Non di rado il mondo accademico nutre diffidenza per il giornalismo. Anche gli storici “professionisti” temono che la carta stampata, nel raccontare o commentare fatti strettamente correlati all’attualità, pecchi di estemporaneità che mal si concilia con approfondimenti e analisi meditate. Diversa fu la posizione di Virgilio Titone, per lunghi decenni titolare della cattedra di Storia moderna all’Università di Palermo, che si accostò al giornalismo, sia da studioso che da collaboratore di diverse testate, con partecipe interesse e senza pregiudizi.
La pubblicistica e il giornalismo erano per Titone materiali di prim’ordine da cui attingere per la ricostruzione dei fatti della storia. Inoltre per lo storico di Castelvetrano – uno dei più penetranti e originali, almeno in Sicilia, del XX secolo – «quanto di meglio si scrive oggi in Italia, ci è dato di leggerlo nei nostri giornali, né forse alcun Paese nel mondo potrebbe vantare un giornalismo così acuto, attento, spregiudicato nel cogliere tutti gli aspetti del nostro presente, dall’economia alle manifestazioni della cultura, dell’arte, del costume, della religione». D’altra parte Titone – un autentico “grafomane” dalla produzione sterminata – frequentò con assiduità quotidiani, periodici, riviste di rilievo, offrendovi i suoi qualificati contributi e instaurò rapporti di solida amicizia con i più prestigiosi giornalisti del suo tempo: Mario Missiroli, Augusto Guerriero, Panfilo Gentile, Indro Montanelli.
Titone collaborò a lungo con il più titolato quotidiano italiano, il «Corriere della Sera», sotto la direzione di Missiroli prima, di Russo dopo, infine di Spadolini. I suoi articoli comparivano naturalmente nella Terza pagina, che per Titone costituì nella storia del giornalismo un tratto distintivo del nostro Paese grazie soprattutto agli elzeviri, esempi di bella scrittura capaci di coniugare eleganza e chiarezza, letteratura e quotidianità. I suoi “pezzi” potevano definirsi elzeviri nel senso nuovo che quell’espressione andava assumendo: non più brani di “prosa d’arte” ma di approfondimento culturale. I suoi elzeviri, che come nella tradizione spesso erano articoli di apertura della Terza pagina, partendo da avvenimenti della cronaca o da fatti di costume sviluppavano considerazioni che riflettevano il senso della storia così come si manifestava.
L’attività di giornalista era per Titone complementare a quella dello storico. Titone infatti, che fu anche un acuto filosofo della storia, considerò elementi fondamentali della storia le vicende dell’economia, della morale, della cultura, della religione e dei costumi (compresi quelli sessuali), che si svelavano nella cronaca e che dalla cronaca andavano colte.
Tra il ’63 e il ’67, quando il giornale di via Solferino era diretto da Alfio Russo, a Titone fu affidata la rubrica Dizionario filosofico. Il titolo della rubrica, probabilmente suggerito da Titone stesso, rifletteva felicemente lo spirito volteriano dei suoi articoli e il loro contenuto. Il giornalista Titone traeva spunto da fatti di cronaca, anche minimali, per formulare giudizi, originali e controcorrente, sulla società contemporanea. L’argomentazione era sempre ricca e articolata, sorretta da riferimenti storici, filosofici, letterari, e la scrittura chiara. La vivacità, l’arguzia e la vis polemica degli scritti giustificavano il richiamo, di certo non gratuito, a Voltaire. D’altra parte, più tardi, nella metà degli anni Settanta, Titone pubblicherà il Dizionario delle idee comuni, in cui verranno rielaborati alcuni temi presenti in tali articoli.
In un articolo pubblicato nel ’63, intitolato La virtù e la rivoluzione, Titone prendeva di mira l’ideologia, che pretende la verità assoluta e definitiva e la cui forma politica è logicamente autoritaria. L’ideologia, secondo Titone, riassume il pensiero collettivo e lo riduce ai minimi termini secondo stereotipi preconfezionati e approssimativi. In un altro del ’65, L’oscuro e il volgare, Titone si soffermava sulle avanguardie nell’arte e sugli astrattismi, che a suo vedere dissimulavano attraverso pretenziose ricerche sensazionalistiche il vuoto interiore. Dietro l’oscurità del linguaggio dell’arte per Titone si celava, in una sorta di neo barocchismo, la volgarità di chi non ha altro fine che quello di stupire senza possedere alcuna sensibilità estetica. Il cerebralismo, peraltro, in un fedele allievo crociano qual era Titone, era estraneo all’arte e alla poesia, manifestazioni pure dello spirito e dell’anima. Nello stesso articolo Titone polemizzava con i cosiddetti “intellettuali”, «quelli che vincono i premi letterari, firmano i manifesti per la pace, partecipano ai “dibattiti” e in vari modi riescono a far parlare di sé». Nel Dizionario delle idee comuni alla voce “Intellettuale” si legge, nelle prime righe, questa definizione: «Colui che, dotato di una generica cultura, ma priva di ogni specifica competenza ed esperienza, crede di poter discutere di tutto sovrapponendo sulla realtà le sue esibizionistiche e arbitrarie formule generali specie nel campo della morale, della religione, dei rapporti sociali, della politica economica, dell’arte e delle attività artistiche».
Le riflessioni di Titone affidate ad articoli di giornali toccavano temi vari e particolari. Quale, ad esempio, quello del rapporto tra la moda e la storia, analizzato in un “pezzo” del «Corriere» del 6 settembre 1965, in cui si lamenta come nel nostro tempo l’abito abbia perso ogni significato. Per Titone l’abito è un’affermazione del posto che ci è stato dato nella società e il livellamento nell’abbigliamento tra vecchi e giovani è un indice della disgregazione. Il tema ritorna in un articolo del «Corriere» del 24 giugno 1969 dal titolo eloquente: I turpi censori della minigonna. Titone contrastava ogni forma di moralismo e nella moda della minigonna intravedeva «un notevole contributo alla diffusione di un costume più civile e umano». Secondo Titone la libertà dei costumi sessuali costituiva una conquista di civiltà di grande valore, frutto di una rivoluzione sociale verificatasi senza alcun spargimento di sangue.
Un altro tema affrontato sulle colonne del «Corriere» è quello della riforma universitaria. In un articolo del 14 dicembre 1968, La fabbrica dei professori, Titone proponeva l’abolizione dei titoli di studio: una provocazione allora, oggi una questione sollevata da più parti. In uno successivo del 27 giugno 1969, Sulla riforma universitaria, Titone, che pure era un cattedratico apprezzato e un punto di riferimento dell’Ateneo palermitano, non faceva sconti al mondo universitario e ai canali per accedervi finalizzati a preservare e perpetuare una “casta”. Come antidoto all’autoreferenzialità delle Università Titone suggeriva che le commissioni di valutazione dell’idoneità degli aspiranti docenti fossero composte non dai soli “baroni”, ma da scrittori, giornalisti, artisti, industriali.
Negli ultimi anni della direzione di Spadolini, la collaborazione di Titone con il «Corriere della Sera» divenne più sporadica. Il 30 ottobre del 1971 un articolo in prima pagina, Il contagioso bisogno del castigo e dell’immediata vendetta, segnava l’inizio della collaborazione di Titone con «Il Tempo» di Roma. In quell’articolo Titone commentava le vicende, allora in primo piano e al centro dell’opinione e dell’emozione pubblica, delle bambine di Marsala scomparse e del “mostro” accusato di averle uccise. Titone metteva in guardia dai pericoli di un accertamento dei fatti superficiale contagiato dall’ansia di dare in pasto alla gente un colpevole ad ogni costo, esaudendo un bisogno tribale di vendetta. Inoltre osservava come quel fatto avesse destato un’encomiabile cooperazione da parte di tanti gruppi di volontari con le forze dell’ordine per la ricerca del colpevole; ciò per Titone esprimeva, oltre lo sdegno per quella deplorevole vicenda, il moto di ribellione della collettività nei confronti di una criminalità sempre più dilagante.
D’altra parte Titone fu sempre molto sensibile al tema del contrasto alla criminalità, non solo di quella comune ma anche di quella mafiosa. Fu uno dei primi a studiare il fenomeno mafioso e a scriverne, rimarcando la viltà delle “coppole storte” con la chiarezza graffiante che gli era propria, sia in monografie che in articoli di giornali. In uno, pubblicato il 17 marzo 1974 ne «Lo specchio», un settimanale allora assai letto, Titone lamentava che i confinati per mafia venivano assegnati a località prive di stazioni di carabinieri, alle porte dei grandi agglomerati urbani del Nord, dove si muovevano indisturbati. Titone avvertiva: «Le zone industriali diventano riserva di caccia per i mafiosi» e la mafia è un male contagioso. Sciascia dopo avrebbe detto che «la palma va a Nord», evidenziando con una metafora l’espandersi della mafia nel Settentrione.
Titone collaborò, oltre che con quotidiani, con settimanali e riviste di prestigio. Nel settimanale della Mondadori «Epoca», spesso, veniva chiamato a rispondere a domande dei lettori per la rubrica Italia domanda. Così, ad esempio, nel dicembre del 1965, Titone rispondeva alla domanda se i meridionali fossero più intelligenti dei settentrionali, negando quello che riteneva essere un luogo comune generato da un meccanismo riduttivo del pensiero che fa leva sulla suggestione del contrario; meccanismo semplicistico per il quale una donna bella è necessariamente stupida e il povero perché tale più arguto del ricco. E, nel 1966, rispondeva alla domanda se i climi potessero determinare i caratteri dei popoli osservando che «se per i singoli popoli può parlarsi di carattere, si deve pensare che anche il clima, nel senso indicato, ha contribuito a formarlo».
Tra le riviste di maggior pregio a cui Titone collaborò vi furono «Il Mondo» di Pannunzio e «Nuova Antologia». Piace segnalare un saggio di Titone apparso su «Nuova Antologia», nel 1962, nel quale si tessono le lodi di uno scrittore popolarissimo, ma proprio perché popolarissimo snobbato dalla critica: Georges Simenon. Titone, un umanista dai molteplici interessi, con molti decenni d’anticipo, colse la grandezza di Simenon nella capacità di ritrarre nei suoi romanzi “polizieschi” e “noir” l’umanità variegata della provincia francese. Oggi l’Adelphi, forse la più raffinata casa editrice italiana, va pubblicando tutti i romanzi di Simenon, un autore prolifico come pochi e, malgrado ciò, tra i maggiori del Novecento europeo.
A Titone, che fece della scrittura una delle ragioni della sua esistenza solitaria (si alzava alle tre del mattino e, nel silenzio, s’immergeva nel suo mondo di carta in cui si riversava la sua personalissima visione della realtà della storia e della cronaca), non bastavano i più prestigiosi quotidiani e periodici nazionali: fondò, a Palermo, le riviste «L’Osservatore» negli anni Cinquanta e «Quaderni reazionari» negli anni Sessanta. Queste riviste le curava da solo con poche ma eccelse collaborazioni, tra di esse, per «L’Osservatore», quella del giovane Spadolini.
I più diffusi quotidiani siciliani si contendevano la firma di Virgilio Titone. Il quotidiano dell’Isola a cui Titone rimase più legato fu il «Giornale di Sicilia». Si può dire che nel giornale della famiglia Ardizzone Titone fu sempre di casa. Talvolta i suoi articoli erano destinati alla prima pagina, specie quando commentavano vicende di politica internazionale, sebbene il taglio fosse sempre “storico” e analitico.
Il 30 gennaio del 1970, il «Giornale di Sicilia» annunziò l’inizio della collaborazione di Virgilio Titone, ospitando in prima pagina un articolo intitolato L’ultimo vittimismo. In realtà, come detto, Titone aveva sempre scritto sul «Giornale di Sicilia», ma in quegli anni aveva privilegiato la collaborazione col «Corriere». Quell’avvio di collaborazione fu accompagnato da un’avvertenza ai lettori: «Le opinioni di questo storico siciliano dalla vena polemica solitamente nascondono l’amarezza sotto toni bruschi, qualche volta sgradevoli. Ma sono sempre stimolanti, sempre disponibili al confronto, sempre sinceramente provocatorie». Il quotidiano, tuttavia, si proponeva di lasciare Virgilio Titone «pienamente libero nei suoi giudizi», anche quando non li avrebbe condivisi: quei giudizi sarebbero serviti, comunque, a scuotere l’indifferenza sulle più cruciali questioni dell’Isola.
Sul più diffuso quotidiano siciliano Titone non fece mancare la sua voce fuori dal coro, controcorrente, aggredendo da par suo i problemi di una terra che amò tanto e dalla quale non si volle mai separare. Ma con la Sicilia e con i siciliani, proprio perché forte era il legame, Titone non fu tenero. Non fu tenero con il vittimismo degli isolani che esageravano in piagnistei e lamentazioni per presunti torti ricevuti dai settentrionali senza averne lo stesso spirito intraprendente; con chi abbandonava la terra fonte di ricchezze per inseguire il mito del posto pubblico; con l’autonomia speciale della Regione che si traduceva in sperpero di denaro pubblico e ingiustificati privilegi. La verve polemica di Titone, che accese diversi e a volte aspri dibattiti sulle pagine del «Giornale di Sicilia», non fu mai fine a se stessa né tantomeno esibizionistica: dietro di essa vi era la sofferta consapevolezza che la Sicilia possedeva delle potenzialità non espresse per varie ragioni storiche e contingenti, non ultima la cattiva amministrazione di un apparato, quale quello della Regione, ridondante e parassitario.
Nel periodo ricompreso tra la metà degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, Titone tenne nella Terza pagina del «Giornale di Sicilia» la rubrica Varie ed eventuali. Fu una rubrica originale e interessantissima, una sorta di diario pubblico dello storico e umanista che, seppure lucidissimo, accentuava con l’avanzare degli anni la sua vena malinconica e la sua non indifferente carica umanitaria. In Varie ed eventuali comparivano articoli di taglio e lunghezza differente. Alcuni ricalcavano lo stile di sempre: dalla lettura di trafiletti di cronaca traevano spunto riflessioni profonde e singolari. Così, ad esempio, in un brano del 9 settembre 1980 in cui Titone distingueva tra “le società del silenzio” e le “società del conversare”: nelle seconde, riscontrate nell’antica Roma o negli Stati Uniti e nell’Europa più evoluta, tutti parlano con tutti aldilà delle differenze di ceto e vi è un’apertura che contribuisce alla civiltà e al progresso; nelle prime vi è chiusura e diffidenza, come accade nei centri in cui più s’avverte la presenza della mafia. Altri articoli erano delle noterelle che trasudavano umanità, a volte dolente. La commiserazione del prossimo emergeva, ad esempio, nel breve brano Centro tumori, del 6 luglio 1978, in cui Titone lamentava, invocandone la sostituzione, la scritta “Centro tumori” nei reparti d’ospedale specializzati, la cui lettura dava consapevolezza ai pazienti del grave male che li affliggeva. Altri articoli, seppure brevissimi, contenevano intuizioni da veggente. In Pertineide, del 24 novembre 1979, Titone intravedeva nella popolarità di Pertini la ribellione della gente alle formule della politica e il tramonto delle ideologie.
La figura e il pensiero di Titone, oggi colpevolmente dimenticati, meritano di essere approfonditi. Anche la scuola dovrebbe riscoprirlo: a parte la profondità e l’originalità dei suoi scritti, compresi quelli giornalistici, Titone è un esempio per i giovani di coraggio e onestà intellettuale: la coerenza alle idee, peraltro troppo spesso travisate, gli hanno costato un isolamento cui sapeva di andare incontro e al quale non si è voluto sottrarre tramite facili vie d’uscita, oggi, in tempi di disinvolti trasformismi, percorse dai più.
In un periodo come il nostro in cui con l’affermarsi di nuovi media la carta stampata accusa uno stato di grave crisi, merita di essere ricordato, anche a beneficio delle nuove generazioni, il giornalismo di un tempo. Perciò non pare superfluo soffermarsi sulle relazioni di Titone con i grandi giornalisti della sua epoca. Con Mario Missiroli, uno degli “storici” direttori del «Corriere della Sera», Titone fu legato da un rapporto di reciproca stima. Titone e Missiroli mantennero sempre la corrispondenza e si inviavano i loro scritti. Con Augusto Guerriero e con Panfilo Gentile egli fu amico sino agli ultimi loro giorni.
Augusto Guerriero si firmava con lo pseudonimo Ricciardetto. Giornalista di grande spessore culturale, fu una delle firme più autorevoli soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche dopo, quando colpito da una malattia che lo rese sordo fu costretto a rimanere a letto alle prese con i suoi studi sulle origini del cristianesimo. Ricciardetto, meridionale nativo di Avellino, fu uno dei maggiori esperti di politica internazionale. Sul settimanale «Epoca» almeno cinque pagine (allora giganti) erano a sua disposizione. Titone e Guerriero si frequentavano e si scrivevano spesso. L’affetto di Titone per Guerriero (affetto ricambiato) è testimoniato dalle tante lettere in cui lo storico siciliano, conoscendo il suo agnosticismo, lo esortava ad avvicinarsi a Dio: «Qualche volta entri in una chiesa. Guardi coloro che pregano… Crede che tutti si ingannino, che si siano ingannate le migliaia di uomini e donne che nel corso dei secoli e delle generazioni succedutesi l’una dopo l’altra hanno pregato su quelle stesse pietre, in quella stessa chiesa?».
Panfilo Gentile fu una figura eccentrica e sui generis ma di notevole acume. Abruzzese, insegnò Filosofia del diritto nelle Università di Napoli e di Bologna, per poi dedicarsi al giornalismo. Il suo pamphlet Democrazie mafiose, seppure dimenticato, è di sconcertante attualità. Scritto nel 1969, sembra ritagliato per i nostri giorni. In esso dimostra come i politici, scelti solitamente tra avvocati senza clienti, medici senza pazienti, professionisti mediocri, attraverso i partiti perseguono interessi estranei alla collettività per mantenere il loro potere con la suggestione della demagogia e con tecniche di persuasione occulta. Titone, malgrado i loro temperamenti diversi, gli fu molto amico. In una lettera, sapendolo sempre in cerca di denaro per la sua vita disordinata, lo invita a collaborare con una rivista torinese avvertendolo «che pagano bene gli articoli».
Con Indro Montanelli, il più popolare giornalista italiano di tutti i tempi (e la popolarità nel giornalismo equivale a bravura), Virgilio Titone fu legato da una sincera amicizia nonostante la differente indole. In una lettera del 20 luglio del 1987 Titone lo ritrasse nella sua duplice personalità: «In te sentivo come due anime: da un lato una grande bontà, che può anche esprimersi nel bisogno di protestare… contro gli oppressori dei più deboli e indifesi o… contro le menzogne convenzionali, la retorica ufficiale, i pregiudizi di qualsiasi genere… Dall’altro la capacità quasi connaturata di cercare il ridicolo negli interlocutori…». In una sua Stanza Montanelli definì Titone «un impasto di genialità e follia».
Nel rispondere nelle colonne del suo «Il Giornale» del 12 luglio 1987 a una lettera di un giovane lettore che, avendo letto il romanzo Le notti della Kalsa di Palermo, rimanendone entusiasta, chiedeva chi fosse Titone, Montanelli affermava: «Potrei scrivere un intero saggio su di lui perché da anni sono suo amico, lo considero uno degli uomini più geniali da me incontrati, e vivo sempre nel rimorso di non aver potuto utilizzare per “Il Giornale” il suo grande talento». D’altra parte, pur rimarcando le sue «intuizioni di una originalità e lucidità stupefacenti» e «il buon nerbo di scrittore con squarci di psicologia e di vita siciliana da reggere il confronto col migliore Verga», Montanelli si giustificava ritenendo il suo talento «non disciplinabile in articoli». In questa nota Montanelli sembra bocciare Titone giornalista. Credo però che Montanelli mentisse inconsapevolmente a se stesso. Il pensiero originalissimo e profondo di Titone sapeva esprimersi anche in articoli, e Montanelli lo sapeva. Tuttavia quando Montanelli, allontanato dal «Corriere» di Ottone, nel ’74 fondò «Il Giornale», confezionò un quotidiano destinato a un target di lettori conservatori in contrapposizione al nuovo corso “progressista” del quotidiano di via Solferino. Era quello un periodo diverso da quello dei nostri giorni in cui, non ancora tramontate le ideologie, il contrasto tra destra, anche moderata e liberale, e sinistra, anche non marxista, era netto. Titone, seppure liberale e vicino agli ambienti “conservatori”, era difficile da “ingabbiare” in un’area ligia alla tradizione. In realtà, per il suo spirito libero e controcorrente, risultava indigesto sia a sinistra che a destra. Si pensi ai suoi articoli sulla minigonna e sulla libertà dei costumi sessuali: i lettori de «Il Giornale» non li avrebbero capiti e sarebbero rimasti spiazzati. E Montanelli, intuendolo, non voleva che i suoi lettori fossero disorientati; quei lettori che per il giornalista di Fucecchio erano sacri e che per nessuna ragione al mondo avrebbe tradito.
Dialoghi Mediterranei, n. 12, marzo 2015
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, ha pubblicato, per le edizioni della Regione, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (Palermo, 2007) e Mobbing: saperne di più per contrastarlo (Palermo, 2007); con Antonio La Spina, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, Milano 2009); I soliloqui del passista (Zona, Arezzo 2009); Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, Trapani 2013); Il bacio delle formiche (LietoColle, Faloppio-Como 2014). Collabora con i quotidiani «La Sicilia», «Sicilia Informazioni» e, saltuariamente, con «La Repubblica» (edizione di Palermo).
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