Storia del vino e, insieme, storia della Sicilia. Non solo, quindi, enologia ed economia (produzione e mercato), o anche memoria del malessere fillosserico di cui ha sofferto il vigneto tra Otto e Novecento. Ma storia degli uomini, che dal vino hanno saputo trarre risorse e splendori di civiltà borghese, nonché solide relazioni nel contesto delle egemonie politiche mediterranee.
Si capisce, dalla lettura del documentato studio di Rosario Lentini (Sicilie del vino nell’800, Palermo University Press 2019)), che la prospettiva scelta dall’autore è, appunto, quella del rapporto virtuoso tra grandi imprenditori del vino e storia di una Sicilia operosa, non certo l’Isola offesa, sequestrata e irredimibile della tradizione letteraria. E Lentini, per la verità, ha già portato, coi suoi studi di storia economica, riscontri oggettivi ex contrario a tali raffigurazioni.
Intanto, la ricostruzione storica della presenza degli imprenditori inglesi rimanda all’afflusso, rilevante, del capitalismo straniero in Sicilia, che aveva investito, sin dalla fine del ’700, nell’industria enologica e in quella zolfifera. Lo stesso Vincenzo Florio si giovò del banchiere Rothschild per le sue intraprese industriali.
Rimuovere le approssimazioni e falsificazioni che hanno sepolto nella memoria paesana la reale natura e storia del settore, era il primo compito da assumere in chiave di metodo storiografico, cioè senza incomodare l’archeologia e la letteratura; e considerare la storia del vino, «per quello che è o è stato in un determinato contesto spazio-temporale». Che è poi la scelta giusta per una ricerca di questo tipo: «L’individuazione dei fatti e dei dati, scrive l’autore, e la delimitazione del campo delle domande che occorre porsi e alle quali non si è ancora data risposta, sembrano diventate un’opzione metodologica e non un compito primario. Non a caso si è lontani da una visione d’insieme della storia dell’enologia siciliana, specialmente di quella di un secolo come l’Ottocento nel quale si sono concentrati eventi di rilevante portata e di rottura rispetto al passato: la creazione anche nell’Isola di una tipologia di vini conciati come il marsala; la consistente e rapida espansione della superficie totale del vigneto, lo sviluppo degli studi ampelografici e la proliferazione di pubblicazioni e periodici specializzati».
Da un tale elenco, si capisce come la preoccupazione dell’autore sia stata, anzitutto, quella di selezionare il materiale raccolto onde poter definire identità e qualità del vino e della sua fatturazione. Il rigore documentario dell’indagine, condotta su fonti d’archivio, privati e pubblici, si rendeva, perciò, prioritario per ricostruire non solo un momento così importante della economia siciliana, ma pure le tecniche d’impianto, e produzione, del settore vitivinicolo. Esemplari, per questo, sono nel libro le pagine dedicate ai segreti della concia. E, del resto, gl’imprenditori si preoccuparono di stabilire, per i contadini, precise regole da far osservare durante le varie fasi della coltivazione e della vendemmia. (Sono note, ad esempio, le obbligazioni di mosto imposte dagli Ingham di Marsala).
La parte che Lentini dedica a questa tecnica enologica, ben distinta, rispetto alla generica pratica enologica, costituisce l’aspetto innovativo della ricerca. Aspetto non marginale – quello della tipicità – se fa comprendere le ragioni del successo dell’impresa industriale, e la diffusione del prodotto nei mercati internazionali, dove certo non mancava la concorrenza di vini (e liquori) largamente diffusi e qualificati.
Le considerazioni ulteriori sulle case vinicole, e sugli imprenditori, sono, quindi, il logico corollario di fatti e dati che si sviluppano su un percorso straordinario di eventi e storie industriali, d’impatti territoriali e, anche, di vistose presenze nel quadro politico della Sicilia, specie nella prima metà dell’Ottocento. E si pensi, per questo, al ruolo degli imprenditori inglesi durante le rivalse costituzionali del 1812-’15 e del 1820, quando il rapporto dell’Isola con l’Inghilterra ne segnava la vita intellettuale e civile.
Difatti, Lentini può giustamente osservare che, «nel caso dell’industria del marsala, la ragione congiunturale dello straordinario successo ottenuto in poco tempo, da sola non spiega il risultato durevole. C’è stata anche la concomitanza di fattori che hanno permesso di stabilizzare e consolidare la fortuna del prodotto, che avrebbe potuto affievolirsi dopo il 1815, con la fine della guerra e la partenza delle truppe britanniche». Per fronteggiarne gli eventuali effetti recessivi, e realizzare più lauti guadagni, gl’imprenditori ampliarono la rete delle loro attività, non limitandosi a commerciare vini.
Altri fattori, ricorda Lentini, contribuirono al successo durevole del vino marsala: la capacità degli imprenditori inglesi di «decodificare, comprendere e appropriarsi della realtà locale; e la decisione di sviluppare intensamente la pratica delle anticipazioni agrarie. Così facendo, riuscirono a fidelizzare i fornitori e a costringerli a perfezionare i criteri di vinificazione». Nello stesso tempo, essi imposero i prezzi delle compravendite di mosto e di vini.
Esemplare, nel libro, la scelta delle storie di quattro grandi aziende. Quelle dei Woodhouse e Ingham-Whitaker, di Henri d’Aumale, e del Duca di Salaparuta. I loro percorsi, finanziari e industriali, incrociarono eventi più o meno turbinosi della politica; mentre il loro declino è stato segnato, oltre che da interne vicissitudini d’azienda, più ancora dal susseguirsi di mutamenti dei contesti economici nazionali e internazionali.
Spontaneo, intanto, per chi legge Le Sicilie del vino, cioè il romanzo di una felice stagione aristocratico/borghese della Sicilia, è il confronto con la narrazione del declino di status e opulenza dei Vicerè di derobertiana memoria, cui gli stessi grandi imprenditori finirono col confondersi.
Dunque, un affascinante viaggio, quello del vino, nel tempo e nello spazio, che lascia fuori le tentazioni della storia locale, per cercare nel complesso sistema economico europeo le linee, più o meno coordinate, di una stagione del capitalismo, le cui ragioni intrinseche potevano ritrovarsi nell’aura dell’illuminismo, che circolava negli ambienti dell’aristocrazia, e la saldava alla nascente borghesia.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Salvatore Costanza, già docente di storia e di ecostoria negli istituti superiori e universitari, ha svolto attività di ricerca presso l’Istituto “G.G. Feltrinelli” di Milano, collaborando con la rivista “Movimento Operaio”. Ha dedicato alla Sicilia moderna e contemporanea il suo maggiore impegno di studioso con i libri sulla marginalità sociale (La Patria armata, 1989), sul Risorgimento (La libertà e la roba, 1998), sui Fasci siciliani e il movimento contadino (L’utopia militante, 1996). Ha ricostruito la storia urbanistica, sociale e culturale di Trapani in Tra Sicilia e Africa. Storia di una città mediterranea (2005). Nel 2000 ha ricevuto il Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Di recente ha pubblicato un profilo attento e inedito di Giovanni Gentile negli anni giovanili. Ha recentemente pubblicato per i tipi di Torre del Vento il volume Si agitano bandiere, su Leonardo Sciascia e il Risorgimento.
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