnum, insieme al suo competitor, John Diamond.
In quella fase le testimonianze sulle dinamiche interrazziali erano molto rare, gli articoli sui Newspapers tendevano a enfatizzare gli stereotipi dei gruppi, utilizzando tali immagini strumentalmente, per legittimare i comportamenti discriminanti e vessatori: i migranti, spesso a partire dalle differenze di razza, venivano utilizzati per specifici lavori di bassissimo profilo; gli stakeholders, attori del real estate market, avevano spinto le minoranze in aree marginali, senza alcuna attenzione per il sistema dei servizi di base. K. Marx, che scriveva sul «New York Daily Tribune» (intorno alla metà dell’Ottocento), notò acutamente che esisteva una relazione tra sottomissione sociale e invisibilità storica, così come tra sottomissione sociale e manipolazione storica.
Nello specifico è interessante rilevare come la maggior parte degli scrittori prima della Civil War non citasse la Hall Almack, se non come parte costituente di un abominio che vedeva nei Five Points un luogo di immoralità e promiscuità sessuale e di fusione tra le classi sociali: la compresenza di workers, aristocratici, gentlemen, sfruttatori, prostitute, veniva interpretato unicamente come una deriva sociale. Nel 1850 la sala da ballo, oramai famosa dopo American Notes, e nota come Dickens’s place, oltre ad essere frequentata da una mixitè umana, fu oggetto di atti vandalici, per esempio quando fu saccheggiata da Bill the Butcher, un boss irlandese.
Pete Williams, proprietario anche di una pensione in Orange Street, era descritto come un uomo d’affari benestante. Egli, che nel 1850 dichiarò cifre inimmaginabile per un nero a Five Points, era il direttore d’orchestra di un mondo sotterraneo e non rilevato se non da una stampa sensazionalistica che ne evidenziava gli aspetti deteriori. La dance hall era anche una bisca, ma nonostante la sua collocazione in un basement, era ben tenuta e pulita. In quella grande stanza, frequentata da numerosi afroamericani e da irlandesi, si concretizzava un amalgama che numerosi testimoni non avevano mai rilevato. Le fonti del tempo che utilizzavano il significativo termine “amalgamation”, in certi casi combinavano indignazione morale e fascinazione, ponendo, comunque, in evidenza quanto i comportamenti tenuti all’interno della sala, giudicati irreprensibili, consentissero che lo spirito della danza sorgesse pienamente, come aveva sostenuto un reverendo dell’epoca.
Oltre a rappresentare un punto di incontro tra gruppi etnici la sala da ballo fu un luogo dove si espresse il ruolo dei neri che, post abolizione dello schiavismo, fu un dono per la cultura americana, in quanto la libertà conquistata ebbe un effetto significativo sull’espressione culturale, soprattutto riguardo alla musica e alla danza, con l’invenzione del ragtime e del blues. Musica e danza furono un’alchimia potente e un effetto moltiplicatore della libertà. La danza aveva in sé ciò che per alcuni era criticabile: l’uso giudicato peccaminoso del corpo, deprecato dai puritani, unito all’aspetto catartico e liberatorio dello stesso. Dai viaggiatori, anche durante la metà del Settecento, la danza veniva rilevata come un mezzo per esprimere la propria identità e per stare insieme. Ma nel contempo si esprimeva un giudizio negativo, per gli effetti reputati dannosi, per la promozione di atteggiamenti effeminati negli uomini, per l’istigazione alla pigrizia e alla dissolutezza; nulla è più sovversivo, dicevano i puritani, che la mancanza animalesca di controllo della danza. Ciò nonostante si diffondevano le scuole di danza accreditate e quelle rivoluzionarie, in ogni grande città americana, generando una familiarità tra le persone reputata inopportuna, mentre i detrattori promuovevano comportamenti sociali di matrice europea, derivati dalla buona società del Vecchio continente, come narrato ne The Age of Innocence romanzo di Edith Wharton del 1920, vincitore del Premio Pulitzer. Da altri “testimoni” invece i balli formali che venivano descritti come emblema della morigeratezza, accostavano gli altri, quelli che si danzavano in luoghi come la Pete Williams’ Hall, alla gaiezza e all’amore più libero.
Lo stesso Dickens si era espresso favorevolmente:
«How glad he is to see us! What will we please to call for? A dance? It shall be done directly, sir: ‘a regular break-down. ‘The corpulent black fiddler, and his friend who plays the tambourine, stamp upon the boarding of the small raised orchestra in which they sit, and play a lively measure. Five or six couple come upon the floor, marshalled by a lively young negro, who is the wit of the assembly, and the greatest dancer known. He never leaves off making queer faces, and is the delight of all the rest, who grin from ear to ear incessantly. Among the dancers are two young mulatto girls, with large, black, drooping eyes, and head-gear after the fashion of the hostess, who are as shy, or feign to be, as though they never danced before, and so look down before the visitors, that their partners can see nothing but the long fringed lashes. But the dance commences. Every gentleman sets as long as he likes to the opposite lady, and the opposite lady to him, and all are so long about it that the sport begins to languish, when suddenly the lively hero dashes in to the rescue»[8].
La sala da ballo di Pete Williams, il nero benestante, era dunque luogo di fusione tra classi e di amalgama tra etnie, mentre la musica era una fusion tra culture musicali diverse: il banjo era nero, mentre il tamburello irlandese; oltre agli strumenti si rilevavano contaminazioni tra alcune canzoni irlandesi cantate in dialetti delle Black Community. La danza fu, in quella fase, un ambito di contaminazioni e di innovazione culturale: John Diamond uno tra i maggiori danzatori insieme al suo competitor, Juba, sono accreditati come inventori del tip tap. Diviene interessante notare come dinamiche di prevaricazione, manipolazione, sudditanza, incomunicabilità, fossero sostituite da integrazione, amalgama, cooperazione. I corpi erano in movimento, ma l’azione corporea non aveva la brutale aggressività messa in atto per strada, dalle gangs.
La retorica del dominio e l’esercizio della violenza venivano superate dando vita non solo a una coesistenza tra persone diverse, ma a forme innovative di produzione culturale: danza, tiptap, configurazioni nuove comparivano dall’incontro tra gruppi abitualmente non integrati, tra reel, gighe irlandesi, musiche africane, clog dance (di matrice irlandese) e step dancing. La convivenza tendenzialmente pacifica, che rappresentava un nodo centrale e un teorico orizzonte di riferimento, in certi casi fu possibile solo in virtù di ‘pratiche autogestite’ e per la presenza di alcuni spazi ‘comuni’ non convenzionali. Tra essi la sala da ballo, l’Almack’s Dance Hall [9]. In quel luogo di incontro musica e danza divennero occasione di fusione e di integrazione tra gli Afro American e gli Irish American, grazie a musicisti e ballerini che, danzando tiptap e suonando generi musicali precursori del jazz e del rhythm and blues, favorirono la conoscenza tra le persone, depotenziando le conflittualità urbane.
‘Arene sociali’ impreviste, o di singolare natura, divenivano, in quel contesto, luogo ove il feroce scontro urbano, giocato a più livelli, veniva affrontato, attraverso il ‘corpo’ e l’azione degli abitanti, e attraverso la musica quale linguaggio universale, mostrando come ogni teoria sul superamento del conflitto potesse trovare, a volte, una sorprendente risoluzione nel quotidiano vissuto.
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
[*] Questo saggio è un’elaborazione della relazione presentata per l’International Conference: Peoples and Cultures of the World, tenuta a Palermo (Università degli Studi), il 24 e il 25 gennaio 2019.
Note
[1] Tra le gangs: Montgomery Guards, Banda irlandese americana che guadagnava con rapine e incassi di stampo mafioso; Gopher Gang, irlandesi che controllavano gran parte di Manhattan; Dead Rabbits, irlandesi; Roach Guards; Plug Ugle; i Forty Thieves (una banda di ladri).
[2] Edward Coleman fu, appunto, il fondatore, nel 1826, della più antica gang di New York City. Capo indiscusso della prima gang irlandese fu uno dei più famosi criminali di New York, noto per aver assassinato la moglie, conosciuta come ‘The Pretty Hot Corn Girl’. Coleman controllò per più di quindi anni Five Points, sposò Ann, una prostituta che fu, appunto, uccisa da lui perché non aveva guadagnato al di sotto delle stime del ‘marito’. Fu arrestato e condannato per omicidio il 12 gennaio 1839 e impiccato.
[3] Una gang avversa agli irlandesi, insediata a Bowery Street, una importante e storica arteria limitrofa a Lower East Side. Della gang facevano parte uomini appartenenti a una categoria di workers più abbienti: operai specializzati, commercianti, vigili del fuoco volontari. Apparentemente ligi alle regole combatterono, spesso, contro le gangs irlandesi.
[4] Ogni membro di una tra le bande che operavano a Five Points, aveva cinque punti tatuati sulla mano, come segno di riconoscimento sia alla gang che al luogo; alla banda appartenevano anche alcune giovani donne adolescenti, tra esse Alice Diamond e Mary Carr, una criminale astuta che aveva al suo seguito altre bande tutte femminili.
[5] Il volume è in primo luogo un’analisi della democrazia rappresentativa repubblicana, in due volumi pubblicati a distanza di anni. Frutto di un viaggio di nove mesi negli Stati Uniti, iniziato a New York, e inizialmente orientato a studiare il sistema carcerario americano, il libro rilegge gli aspetti del sistema sociale, economico e politico negli States. Il primo volume si concentra sul sistema penitenziario, il secondo, invece, è concentrato sull’apparato politico e sul concetto di Democrazia in America.
[6] Che posto è questo, al quale ci conduce la squallida strada? Una sorta di ‘quadrato’ di case per lebbrosi, alcune delle quali non sono raggiungibili se non tramite spericolate scale di legno. Cosa si cela dietro questo insieme traballante di scalini? Andiamo ancora a immergerci all’interno di Five Points [...]. Questo è il luogo; questi vicoli stretti che divergono a destra e a sinistra, ovunque puzzolenti per la sporcizia e il luridume. Ognuna delle vite umane, qui condotte, sopporta i medesimi ‘frutti’, come altrove. I volti rozzi e gonfi affacciati alle porte, hanno un corrispettivo nelle loro dimore e ovunque nel mondo [...]. La depravazione ha reso le innumerevoli case prematuramente vecchie. Guarda come le travi marce stiano cedendo, e le finestre rattoppate, somiglino a uno sguardo torvo, vagamente ombroso, come occhi feriti da un’incursione di ubriachi. Molti di questi ‘maiali’ vivono qui. Si chiedono mai perché i loro padroni camminino eretti, in posizione verticale invece che a quattro zampe, e perché essi parlino, invece di grugnire?.
[7] La Juba Dance ebbe origine nella Carolina del Sud. Danzata dagli schiavi delle piantagioni, divenne parte della cultura dei ‘neri’ perché non era permesso loro usare le percussioni (per gli eventuali messaggi nascosti nel ritmo). Proprio il ritmo della Juba Dance fu probabilmente utilizzato per comunicare (i “tamburi parlanti”). Durante la metà del XIX secolo furono aggiunte musica e parole e iniziarono le esibizioni pubbliche. Maestro fu William Henry Lane, Master Juba, uno dei primi artisti neri negli Stati Uniti a essere accreditato non solo dalla Black Community.
[8] Dickens descrive la scena nella sala da ballo di Pete Williams, parlando dell’entusiasmo delle persone, dei musicisti e del ritmo, restituendo la duplice melodia del violino e del tamburello che insieme producono un suono vivace. Cinque o sei coppie danzano, guidate da un giovane negro, che è l’anima dell’assemblea, nonché il più grande ballerino conosciuto (nda: mr. Juba). Tutti sono allegri, tra le ballerine due giovani mulatte. La danza inizia. Ognuno dei gentlemen guarda la signora in fronte a sé, attendendo, e il giovane conduttore del ballo interviene a facilitare l’inizio della danza.
[9] Oramai scomparsa, la Pete Williams Hall è, oggi, una sorta di landmark virtuale, al suo posto c’è un giardino, il Columbus Park, in piena Chinatown.
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. La sua ultima pubblicazione, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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