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L’inquinamento dell’antimafia. Dialogo con Umberto Santino

copertina2di Salvatore Palidda

Una breve storia dei fatti. Prima ha cominciato il presidente della Camera di commercio, Roberto Helg, in prima fila nelle iniziative antimafia, che ha chiesto il pizzo a un pasticciere che chiedeva il rinnovo dell’uso di uno spazio all’aeroporto di Palermo. Il pasticciere gli ha teso una trappola, facendolo arrestare proprio mentre gli consegnava la busta con i soldi. Poi c’è stato Antonello Montante, vicepresidente nazionale della Confindustria, con delega al tema della legalità, che aveva avuto in passato rapporti con mafiosi ma si era “riciclato” con proclami antimafia finché è stato incriminato e condannato per associazione a delinquere e corruzione.

Al palazzo di giustizia di Palermo c’è stata una magistrata, Silvana Saguto, che si occupava dei beni confiscati e nell’assegnazione degli incarichi agli amministratori giudiziari favoriva i suoi amici. Tra i primi a denunciare la Saguto c’è stato Pino Maniaci, fondatore di Telejato, ma poi da un’intercettazione è risultato che facesse passare intimidazioni legate a vicende erotiche personali come attentati mafiosi. Da ultimo, almeno finora, Antonio Nicosia, che si presentava come docente universitario, che avrebbe insegnato Storia della mafia in California, e come collaboratore di una parlamentare entrava nelle carceri, incontrava mafiosi e portava all’esterno informazioni e ordini. La deputata, che dice di non essersi accorta di cos’era e cosa faceva questo personaggio, è stata eletta con Leu (Liberi e eguali) formatasi dopo una scissione, “a sinistra”, con il Pd, ora è passata al partitino di Renzi.

Farei una distinzione: qualche caso è collusione con la mafia, per altri si può parlare di un’utilizzazione dell’antimafia come vetrina, forma di potere e di una politica fondata sull’opportunismo e sull’occupazione del potere. Il post-ideologico in realtà è iper-ideologico, nel senso che ha l’ideologia del potere comunque conseguito.

 A guardar bene, il ruolo della mafia si configura come componente di una classe dominante locale che di fatto agisce come quella dei secoli precedenti, cioè come una sorta di power broker (concetto di Anton Blok); così accetta l’assoggettamento al dominante di turno (dello spazio euromediterraneo) per avere libertà di dominio locale sulla pelle della maggioranza della popolazione e “mangiando e facendo mangiare” i suoi sgherri e servi fedeli, garantendo anche il consenso elettorale al governo, con la solerzia di politici siciliani e meridionali fra i quali spicca il caso esemplare di Crispi. Come scriveva N. Colajanni (1894), il «governo è re della mafia». Le modalità con le quali i “nuovi territori” meridionali vennero retti da politici e funzionari del giovane Regno d’Italia e le pratiche coloniali e imperialiste al tempo in auge nei territori europei d’oltremare erano simili. «La nostra cronaca africana narra cose vergognose. L’insipienza fu pari alla corruzione; questa pari alla crudeltà … E pensare che eravamo andati là per civilizzare i barbari!». Nelle imprese eritrea e poi libica gli atti di spoliazione e sprezzo della popolazione e del territorio adottati dal governo centrale non erano diversi da quelli che, nel sud della penisola, si fondavano sulla stessa base “scientifica”: la scoperta della razza. Come osservava Gramsci: il “blocco sociale” costituitosi all’indomani dell’Unità d’Italia tra industriali del Nord e proprietari terrieri del Sud esigeva perentoriamente di non intaccare il latifondo. Bertacchi scriveva che l’impresa coloniale italiana fu anche una risposta a quel «naufragio di tutti i progetti di colonizzazione interna». E lo storico F. Barbagallo (Mezzogiorno e questione meridionale: 1860-1980, Napoli, Guida 1980) sottolinea che nel Sud la tutela dei diritti dei lavoratori, la libertà di sciopero non erano garantiti perché vigeva la legge del dominio repressivo consostanziale all’integrazione della proprietà terriera nel blocco del potere nazionale. I mafiosi sono indispensabili alle forze di polizia per eliminare il banditismo (che era spesso rivolta contro il dominio feudale) e per far fallire le mobilitazioni dei lavoratori sia infiltrandosi e manipolandole sia eliminandone i leader così come fu fatto anche nel secondo dopoguerra.

1Chiediamo a Umberto Santino, autore del volume La mafia dimenticata, edito da Melampo (2017), la sua opinione su questo fronte dell’antimafia oggi assai criticato e certamente indebolito. Santino ha fondato e dirige il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo. Da decenni é uno dei militanti democratici più impegnati contro la mafia ed i suoi complici. Ha studiato il fenomeno, i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e criminalità.

Perché tanti casi che si ripetono da diversi anni? Cosa c’è di nuovo nel contesto odierno che spiega questo?

L’antimafia per certuni è una moda, dà visibilità, è un mezzo per acquisire reputazione e soldi pubblici per iniziative di antimafia-spettacolo. Come si fa a capire se è antimafia seria o fasulla? Non c’è una ricetta, ma ci possono essere degli “indizi” a cui guardare. Ne ho individuato almeno tre: la vetrina, lo slogan, i soldi. Ci sono personaggi che sgomitano per mettersi in vetrina e andare in prima pagina o alla televisione. E già questo è un segnale emblematico. Buona parte dell’antimafia in circolazione non ha nessuna analisi, la sostituisce con slogan, biascica stereotipi, organizza iniziative effimere e se le fa finanziare con soldi pubblici, ottenuti con metodi personalistici e clientelari. Si può dire che si destreggi tra show e marketing. Il Centro Impastato, pur non avendo rapporti con l’accademia, se non sporadicamente, fa ricerca; interviene nelle scuole, per quello che può opera sul territorio; è autofinanziato, perché la sua proposta di una regolazione dell’erogazione di fondi pubblici per attività culturali e antimafia, fondata su criteri oggettivi, non è stata accolta, e in questo contesto è un alieno…

5Aveva ragione allora Sciascia a parlare di professionisti dell’antimafia?

Ora più che di professionisti dell’antimafia si può parlare di farabutti camuffati da antimafiosi. A suo tempo ho polemizzato con Sciascia, pur riconoscendo che il problema che poneva: la strumentalizzazione dell’antimafia e il rispetto delle regole, era reale. Ma il suo “garantismo” era una sorta di religione che non teneva conto dell’evoluzione del fenomeno mafioso, dei grandi delitti che hanno portato a una legislazione fondata sul doppio binario, per fronteggiare un’emergenza che nel caso della mafia è permanente. Sciascia era un personaggio contraddittorio, definiva se stesso: “contraddisse e si contraddisse”. Un esempio: ha scritto una prefazione entusiasta al libro sulla mafia di Henner Hess, che negava l’esistenza di una mafia strutturata, mentre già negli anni ’50, lo scrittore, considerato il Voltaire siciliano, aveva definito la mafia in primo luogo «un’associazione per delinquere» e ritornerà dopo su quel punto essenziale. Il suo articolo, con un titolo che era redazionale, cadeva in un momento in cui si svolgeva il maxiprocesso ed è stato utilizzato come un paravento dagli “sciasciani” d’occasione e un argomento in più per attaccare i magistrati più impegnati, nel timore che il maxiprocesso fosse solo l’inizio e che il seguito potesse toccare interessi che andavano oltre il quadro criminale. Il “voltare pagina” di cui parlavano atti in preparazione del maxiprocesso, a proposito dei delitti politico-mafiosi. Successivamente, per quanto riguarda Borsellino, Sciascia ha dichiarato di essere male informato, ma aveva ragione nel sostenere che se si doveva preferire la competenza all’anzianità, bisognava codificarlo con una nuova regola. Non si è fatto e Falcone è stato bocciato come consigliere istruttore e gli si è preferito un altro che non aveva le sue competenze, ma era più anziano…

4Cosa è cambiato rispetto alla mafia nota anni addietro?

La strumentalizzazione dell’antimafia non è un fatto nuovo. Provenzano consigliava a un giovanotto in politica di organizzare iniziative antimafia e prima di lui ci sono stati capimafia, come Calogero Vizzini, che formavano cooperative o cercavano di inserirsi in quelle organizzate dai contadini. Al tempo dei Fasci siciliani ce ne sono stati due organizzati da mafiosi che cercavano di cavalcare il movimento popolare. Dopo i colpi ricevuti con il maxiprocesso e gli altri processi, effetti boomerang della stagione dei grandi delitti e delle stragi, nei primi anni Ottanta e Novanta, Cosa nostra è stata in crisi, almeno per tre aspetti: l’organizzazione, le attività, il rapporto con la politica. Tutti i capi, eccetto Matteo Messina Denaro, sono in carcere con pesanti condanne ed è difficile sostituirli e i nuovi capi non hanno nessuna voglia di finire al carcere duro. Recentemente sono stati arrestati i capi della nuova cupola, l’organo direttivo di Cosa nostra, e subito dopo l’arresto hanno cominciato a collaborare con la giustizia. C’è un processo di laicizzazione, per cui alla religione dell’omertà si è sostituito il calcolo costi-benefici, per evitare l’ergastolo ostativo.

Riguardo alle attività, il ruolo della mafia siciliana nel traffico di droghe non è più egemonico come ai tempi di Badalamenti, condannato a 45 anni di carcere nel processo alla Pizza Connection conclusosi nel 1987. Ora conta molto di più la ’ndrangheta. Con la crisi della spesa pubblica gli appalti di opere pubbliche scarseggiano e a livello politico non c’è più un partito con la Democrazia cristiana, al potere per mezzo secolo. Dopo c’è stato il rapporto con Berlusconi, ora si attende il nuovo vincitore. Intanto, la mafia gioca ad avere rapporti con chi ci sta. Anche la mafia ha l’ideologia e la cultura del potere. Ma non sono più i tempi dell’anticomunismo, con la violenza mafiosa risorsa fondamentale per contenere e reprimere le lotte popolari, contrastare anche con l’omicidio sindacalisti e politici che mettevano al primo posto nell’agenda la lotta alla mafia come lotta per la democrazia e per il soddisfacimento dei bisogni.

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Felicia e Peppino Impastato

Il rapporto tra mafia e capitalismo è complesso e non li identificherei tout court. La mafia è l’uso della violenza privata legittimata dalla impunità, nei Paesi a capitalismo maturo la violenza è stata monopolizzata dallo Stato. Se si guarda al caso siciliano, o italiano, lo Stato non è riuscito o non ha voluto imporre il monopolio della forza e si è realizzata una situazione di sovranità condivisa. In un Paese come gli Stati Uniti il crimine si è arricchito e riorganizzato con la produzione e la distribuzione dei beni illegali, prima l’alcol poi le droghe. Nella fase attuale la globalizzazione è criminogena per due aspetti fondamentali: l’aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, la finanziarizzazione dell’economia. I gruppi di tipo mafioso (a mio avviso sono tali quelli che coniugano struttura organizzativa e sistema relazionale, con rapporti con settori delle istituzioni) prosperano sia nelle periferie, dove le attività illegali procurano reddito per strati che non hanno altre fonti di sussistenza, che nei centri del finanzcapitalismo, come lo chiamava Luciano Gallino, uno degli studiosi più lucidi degli ultimi decenni, che non è solo un fenomeno economico ma è potere di per sé. L’economia si è fatta politica, il mercato è il suo santuario, dominato dalle grandi multinazionali e dalle istituzioni che le rappresentano, la competizione con tutti i mezzi il suo primo e unico “comandamento”. Il sovranismo, i muri e i filospinati contro i migranti, fenomeno sistemico e non emergenziale, sono l’aspetto più visibile di un’uscita a destra dagli effetti del liberismo globalizzato, che ha ridotto drasticamente l’economia produttiva delocalizzandola verso i territori dove la forza lavoro ha costi minori e non è tutelata. Questa strategia ha chiari riflessi fascisti e utilizza forme schiavistiche di sfruttamento. In questo contesto proliferano le mafie, vince il modello mafioso siciliano, anche se la mafia siciliana non gode di buona salute.

6Non pensi che la/le mafie si configurano ancor più oggi come power brokers nel senso di un ruolo di classi dominanti locali con anche un agire transnazionale funzionale al baratto fra dominio globale e dominio locale e che questo trovi particolare utilità nell’attuale contesto neocoloniale? Per esempio, il caso dei bengalesi costretti a drogarsi per meglio essere schiavizzati in cui appare una sorta di caporalato transnazionale che organizza sia il reclutamento nella zona d’origine per l’emigrazione e l’immigrazione, sia anche l’inquadramento disciplinare e la narcotizzazione dei migranti per farli resistere a ritmi di lavoro massacranti e infine per imporre loro paghe di fame e a forfait alla fine del cantiere (vedi inchiesta bengalesi in Fincantieri a Porto Marghera e prima caso Sikh a Latina e altri ancora).  Non ti pare che sia importante sottolineare questa caratteristica neocoloniale anche nel ruolo delle mafie di oggi?

Nella mia analisi parlo della mafia come soggetto politico, utilizzando categorie weberiane. E indico la dimensione politica come la core activity della mafia, ma questo non può significare ignorare altri aspetti del mio “paradigma della complessità”. Il modello mafioso risulta dall’interazione di vari aspetti: accumulazione, politica, codice culturale, consenso sociale. La mafia, parlo di quella storica siciliana, ha fatto parte delle classi dominanti, prima come sostegno e poi diventando soggetto di primo piano. E questo discorso vale anche per altre organizzazioni più o meno riportabili al modello mafioso. In parecchi casi si è parlato di narcocrazie e di Stati-mafia, nel senso che c’è l’identificazione tra crimine e potere. Quando richiamo il finanzcapitalismo di Gallino, dentro c’è pure l’accumulazione illegale, con un ruolo certamente non marginale. Parlavo di “mafia finanziaria” già negli anni ’80, ma la dimensione finanziaria, legata alle attività transnazionali, convive con pratiche storiche tradizionali, come l’estorsione e con rituali arcaici come il giuramento di sangue e l’uso di cerimoniali religiosi. Nel caso della ’ndrangheta assistiamo a convivenze che sembrano paradossali e invece sono funzionali: le ’ndrine e le locali canadesi e australiane debbono avere l’autorizzazione di patriarchi che vivono in paesini arroccati sull’Aspromonte e l’uso del web si sposa con il mito, risibile, di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Dico questo per sottolineare che una delle ragioni del persistere delle mafie è questo mix di tradizione e innovazione, mentre spesso si parla di “novità” e di “prime volte”.

Non so se la realtà attuale possa definirsi “neocoloniale”. Mi pare un termine che non rende appieno il contesto in cui viviamo. I casi di cui parli dimostrano la funzionalità di forme schiavistiche del lavoro ai processi di accumulazione attuali. I bengalesi narcotizzati richiamano i minatori di Potosí del XVII secolo, masticatori di foglie di coca per resistere a una fatica disumana. Un aggettivo attualissimo è proprio questo: “disumano”. Vale per le migliaia di migranti morti in mare, per i braccianti schiavi dei caporali, per le donne schiave del sesso, per i gesti e i linguaggi che inneggiano al fascio-nazismo, che sembrava lontano, definitivamente archiviato, e invece oggi è riciclato nella società post-moderna.

Certo che è importante sottolineare questo aspetto della mercificazione della forza lavoro, per di più aggravata dai processi di emarginazione che riguardano gran parte della popolazione mondiale. Il modello mafioso ha successo perché va bene sia al centro, sempre più ristretto e sempre più monopolista del potere, che alle periferie, sempre più estese e fuori mercato sul piano dell’economia legale. Quello che hai scritto sulle migrazioni come “fenomeno specchio” della società, vale anche per le mafie.

7Cosa pensi del pronunciamento della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis e dell’ergastolo ostativo? E cosa pensi della mobilitazione dei giustizialisti che chiedono di ristabilire pene ultra dure per i condannati per mafia?

L’ergastolo ostativo è previsto per i mafiosi stragisti che non collaborano, perché non riconoscono il monopolio statale della forza. Hanno un loro ordinamento che prevede l’omicidio come pena di morte ed è estraneo e alternativo a quello statale. Si pone un problema di fondo: nei nostri ordinamenti a decidere se un determinato comportamento è un reato da punire con una sanzione è lo Stato, nelle sue varie incarnazioni. A questo monopolio statale i mafiosi oppongono un monopolio privato. È una situazione di conflitto permanente, anche in forma esplicita di guerra. Non vedo altro modo d’uscita da questo stato di guerra, aperta o sotterranea, se non la collaborazione, cioè la rinuncia al monopolio privato della violenza. Ci sono situazioni, come nel nostro Paese, in cui, come ricordavo prima, i due ordinamenti colludono, e si ha una “sovranità condivisa”, perché la violenza privata, legittimata dall’impunità, è funzionale al mantenimento di un determinato assetto di potere, che costituisce la struttura dello “Stato reale”. E qui occorrerebbe non solo il pentitismo mafioso ma pure quello istituzionale. Che io sappia, finora, c’è stato un solo caso di Stato pentito: la relazione sul depistaggio delle indagini per l’assassinio di Peppino Impastato, in cui si dice che a depistare sono stati rappresentanti delle istituzioni. Ci vorrebbe qualcosa del genere per le “stragi di Stato” da Portella della Ginestra alla stazione di Bologna. Con la parola “giustizialismo”, si rischia di fare di ogni erba un fascio. Siamo stati giustizialisti quando chiedevamo di fare giustizia per l’assassinio di Peppino Impastato, che rischiava di rimanere impunito? Lo siamo quando chiediamo di fare piena giustizia per i delitti e le stragi politico-mafiosi, finora in gran parte impuniti? Limiterei l’uso del termine a personaggi e politiche che guardano solo agli effetti e non alle cause. E qui posso richiamare tutto quello che ho scritto sulla società mafiogena e sulla criminogenicità della globalizzazione, cioè sui contesti che producono e riproducono le mafie. Bisogna sapere che il diritto penale non basta, ma fino ad oggi è una dimensione imprescindibile. Si parla di “diritto penale minimo” e sono dell’avviso che bisognerebbe andare in questa direzione, limitandolo ai comportamenti più gravi, come quelli che ledono il rispetto per la vita. Conosco quello che scrive Antigone e in linea di principio lo condivido. In ogni caso, l’ergastolo, che già di per sé è un orrore, non può significare orrori aggiuntivi, che significano infierire sui detenuti. Lo Stato deve dimostrare di non essere la stessa cosa della mafia.

 Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020

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Salvatore Palidda, professore associato di Sociologia presso l’Università degli Studi di Genova, ha condotto ricerche su military and police forces affairs e sulle migrazioni per più di tredici anni presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e il Cnrs francese e poi in Italia dal 1993. E’ stato esperti presso l’Ocse, ricercatore per la Fondation pour les Études de Défense Nationale, per l’Institut des Hautes Études pour la Sécurité Intérieure, per il Forum Europeo per la Sicurezza Urbana, è autore di oltre 70 pubblicazioni in lingue straniere e oltre 80 in italiano. Tra le altre si segnalano: Polizia postmoderna (2000); Mobilità umane (2008); Sociologia e antisociologia (2016) e Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo (2018).

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