di Camilla Fogli [*]
Parlare di migrazioni, oggi più che mai, può risultare un compito arduo e a tratti rischioso. Per quanto uno si impegni ad analizzare e approfondire le infinite sfaccettature che presenta questo fenomeno, la ricerca continua ad aprire nuovi orizzonti, dubbi e riflessioni, senza mai arrivare a conclusioni certe. A ciò si aggiunge poi il fatto che, in generale, la narrativa sulle migrazioni, soprattutto per quanto riguarda i flussi in entrata, ovvero l’immigrazione, è in Italia e in Europa sempre più spesso caratterizzata da una carica emotiva, di chi scrive, di chi legge, di che ne parla. Si tratta di un fenomeno che riguarda tutti noi ed è spesso difficile trattare l’argomento in modo scientifico e neutrale.
Con questo lavoro ho voluto inserirmi in quel filone di studi che si propone di osservare e analizzare la questione dal punto di vista economico e lavorativo, e provare a offrire un ulteriore contributo alla comprensione di alcune dinamiche che legano la competenza dell’imprenditorialità ai processi di integrazione socio-economica dei migranti in Italia e all’analisi della varietà dei modelli e iniziative sviluppate in tale direzione.
Il lavoratore, figura emblematica del fenomeno migratorio
Volendo affrontare quelle che sono le dinamiche di inserimento degli immigrati nei sistemi economici e nei mercati del lavoro delle società ospitanti, emerge con chiarezza come la figura centrale dei fenomeni migratoria sia stata – e rimanga tutt’ora – quella del «lavoratore che attraversa le frontiere per cercare lavoro all’estero»[1]. È indiscutibile il fatto che le condizioni economiche e lavorative abbiano storicamente costituito le principali cause di partenza dai Paesi di emigrazione: esiste tra immigrazione e lavoro un legame indissolubile, con la conseguenza che la figura dell’immigrato, nella legislazione e nella prassi amministrativa così come nell’opinione comune dei Paesi riceventi, viene difatti identificato con la figura del lavoratore.
La natura dei flussi, le modalità di insediamento, le relazioni che si instaurano con il contesto locale di accoglienza sono fortemente condizionate dalle caratteristiche che assume l’inserimento lavorativo degli stranieri. Il lavoro, infatti, rappresenta un aspetto fondamentale dell’integrazione ed è considerato il principale punto di contatto e confronto tra il mondo degli immigrati e quello dei cittadini. Esso non è solo il mezzo con cui gli immigrati traggono le risorse materiali per vivere, ma va associato anche ad altre dimensioni centrali della loro esistenza: è uno spazio di socializzazione e integrazione, di apprendimento, di costruzione di ruoli, status e legami sociali, un mezzo di realizzazione umana. L’inserimento professionale non è solo il risultato dell’accesso al mercato del lavoro, ma fa parte del più ampio insieme di condizioni materiali necessarie a un individuo per integrarsi in un nuovo sistema. Un inserimento lavorativo virtuoso, che tenga in considerazioni le reali capacità, esperienze e aspirazioni dei lavoratori stranieri, può quindi portare a un miglioramento anche di altre risorse più attinenti alla sfera sociale, come ad esempio la casa, la famiglia, la formazione.
L’imprenditore immigrata, potenziale inespresso dell’economia europea
L’avvio di un’impresa o di un’attività autonoma rappresenta uno degli sbocchi occupazionali non secondari per gli immigrati. Come molti studi evidenziano, la scelta del lavoro autonomo da parte degli immigrati va interpretata più in generale in termini di una risposta reattiva alle difficoltà di inserimento sociale, soprattutto laddove le società d’arrivo risultino caratterizzate da discriminazioni nei loro confronti. Tale impostazione sembra essere quanto mai vera nel caso italiano, se si tiene conto delle vulnerabilità sociali degli immigrati [2].
Negli ultimi decenni del XX secolo, il lavoro autonomo per migranti e minoranze etniche è diventato ancora più importante in quanto, da un lato, i flussi migratori sono aumentati e, dall’altro, sono state ampliate le opportunità per le piccole imprese. È un dato di fatto che i migranti contribuiscono alla crescita economica dei Paesi di accoglienza, sia come dipendenti sia come imprenditori, in molti modi, come l’introduzione di nuove competenze e capacità, l’incremento della manodopera e la creazione di nuove imprese. Questo contributo alla crescita delle attività imprenditoriali e alla creazione di occupazione nei Paesi europei è cresciuto negli ultimi decenni, sia in termini qualitativi sia quantitativi.
A livello statistico, risulta evidente il rapporto che lega migrazione e imprenditoria. L’Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) in uno dei suoi rapporti annuali, ha rilevato come, a livello generale in tutta Europa, il tasso di avvio di attività in proprio risulti maggiore tra la popolazione immigrata rispetto a quella nativa. Sempre l’OECD, nel Rapporto “Entrepreneurship and Migrants”, rileva come in generale i migranti abbiano uno spirito più imprenditoriale rispetto alla popolazione indigena, rappresentando così un importante bacino di potenziali imprenditori in Europa [3].
Inoltre, nella maggior parte dei Paesi europei, i migranti sono più inclini a impegnarsi in attività imprenditoriali rispetto ai nativi. La stessa Commissione Europea, nel suo Entrepreneurship 2020 Action Plan [4], attribuisce agli imprenditori immigrati un importante ruolo per il rilancio economico-produttivo dell’Unione Europea, riconoscendo che gli immigrati risultano avere una maggiore propensione alla costruzione di nuove imprese e sottolineando la rilevanza del loro contributo per il sistema imprenditoriale europeo.
Dunque, nonostante le difficoltà che i migranti incontrano nell’avviare un’impresa – oltre a quelli che, in generale, incontrano nel loro processo di integrazione in un nuovo Paese – diversi studi dimostrano che hanno l’atteggiamento giusto o una mentalità appropriata per avviare un’impresa.
Gli imprenditori con un background migratorio sono in grado di distinguersi per la loro capacità di offrire servizi completamente innovativi e creare posti di lavoro sia per altri immigrati sia per i lavoratori locali, fungendo da ponte tra mercati locali e globali. La crescita in campo imprenditoriale favorisce l’opportunità di integrazione dei migranti, aumenta la fiducia tra loro e promuove una coesione sociale, contribuendo alla rivitalizzazione dei centri urbani [5]. Grazie ai loro legami transnazionali, gli imprenditori migranti possono anche contribuire all’espansione degli scambi tra i Paesi di arrivo e i Paesi di origine. Molti migranti e persone appartenenti a minoranze offrono importanti beni sociali, culturali ed economici, oltre alle reti transnazionali, come le abilità linguistiche e la consapevolezza multiculturale, che sono sempre più importanti in un mondo globalizzato.
Considerando poi alcuni trend demografici che caratterizzano non solo l’Italia ma tutti i Paesi europei, primo tra tutti l’invecchiamento demografico europeo rispetto ai più alti tassi di crescita registrati tra le comunità di immigrati, il contributo dei giovani stranieri e delle minoranze aumenterà sempre di più. Ciò viene ad esempio confermato, per quanto riguarda il contesto italiano, dai dati in possesso di Infocamere, che attestano come la crescita della componente straniera nel tessuto imprenditoriale in Italia abbia assunto dimensioni davvero rilevanti. Per fare un confronto, nel 2011 gli stranieri iscritti nei registri delle imprese delle Camere di commercio italiane quali titolari e soci d’impresa risultavano essere circa 40 mila, nel 2017 le imprese guidate da immigrati sono quasi 590 mila, pari al 9,6% del totale di imprese attive in Italia. Dunque, guardando agli ultimi sette anni, il fenomeno dell’imprenditoria straniera si conferma uno dei motori che mantengono in equilibrio il sistema imprenditoriale nazionale.
Alla luce di tutto ciò, appare dunque evidente come garantire l’integrazione e il successo degli immigrati nel mercato del lavoro e nel tessuto imprenditoriale nazionale, supportandoli nella realizzazione del proprio potenziale e aspirazioni, sia un elemento fondamentale per uno sviluppo economico sostenibile e per la promozione di una società multiculturale e inclusiva.
Imbattersi ed essere clienti di attività come un ristorante marocchino, una lavanderia cinese o un negozio di alimentari pakistano è all’ordine del giorno. Camminando per le strade delle città italiane ed europee ci si può facilmente rendere conto di come molte comunità immigrate facciano ormai parte del panorama urbano e del tessuto sociale dei Paesi di accoglienza. La curiosità da cui si è sviluppato questo lavoro inizia proprio da una simile considerazione: che ruolo hanno, o possono avere, tutte queste attività, riassumibili con l’espressione di imprenditoria immigrata, nei processi di integrazione e inclusione di cittadini stranieri nelle società di accoglienza europee?
Tramite un percorso di ricerca e riflessione, si è dunque cercato di dare una lettura del fenomeno migratorio che metta in relazione mobilità, imprenditorialità e inclusione, senza alcuna presunzione di voler fornire un’unica strada, ma con l’obiettivo di ragionare sul tema e mostrare alcune delle direzioni possibili. Ciò, partendo anzitutto dal rifiuto della sempre più diffusa logica che vuole trasformare l’immigrazione in una mera questione di sicurezza e dalla convinzione che, invece, l’inclusione delle minoranze immigrate in Italia rappresenti una straordinaria occasione di arricchimento, culturale, sociale ed economico. Il presupposto su cui si fonda il ragionamento alla base di questo lavoro, parte infatti da una concezione della condizione migratoria come opportunità, per i migranti e per i Paesi di accoglienza.
Le prime considerazioni a cui si è giunti riguardano proprio il concetto di mobilità, condizione che in molti dei casi – letterari o empirici – presi in considerazione viene interpretata come aspetto positivo di sviluppo umano globale. Come, tra l’altro, sottolinea un recente studio di psicologia [6] riguardo i processi di resilienza propri degli immigrati, la capacità di elaborare un progetto migratorio e di risolvere positivamente le sfide che questa scelta comporta qualifica la maggior parte degli immigrati come persone che, almeno a livello individuale, si possono definire resilienti. La popolazione immigrata, proprio per le numerose difficoltà a cui va incontro nel momento in cui decide di emigrare, è il campione più indicato per studiare come e quando si sviluppano i processi di resilienza. Termine che, almeno in ambito psicologico, non designa la semplice abilità di resistere ad eventi avversi, bensì una dinamica positiva volta al controllo degli eventi e alla ricostruzione di un percorso di vita positivo [7].
Uno degli aspetti più interessanti rilevati riguarda poi il fatto che la resilienza caratteristica di persone che vivono un’esperienza migratoria presenta alcuni elementi che accomunano non tanto il background socio-culturale dei migranti quanto il loro percorso fisico di migrazione con il campo dell’imprenditoria. Secondo diverse fonti, infatti, gli aspetti che caratterizzano il percorso migratorio volontario risultano essere molto simili a quelli che caratterizzano un progetto imprenditoriale. L’associazione tra una persona che decide volontariamente di migrare per ambire ad un miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e un potenziale imprenditore o, meglio, persona dotata di spirito di iniziativa e imprenditorialità, appare in molti casi adeguata. In un certo senso, si può dunque ipotizzare che lo spirito di iniziativa che spinge una persona a cercare il proprio benessere altrove, accettando di rischiare e di attivare tutte le proprie risorse per conseguire un fine all’interno di un progetto più o meno definito, può essere teoricamente paragonato a quello che porta un imprenditore all’avvio della propria attività.
Occorre allora domandarsi come mai la condizione di immigrato, soprattutto se di prima generazione – a prescindere dai vari pregiudizi – viene considerata assai più frequentemente un problema o debolezza piuttosto che un punto di forza e un’opportunità. Per provare a spiegare ciò, ho anzitutto voluto inserire il concetto di capacitazione coniato dal Premio Nobel Amartya Sen, ricordando come tale condizione possa essere sfruttata costruttivamente solo nel momento in cui vengono superate una serie di illibertà che spesso si verificano nei Paesi di accoglienza. Come, infatti, sostiene Sen «al centro della lotta contro la privazione c’è l’azione individuale; ma quella libertà di agire che possediamo in quanto individui è, nello stesso tempo, irrimediabilmente delimitata e vincolata dai percorsi sociali, politici ed economici che ci sono consentiti. Lo sviluppo consiste nell’eliminare vari tipi di illibertà che lasciano agli uomini poche scelte e poche occasioni di agire secondo ragione; eliminare tali illibertà sostanziali è un aspetto costitutivo dello sviluppo» [8]. Tra queste illibertà, specialmente in relazione al contesto italiano odierno, si inseriscono un quadro normativo che non permette la piena regolarizzazione, la difficoltà a trovare una soluzione abitativa dignitosa, il mancato riconoscimento delle competenze tecniche e informali, oltre che le discriminazioni e barriere di vario tipo, incluse quelle linguistiche e comunicative.
Formazione professionale e orientamento al lavoro, una delle vie possibili
Si è cercato allora di legare tutte queste considerazioni sulla condizione migratoria e lavorativa all’ampio mondo della formazione, con una particolare attenzione al settore dell’apprendimento continuo degli adulti legato al mondo professionale e imprenditoriale. L’argomentazione alla base di tale collegamento muove, tra gli altri, dal pensiero della sociologa italiana Rosangela Lodigiani che riflette sul fatto che se il lavoro rappresenta il principale fattore di inclusione, la formazione permanente dovrebbe allora essere considerata come l’elemento principale di un sistema di integrazione. Tuttavia la formazione viene spesso ridotta ad un semplice sostituto funzionale del lavoro e delle politiche di inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro. In particolare, l’autrice sostiene che «ad essa si può chiedere di favorire nel lungo periodo l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, di promuovere una buona occupazione, ma non si può dare per scontato che possa crearne di nuova» [9]. A ciò si somma poi l’osservazione condivisa secondo cui il lavoro sia una condizione fondamentale ma non sufficiente a garantire processi di reale integrazione e inclusione.
In merito, tramite una serie di interviste a persone che, a vario titolo, si occupano di questi temi in Italia, si è arrivati alla comune conclusione che un processo virtuoso di inserimento sociale ed economico degli immigrati adulti dovrebbe porre le proprie basi sulla formazione e lo sviluppo delle competenze e in generale del capitale umano e delle eque opportunità per gli immigrati. Il pedagogista Umberto Margiotta, in merito, suggerisce che occorrerebbe strutturare un sistema basato, appunto, sul già citato concetto di “capacitazione” di Sen, che miri a mettere il soggetto nelle condizioni di esigere la realizzazione dei propri diritti sociali, tra cui anche il diritto di apprendere. Egli sostiene infatti che «occorre piuttosto pensare che la formazione produce autorealizzazione del sé nella misura in cui si dimostri capace di formare le nuove generazioni non a cercare lavoro ma a creare nuovo lavoro per sé e per gli altri»[10].
In tale contesto, l’apprendimento adulto rappresenterebbe dunque un «veicolo di empowerment e di attivazione delle capacitazioni dei soggetti». Di conseguenza, l’obiettivo dei sistemi di accoglienza e inclusione nazionali dovrebbe essere quello di rendere ogni soggetto «in grado di fare la sua parte, partecipando alla vita economica, sociale e politica del suo paese: di sostenerlo nell’acquisizione di capacità atte a fronteggiare le situazioni, agire con consapevolezza ed efficacia, realizzare il proprio desiderio di autonomia e di autodeterminazione. In una parola sviluppando il suo empowerment, a diversi livelli. […] Se si lascia, però, al singolo, tutta la responsabilità per la sua attivazione, si amplificano le differenze tra quanti sono in grado o meno di essere attivati».
Inoltre, da quanto emerso dall’analisi di una serie di esperienze empiriche di formazione professionale in contesto migratorio, risulta evidente che la formazione da sola non possa assicurare l’inclusione sociale dei cittadini, ma debba essere inserita in una rete di servizi e supporto più ampia e integrata. Andrebbero quindi sviluppati, a livello nazionale prima ed europeo poi, dei modelli che siano in grado di coinvolgere a vario titolo attori diversi (cittadini, organizzazioni del terzo settore, imprese private, enti pubblici, istituzioni internazionali) al fine di creare delle reti di cooperazione e supporto.
In ultima analisi, ciò che il mio lavoro ha voluto evidenziare è dunque la fondamentale considerazione secondo cui il successo dei percorsi di integrazione e inclusione sociale di cittadini stranieri è anzitutto il risultato di uno sforzo comune, che riguarda tanto i migranti quanto le comunità che accolgono.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
[*] Il seguente testo è stato estratto dalla mia tesi “L’imprenditorialità come competenza per l’integrazione sociale e lavorativa degli immigrati. Orientamento, formazione e incubazione d’impresa: analisi del contesto italiano”, discussa in data 25 marzo 2019 presso l’Università di Torino.
Note
[1] Ambrosini, M., (2005), Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino: 57.
[2] Reyneri, E., (2007), La vulnerabilità degli immigrati, in Brandoli, A. e Saraceno C. (a cura di), Povertà e benessere. Una geografia delle disuguaglianze in Italia, Bologna, Il Mulino.
[3] OECD (2010), Entrepreneurship and Migrants, Report by the OECD Working Party on SMEs and Entrepreneurship.
[4] Nel 2013 la Commissione Europea ha presentato un piano d’azione a sostegno degli imprenditori. Il piano si basa su tre pilastri, con azioni da sviluppare a ogni livello, europeo e nazionale: a) educazione all’essere imprenditori; b) rimozione delle barriere che frenano le imprese; c) migliori opportunità per donne, giovani, senior e immigrati.
[5] Gnetti, F., Imprenditori migranti, una ricchezza per l’Europa e soprattutto per l’Italia, https://www.reset.it/reset-doc/imprenditoria-immigrata-una-ricchezza-per-leuropa-e-soprattutto-per-litalia, 29 luglio 2014.
[6] Manetti M., Zunino A., Frattini L., Zini E. (2010), Processi di resilienza culturale: confronto tra modelli euristici, in B. Mazzara (a cura di), L’incontro interculturale tra difficoltà e potenzialità, Milano, Unicopli.
[7] Vanistendael ,S. e Lecomte, J., (2000), Le bonheur est toujours possible. Construire la résilience, Paris, Bayard Culture.
[8] Sen, A., (2000), Sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza sviluppo, Milano, Mondadori: 5-6.
[9] Lodigiani R., (2008), Welfare attivo – Apprendimento continuo e nuove politiche del lavoro in Europa, Trento, Edizioni Erickson: 165.
[10] Margiotta U., (2013), Dal welfare al learnfare: verso un nuovo contratto sociale, in Alessandrini G. (a cura di), La formazione al centro dello sviluppo umano, Milano, Giuffrè Editore: 32.
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Camilla Fogli, dopo la laurea triennale in Scienze Internazionali e della Cooperazione ha intrapreso un percorso bi-nazionale tra l’Università di Torino e quella di Rabat, dividendosi tra una Magistrale in Comunicazione Pubblica e Politica e un Master di Sociologia delle Migrazioni nel Mediterraneo. Recentemente laureata con una tesi di ricerca sul tema dell’imprenditoria immigrata, ha negli anni affrontato il tema delle migrazioni da diverse prospettive e campi di studio. Si occupa specialmente di innovazione sociale e del ruolo delle nuove tecnologie in campo umanitario. Attualmente sta svolgendo un tirocinio presso le Nazioni Unite di Bonn.
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