Sul quotidiano «La Tribuna», tra il 26 giugno e il 19 agosto del 1901, Pirandello pubblica L’esclusa. Nel IX capitolo del romanzo, nel paese in cui abita la protagonista Marta Ajala, si svolge una festa.
Si tratta di sequenza narrativa di enorme rilievo dal punto di vista filologico, antropologico e critico letterario.
All’inizio del IX capitolo, comincia la festa:
«Prima dell’alba del giorno appresso furono destate di soprassalto da uno strepito indiavolato giù per la strada: urli, grida scomposte che andavano al cielo, fischi spaventevoli di bùccine marine. [...] Come ogni anno, sù dalla borgata marina venivano in tumulto, su lo spuntar del giorno, i così detti pescatori: quasi tutta la gente che abitava in riva al mare, non dedita alla pesca soltanto. A loro, a gli abitanti della borgata, era serbato per antica abitudine l’onore di portare in trionfo per le vie della città il fèrcolo dei due santi patroni, che appunto al mare avevano sofferto il loro primo martirio e su i marinaj perciò facevano valere più specialmente la loro protezione. | Così ogni anno la città era destata da quell’invasione fragorosa, come dal mare stesso in tempesta».
Diversi elementi, nel corso del romanzo, rendono riconoscibile in Agrigento il luogo in cui si sta svolgendo l’evento festivo. Ma il rito è detto di «San Cosimo e Damiano». «Il giorno della festa dei santi patroni del paese», scrive Pirandello. Eppure, la festa è unanimemente ritenuta quella agrigentina di S. Calogero.
Secondo Enzo Lauretta, fra i massimi esperti dello Scrittore e per tanti anni Presidente del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, «non c’è dubbio che si tratta proprio della festa di San Calogero: troppi sono i dettagli che ancora oggi, a distanza di settant’anni, trovano puntuale riscontro con la realtà della sagra popolare» (1980: 24).
Leonardo Sciascia ha fatto un passo avanti. Si è chiesto perché lo Scrittore rappresenti la Festa di San Calogero di Agrigento col nome di «San Cosimo e Damiano». Secondo Sciascia,
«o per liberarsi di Girgenti, per respingerla dalla sua fantasia, o soltanto per l’esteriore preoccupazione di mutare i dati di una vicenda identificabile nelle cronache della sua città, Pirandello cambia nome a Girgenti o ne altera le caratteristiche. Ma non senza difficoltà. Nel romanzo L’esclusa, non trova di meglio che sdoppiare il santo protettore della città: al posto di san Calogero i santi Cosimo e Damiano [...] In questa descrizione, che non è gratuità dentro l’azione del romanzo, ne è anzi una delle pagine più intense, c’è in ogni dettaglio la festa di san Calogero che si celebra in Girgenti nel mese di luglio: Pirandello si è limitato a sdoppiare in Cosimo e Damiano, santi non indigeni, l’eremita Calogero; e a mettere loro in mano le palme del martirio al posto del bastone da capraio che ha san Calogero. E si noti che le voci della folla sono distrattamente registrate senza l’alterazione che dovrebbe essere conseguente allo sdoppiamento: “La via al Santo! La via al Santo!”; e prima: “Il Santo delle grazie, divoti!” Per uno scrittore che davvero non mancava di immaginazione, è un fatto da tenere in un certo conto» (2002: 1067-69).
L’identificazione fra la festa dell’Esclusa e quella di San Calogero di Agrigento, fatta da Lauretta, Sciascia e gli altri che ne hanno scritto, è errata. Il rito descritto da Pirandello contiene elementi estranei alla Festa di San Calogero di Agrigento e riferibili alla Festa di San Cosimo e Damiano di Palermo. È quanto emerge con chiarezza dallo studio di Fatima Giallombardo su questo rito e dalle descrizioni che Pitrè ne fece. Non si tratta semplicemente, nel racconto di Pirandello, di un mutamento di nome alla Festa di San Calogero.
San Calogero non è il santo dei pescatori, e non viene dal mare («Come ogni anno, sù dalla borgata marina venivano in tumulto, su lo spuntar del giorno, i così detti pescatori: quasi tutta la gente che abitava in riva al mare, non dedita alla pesca soltanto»). È il santo dei contadini. Ovunque è venerato, in Sicilia, – e lo è diffusamente – è riconosciuto come santo eremita, e ne viene indicata la dimora in una grotta. La confraternita di Agrigento alla quale è riservato l’onore di ‘portare’ il Santo è stata composta, dalla sua fondazione a oggi, solo da contadini e operai agrigentini e dai loro figli, e non da Empedoclini (diciamo per chi pensa – ciò che non è e non potrebbe mai essere – a Porto Empedocle leggendo «borgata marinara»).
Scrive padre De Gregorio, nella monografia dedicata al Santo: «questo di portare il Santo è un ufficio riservato esclusivamente ai contadini i quali tengono non solo a compierlo, ma anche ad affermarlo come un loro privilegio. [...] ricorre molto frequente l’affermazione che San Calogero è dei contadini»; è «un ufficio votivo che spesso si trasmette da padre in figlio» (1977: 131)
Al mattino la Festa di San Calogero è annunciata dal rullo dei tamburi e non dal suono delle bùccine, come lo era quella di san Cosimo e Damiano. La rappresentazione dell’evento festivo prosegue con la descrizione della raccolta delle offerte ai Santi. Chi, come, cosa assomigliano molto a quanto accade ad Agrigento. Ma poco dissimili sono anche nel Rito palermitano testimoniato da Pitrè nel 1881 per la prima volta.
Per Pirandello questa è la festa dei «santi Cosimo e Damiano (di cui il popolo faceva un santo solo in due persone)». Nel romanzo, l’invocazione è: «Il Santo delle grazie, divoti!». Giallombardo scrive: «i due sono avvertiti come una sola persona e quindi unica entità sacrale», e «al singolare vengono il più delle volte invocati» (1998: 65, 64); «Lu santuzzu dî grazii cc’è». Non dissimile è l’invocazione per San Calogero.
Sappiamo anche quale specifica festa di San Cosimo e Damiano Pirandello sta descrivendo. Lo sappiamo dalla notizia sul diritto di portare ‘a vara’ in città. In effetti, a Palermo – scrive il marchese di Villabianca, citato da Giuseppe Pitrè nel 1881 – «vien portata la baretta de’ due SS. da marinari, per privativa che tien loro nazione» (1881: 378). Quando Pirandello scrive «borgo marinaro» è da intendersi allora il Borgo Vecchio, Borgo S. Pietro e/o la Kalsa: ai ‘pescatori’ di questi quartieri era infatti riservato il diritto di portare la vara (cfr. Giallombardo 1998: 64; e Pitrè 1969: 78-79).
Lo Scrittore, in una prolessi della diegèsi del capitolo IX, descrive l’iconografia dei Santi palermitani e ne sottolinea la valenza di guaritori assegnatagli dalla credenza popolare:
«– Qua, – diceva, – dentro la busta, sotto il guanciale: ti guariranno: sono benedette. | E mostrandole i due santi patroni del paese, San Cosimo e San Damiano, con le tuniche fino ai piedi, la corona in capo e le palme del martirio in mano; i due santi miracolosi, di cui presto sarebbe ricorsa la festa popolare, e ai quali ella aveva promesso un’offerta per la guarigione di Marta: | – Questi, – soggiungeva, – valgono più del tuo medico»
L’Agrigentino combina, nel rito descritto nell’Esclusa, aspetti delle credenze e delle pratiche relativi alla festa di San Calogero di Agrigento e a quella di San Cosimo e Damiano di Palermo. Ne ha avuto esperienza diretta? Ne ha letto da qualche relazione?
Possiamo rispondere, oggi. Lo si sarebbe potuto fare anche ieri con una ricerca poco più attenta. Basta leggere Pitrè.
Il testo pirandelliano dipende inequivocabilmente dall’articolo di Pitrè sulla festa di San Cosma e Damiano – del 27 settembre 1891, quando per l’ultima volta si ripeté l’evento –, pubblicato sul Giornale di Sicilia del 5-6 ottobre 1894, e poi nel 1900 nel volume Feste patronali in Sicilia.
Confrontiamo:
Pitrè («Giornale di Sicilia», 5-6 ottobre 1894) |
Pirandello (L’Esclusa, 1901) |
uniformi d’aspetto, di costume, di atteggiamento, con tuniche fino ai piedi, corone al capo e palme di martirio in mano |
quasi identiche nell’atteggiamento, con le tuniche fino ai piedi e una palma in mano con le tuniche fino ai piedi, la corona in capo e le palme del martirio in mano |
sotto un arco a destra, tra due colonne, su tavoli apparecchiati a posta, si vengono ammassando gli ex-voto, compimenti di promesse fatte durante l’anno per grazie ricevute. E tu vedi di continuo gremito quel posto di gambe, braccia, teste e intieri corpi in cera, di miracoli dipinti su latta, di grucce, di lunghe e grosse torce [...] corrisposte dai delegati a riceverle con |
in fondo, sotto un arco della navata, a sinistra tra due colonne, attorno a un’ampio tavolo, stava in gran faccende la Commissione dei festajoli, che ricevevano dai divoti il compimento delle promesse: tabelle votive in cui era rappresentato rozzamente il miracolo ottenuto nei più disparati e strani accidenti, torce, paramenti d’altare, gambe braccia, mammelle, piedi e mani di cera |
dei due fratelli martiri il popolo fa un solo personaggio |
di cui il popolo faceva un santo solo in due persone |
con le loro baracche molto primitive, improvvisate, con tre grandi lenzuola da letto; non solo per gli spacciatori di giocattoli bambineschi in legno, in creta in latta, in piombo: ma anche e più per i nuovi e bei frutti |
S’erano improvvisate tutt’intorno baracche con grandi lenzuola: vi si vendevano giocattoli, frutta secche e dolciumi |
gente che s’accalca innanzi la chiesa facendo a gomitate per entrare: mendicanti, uomini e donne, ciechi, cionchi più o meno dinoccolati, che ti ripetono malinconicamente all’orecchio |
la cantilena lamentosa opprimente d’una turba di mendicanti sugli scalini innanzi al portone della chiesa, dove la gente accalcata faceva a gomitate per entrare |
Un ciocchio di popolani discute del protettorato di essi Santi sopra i pescatori [...] che ne trova la ragione nel primo martirio sostenuto da Cosimo e Damiano: lo annegamento in mare |
A loro, a gli abitanti della borgata era per antica tradizione serbato l’onore di portare in trionfo per le vie della città il fèrcolo dei due santi Patroni, che appunto nel mare avevano sofferto il loro primo martirio, e su i marinaj perciò facevano valere più specialmente la loro protezione |
Il costume è semplicissimo: camicia e mutande candidissime fino sopra ai piedi, che sono ignudi, fascia rossa alla vita, fazzoletto giallo legato al capo alla prucitana |
Vestiti di bianco, in camicia e mutande fin sopra i piedi scalzi, una fascia rossa alla vita, un fazzoletto giallo legato intorno al capo |
E poiché tutti avevano fretta di guarire, fu necessario condurre le statue a tempesta correndo dappertutto. E questo è il bello della processione, perché senza la corsa non sarebbe festa di S. Cosimo. Il brio nasce appunto dalla corsa |
Si sapeva che i due santi procedevano per le vie quasi di corsa, a tempesta: erano i Santi della salute, i salvatori del paese nelle epidemie del colera, e dovevan correre perciò di qua e di là, continuamente. Quella corsa era tradizionale: senza la cora la festa avrebbe perduto tutto il suo brio e il suo carattere |
Se la filiazione fosse un’impressione dovuta al fatto che Pirandello e Pitrè descrivono evidentemente un comune, rigido modello? Se l’identità dei vocaboli fosse casuale? Superiamo gli ultimi dubbi con un solo esempio. La descrizione iconografica, pur identica, potrebbe sembrare l’elemento più fragile, considerato che il Demologo e lo Scrittore raffigurano lo stesso fercolo, a voler stabilire un contatto fra i due testi; ma le cose stanno esattamente all’opposto. Rileggiamo il primo punto della tabella. Pirandello, in questo passaggio, non sta descrivendo ciò che lui potrebbe aver visto. Sta raccontando sicuramente ciò che Pitrè ha descritto. Infatti, i tratti rilevati: non sono da riferire in quell’ordine; non sono quelli da segnalare; anzi, non sono quelli. Stiamo dicendo che la descrizione non segue un ordine naturale; che le tuniche fino ai piedi sono certamente meno significative delle scatole medicinali tenute nella mano sinistra; che la palma e la scatola, di cui Pitrè scrive e quindi Pirandello, sono tali per loro e per il popolo, ma nell’iconografia ufficiale sono penna e calamaio.
Ancora una sorpresa riserva la lettura di Pitrè. Per quel che attiene alla ripresa della Festa di San Calogero. Il fatto è che Pirandello, pur essendo stato con ogni probabilità testimone diretto dell’evento, ebbe innanzi la descrizione della Festa fatta da Pitrè nel 1896 sul Giornale di Sicilia: «la statua è pesantissima, perché dalla cintola in su è tutta di ferro e sulla bara solidissima fortemente inferriata per poter resistere alle scosse che riceve nel disordinato bestiale trasporto»; e Pirandello, nell’edizione del 1901: «il fèrcolo, enorme, massiccio, ferrato, per poter resistere alle scosse del disordinato, bestiale trasporto. Sul fèrcolo, le statue dei due santi dalle teste di ferro». A parte la somiglianza iniziale che diviene alla fine identità testuale – che nell’edizione del 1927, forse accorgendosene, egli corresse in «disordinata bestiale processione» –, in termini filologici siamo davanti a un errore guida congiuntivo i due testi. Salvatore La Rocca – uno studioso locale del tempo –, infatti, in Origine del culto di S. Calogero in Girgenti, non fa cenno a un caso simile – cioè alle teste di ferro – (cfr. 1906: 16-17), che sarebbe davvero singolare. De Gregorio, nel suo studio, lo esclude tassativamente, definendolo una diceria popolare. Anche ammettendo che lo stesso Pirandello riprese una voce di popolo, certamente il disegno del ferreo fercolo e dell’uso devozionale ricorda un po’ troppo da vicino l’espressione di Pitrè.
Possiamo ora condurre osservazioni di ordine filologico, antropologico e critico letterario. Per quanto attiene alla filologia dell’Esclusa, nella dedicatoria a Luigi Capuana, premessa all’edizione in volume del 1908 e datata dicembre 1907, l’Agrigentino pone la scrittura del romanzo nel 1893: «Lei conosce le vicende di questo mio romanzo, e sa che con esso per la prima volta (ora son quattordici anni) io mi provai nell’arte narrativa».
Gli studiosi hanno inteso questa dichiarazione nel senso della corrispondenza del Marta Ajala, la prima stesura del romanzo (1893), con la sua prima edizione: L’esclusa (1901). Ma Pirandello – lo abbiamo letto – non dice che la prima e l’ultima stesura sono eguali. Mentirebbe; a beneficio postumo di quelli.
Noi ora sappiamo che Pirandello, mentre rivedeva L’Esclusa, lesse, sul Giornale di Sicilia, certamente l’articolo di Pitrè del 1894 sui santi Cosma e Damiano, e probabilmente quello su San Calogero del 1896. O li lesse in volume, insieme pubblicati da Pitrè nel 1900; sicché l’ultima revisione dell’Esclusa, con l’inserto di quella festa, risalirebbe a poco prima della pubblicazione su «La Tribuna».
Il Marta Ajala che lesse Capuana non era uguale alla prima edizione dell’Esclusa; e nello snodo decisivo del romanzo. Cioè quando Marta, escludendosi dal rito di rigenerazione individuale e comunitario, diventa irrimediabilmente l’esclusa dalla comunità in quanto accusata di aver tradito il marito, e costretta a lasciare il paese. Possibilmente nel Marta Ajala non c’era la festa; molto probabilmente non c’era questa festa, sintesi di due riti; sicuramente non era descritta così, cioè attraverso la descrizione fattane da Pitrè.
Dal punto di vista antropologico, risulta evidente che Pirandello aveva compreso il significato che i due riti manifestavano: il mito comune di rigenerazione che i riti di San Calogero e San Cosma inverano.
Lo Scrittore combina elementi della Festa dei santi Cosma e Damiano e di quella di San Calogero senza che nessuna delle due possa dirsi interamente ripresa. Possiamo anche ipotizzare che Pirandello abbia escluso il tratto più caratteristico della festa di San Calogero, l’assalto alla vara, per favorire il riconoscimento della sua festa virtuale, della sua creazione. Come si può spiegare altrimenti il fatto che Pirandello non ne parli?
Pirandello non solo fondeva due riti ma lo dichiarava apertamente. Ciò significa che non era intenzione dell’Agrigentino descrivere una festa ma riprodurre una tipologia cultuale nei suoi tratti e significati essenziali. Resta dubbio, però, che eliminare un elemento come il contatto diretto fra i fedeli e il santo, previsto con ogni probabilità anche nella Festa di San Cosimo, non infici la rappresentazione di una tipologia cultuale.
Ma perché coniugare i due riti? Perché il complesso lavoro di amalgama dei due culti, anziché la più facile riproposizione di uno dei due? Possiamo rispondere in un solo modo. Pirandello, avendo compreso che eventi festivi nominalmente distinti esprimevano gli stessi significati, decise di significarlo. Compì l’impresa complessa di fusione di due culti per determinare una significazione extratestuale, di qualità antropologica; vale a dire che il culto della fertilità, nei riti di San Calogero e dei santi Cosma e Damiano manifestato sotto la specificazione della salute, è il fondo ideologico comune ai due riti estivi di morte-rinascita; ma più in generale, come scrive Antonino Buttitta, che «l’impianto ideologico profondo delle feste è sempre lo stesso ed è diretto a sussumere il discontinuo naturale e sociale in un continuo cosmico omogeneo e unitario che annualmente si rifonda attraverso la rifondazione del tempo» (1997: 7-8).
Dal punto di vista critico letterario, come già su accennato, rileviamo che Pirandello usa il rito di rigenerazione da lui creato per significare nel testo la mancata rigenerazione di Marta. Nella diegèsi viene rappresentato un rito di rigenerazione individuale e collettiva per segnare l’esclusione di Marta dal corpo sociale poiché non vi aderisce. Il rito è la fondazione di un tempo nuovo, reso possibile dalla credenza nel mito, una fede che a Marta manca. Ella si nega al sacro, al mistero che rinnova, non accettando ciò che non comprende. Ciò le impedisce di partecipare del tempo circolare del sacro, del senso della festa: di rigenerarsi, di ricaricare l’orologio della sua vita interiore e in società. Non può rifare se stessa e rideterminare la possibilità di un nuovo ciclo esistenziale; essendosi costretta in un tempo lineare in cui ogni atto, ogni dato sono irreversibili. È la pirandelliana prigionia della Forma, propria di una cultura borghese positivista, diversamente da quanto avviene in ambito popolare (cfr. A. e E. Buttitta, 2018: 157-210).
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
[*] Il testo è parzialmente tratto e liberamente rielaborato dal volume edito da Sellerio, Antropologia e letteratura, di Antonino Buttitta e Emanuele Buttitta (2018).
Riferimenti bibliografici
A. Buttitta, Editoriale. in “Nuove Effemeridi”, X, 39, 1997
A. e E. Buttitta, Antropologia e letteratura, Sellerio Palermo, 2018
D. De Gregorio, San Calogero. Studio sul santo e il suo culto, Santuario di S. Calogero, Agrigento, 1977
F. Giallombardo, Oblazioni virili e gemelli diversi. Un paradigma della molteplicità sacrale, in “Archivio Antropologico Mediterraneo”, I, 0, 1998: 61-92
S. La Rocca, Origine del culto di S. Calogero in Girgenti, in “Il Cittadino”, XV, Agrigento, 1906
E. Lauretta, Luigi Pirandello, Mursia Milano,1980
L. Pirandello, L’esclusa, in Tutti i romanzi, I, Mondadori Milano, 1973
G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Pedone-Lauriel Palermo, 1881
G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Forni Bologna, 1969
L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, in Opere 1971-1983, Bompiani Milano, 2001
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Emanuele Buttitta, dottore di ricerca in Letteratura italiana e Antropologia, ha insegnato Etnografia presso l’Università degli Studi di Palermo dal 2006 al 2009. Attualmente è docente di Lettere negli istituti d’istruzione secondaria di secondo grado. Fra le pubblicazioni di italianistica, si segnalano: Gli scrittori siciliani e le “donne”, «Archivio Antropologico Mediterraneo» (2004); Festa religiosa e scrittura letteraria in Sicilia tra ’800 e ’900, «Archivio delle tradizioni popolari siciliane» (2005); Narrativa siciliana e cultura popolare. Mito e rito, Facoltà di Lettere e Filosofia di Sassari (2005); E. Montale. “Non recidere, forbice, quel volto”, in AA.VV., Le parole dei giorni (2005); Pirandello e “il figlio cambiato”, in E. Guggino, Fate, sibille e altre strane donne (2006); Lo storno e l’Angelo Centuno, «Archivio Antropologico Mediterraneo» (2008); G. A. Borgese e il suo “vero luogo nativo” (2016); Antropologia e letteratura, con A. Buttitta (Sellerio 2018).
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