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Messina ermetica. Canzoni siciliane del XVII secolo sull’alchimia

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La vara di Messina, incisione del 1644

di Sergio Todesco

Al netto delle elucubrazioni esoteriche che spesso la pubblicistica ha dedicato alla Sicilia, con titoli volti a solleticare il gusto di lettori della stessa risma degli illuminati ben descritti da Umberto Eco nel suo straordinario Pendolo di Foucault, è indubbio che l’Isola sia stata per secoli attraversata da correnti ermetiche quivi giunte dalla Spagna musulmana che introdusse in Europa opere di alchimia tradotte in latino, o da altre parti del continente, spesso attraverso la mediazione di studiosi, come Arnaldo di Villanova (presente a Messina tra il 1308 e il 1309), Raimondo Lullo (presente a Messina tra il 1314 e il 1315) o Athanasius Kircher (presente a Messina nel 1638), o di ambienti religiosi cui non era estranea la frequentazione con testi di scienze occulte ufficialmente censurati nell’Index librorum prohibitorum. Di fatto l’alchimia e le dottrine ermetiche mostrano un forte radicamento in Sicilia in un arco temporale assai ampio, basti pensare al palermitano Giuseppe Balsamo sedicente Conte di Cagliostro (presente a Messina tra il 1764 e il 1765), fino a tempi a noi più vicini, come mostrano le vicende di personaggi quali Raniero Alliata di Pietratagliata o Casimiro Piccolo.

La scoperta, fatta parecchi anni or sono presso la Biblioteca Regionale di Messina, di un manoscritto tardo-secentesco di alchimia contenente due “Canzoni” in ottava rima siciliana sulla materia e la pratica dell’Arte Filosofale, mi aveva confermato l’esistenza di una corrente culturale di tipo ermetico-alchemico, attestatasi nell’Isola fin dalla presenza araba ma qui incrementatasi lungo il Medioevo e la Rinascenza e perdurata fino alle soglie dell’Età contemporanea.

Non sono molte le tracce di una produzione alchemica “autarchica” in Sicilia; alla Biblioteca Comunale di Palermo è conservato un codice trecentesco contenente il Liber thesauri pauperum in dialetto siciliano, attribuito ad Arnaldo di Villanova; presso la stessa biblioteca si trova anche un Manoscritto di alchimia e di scienze occulte, vasta silloge di oltre settanta trattati del sec. XIV (il cosiddetto “Codice Speciale”, su cui esiste una dotta monografia di Isidoro Carini), mentre la Biblioteca Ventimigliana di Catania conserva un codice di alchimia del sec. XVIII. Nel 1983 J. Bignami Odier e A.M. Partini hanno pubblicato, all’interno di un saggio dedicato a Cristina di Svezia e le scienze occulte, una Canzone di ventinove ottave in versi endecasillabi con rime alternate (Opera del Siciliano filosofo – Siracusano) dedicata allo stesso tema.

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Arnaldo di Villanova

Pochi anche i libri a stampa che testimonino di un tale interesse: l’opera di Giacinto Grimaldi Dell’Alchimia, edita a Palermo nel 1645, scritta per confutare a sua volta le tesi esposte nella Expostulatio contra chymicos, confutazione dell’impostura dell’alchimia di Francisco Avellino, stampata a Messina nel 1637. Agli inizi del XVIII secolo infine un gesuita messinese dedicava, nella sua Chimica filosofica, o vero problemi naturali sciolti in uso morale, un capitolo (Problema XX. Si può mai trovar la Pietra Filosofica?) dedicato all’alchimia.

A tale apparentemente rarefatta presenza di scritture locali va comunque ad aggiungersi la ricca produzione a stampa di provenienza europea presente nei più svariati fondi librari isolani; porto qui ad esempio l’ex Biblioteca gesuitica dell’Ignatianum di Messina, che conservava (ancorché purgato con vistose cancellature ad inchiostro nei passi ritenuti pericolosi o eretici) l’assai raro e famoso Theatrum Chemicum in sei volumi, pubblicato ad Argentorati (Strasburgo) nel 1659-61.

Se dall’excursus sulle fonti cartacee passiamo ai dati storici, il quadro diviene ancora più complesso e articolato; per rimanere a Messina, si considerino per un verso alcune tracce, nemmeno tanto labili, concernenti la pratica dell’alchimia presso cenacoli come quello degli Accademici della Fucina (la cui denominazione, peraltro, già in qualche modo rinvia a contesti da Forgérons), fondata nel 1639. Tali fermenti alchemici, pur non pienamente documentati all’attuale stato delle ricerche, affiorano con evidenza in alquante simbologie a tratti presenti in molte composizioni poetiche e in prosa elaborate all’interno del cenacolo, senza contare che uno dei componenti il sodalizio (Domenico Ruffo) aveva scelto per sé come appellativo proprio “l’Alchimista”. Nel 1653 l’Accademia diede inoltre alle stampe l’opera Il Mercato delle Maraviglie della Natura, di Niccolò Serpetro da Raccuja, in cui venivano esposti numerosi segreti della natura, alcuni anche di ordine alchemico. A causa di quest’opera Serpetro fu accusato di eresia e pratiche di magia dal Tribunale della Santa Inquisizione di Palermo, dal quale fu condannato al carcere.

Altra Accademia messinese fortemente segnata da simbolismi ermetici fu certamente quella della Clizia, fondata nel 1701, il cui emblema, l’Eliotropio o Girasole, bene mostrava come i componenti il sodalizio fossero imbevuti di frequentazioni con testi, e forse anche pratiche, alchemici.

È altresì significativa, sempre in ambito peloritano, una notizia riportata da Francesco Susinno su un episodio della vita del pittore messinese secentesco Onofrio Gabrieli, laddove viene riferito che costui «“… invanitosi di maniera e volendo spendere e spandere (…) diessi alle speculazioni di fare l’Alchimia e di congelare il mercurio, nel che fare internassi tanto che andò a terminare la storia dolente in doversi confinare tra’ PP. di S. Francesco di Paola …», testimonianza che aggiunge un ulteriore tassello all’ipotesi che l’alchimia venisse abbondantemente praticata anche in ambienti religiosi. Ricordo inoltre le passioni alchimistiche di Agostino Scilla e la temperie di credula fabrilità alchemica che vide impegnati tanti intellettuali messinesi nel Settecento, come emerge da una lettera del 1783 di Andrea Gallo a un Don Antonio Lapis, pubblicata agli inizi del XX secolo nell’Archivio Storico Messinese per cura di Letterio Lizio Bruno, nella quale si descrive un maldestro tentativo di impostura ai danni di un credulo Marchesino da parte di un sedicente adepto dell’arte ermetica.

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Athanasius Kircker

La visione ermetico-alchemica dell’universo giunse forse a permeare anche l’ambito cerimoniale e rituale, stando almeno alle ipotesi formulate da Domenico Puzzolo Sigillo, storico ed erudito messinese operante nella prima metà del XX secolo. Costui, direttore dell’Archivio di Stato e di fede massonica, propose – in manoscritti inediti cui ho avuto la possibilità di accedere – una singolare teoria sulla festa dell’Assunta e sul senso della colossale machina festiva della Vara. L’orizzonte ermetico acquista infatti lineamenti più nitidi in quella sorta di documenti per servire alla storia della Vara che Puzzolo Sigillo raccolse in gran copia, alternando alla proposizione di straordinarie trascrizioni d’archivio i riferimenti a una letteratura di stampo esoterico-tradizionalista, molto diffusa negli anni ’20-’30 presso una parte non trascurabile degli intellettuali italiani (entro un più ampio quadro culturale europeo contraddistinto da forti istanze irrazionalistiche), comprendente Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, Roma 1928, Julius Evola, La Tradizione Ermetica, Bari 1931 e il rarissimo Dante Gabriele Rossetti, Il mistero dell’amor platonico nel Medioevo, 5 voll., Londra 1840.

All’interno di tali quadri di riferimento, sostanzialmente metastorici, in cui si cercava di dare corpo alla costruzione di un’identità di Messina attingendo a dottrine esoteriche tardo-medievali nonché a una genealogia della città assai sensibile agli aspetti misterici della sua fondazione, o comunque a quella che J. Seznec chiamerebbe la sopravvivenza degli antichi dèi (negli appunti di Puzzolo si cita a più riprese il raro opuscolo di Giuseppe Miraglia, Ubicazione dei tempii pagani nella Messina moderna, del 1903), si snodano minuziosissime indagini d’archivio, con la restituzione di notizie attinte da atti notarili trascritti, relative a contratti di affidamento di lavori di svariata natura concernenti la grande machina della Vara e i due colossi Mata e Grifone.

Attraverso tale percorso, che comprende e lega insieme vicende politiche, istanze esoteriche e grandi eventi della storia patria, Puzzolo Sigillo ci introduce all’enigma della Vara, non già bara o fercolo, bensì lauda o sacra rappresentazione, piramide sacra risalente agli inizi del XIII secolo la cui messa in opera, secondo la lettura proposta dallo studioso, consentiva simultaneamente la possibilità di una triplice fruizione: quella cattolica, attraverso l’apoteosi della Vergine Maria Madre di Dio; quella settaria latina, attraverso una continuazione del culto latino dell’Alma Cerere, Dea Madre delle Messi, culto agostano sopravvissuto all’avvento del Cristianesimo e perseguito come strategia utile al mantenimento di un’identità etnica avvertita come periclitante di fronte a spinte acculturative esterne (i Greci, il Papato, l’Impero); e quella ermetico-alchemica, contenente i simboli delle varie tappe di un cammino spirituale e iniziatico il cui contenuto si sarebbe trasmesso secondo insegnamenti segreti, al contempo artigianali ed esoterici.

Puzzolo Sigillo, con le esagerazioni proprie di un certo esoterismo del suo tempo, dalle indubbie prospettive neo-paganeggianti, attingendo a piene mani a quella sorta di zona d’ombra della cultura massonica in cui si pretendeva che il simbolismo ermetico occultasse messaggi ereticali e politici, scrive: «…In quanto camuffarono inventarono un linguaggio segreto con cui fingendo di poetare d’amore si comprendevano tra loro; mentre i simboli della loro Dottrina settaria ermetica li camuffarono sotto specie di una rappresentazione del domma cattolico dell’Assunta».

bub_gb_8b7u6s6ew2sc_0004Di tali insegnamenti segreti il tanto citato quanto mai conosciuto Radese (secondo la letteratura ufficiale ideatore cinquecentesco della Vara) non sarebbe stato altro che uno dei depositari. Costui infatti, il cui vero nome era Antonino Ravesi, attivo almeno dal 1504 al 1532, non poteva, a giudicare dai documenti raccolti da Puzzolo, essere stato l’inventore della Vara, secondo quanto tradizionalmente sostenuto e fino ad oggi acriticamente accettato, bensì uno dei numerosi Magistri della Vara o parrini di la vara, preceduto da un D’Alibrando non meglio identificato, padre della moglie di Ravesi Nicoletta D’Alibrando, e seguito dal figlio Franciscus Ravesi anch’egli mastro de la Vara, già citato in un atto del 1521 e quindi collaboratore del padre, nonché dai generi Giovannello Cortese (fino al 1546) e Masi de Santi (fino al 1561), dal genero di Cortese Jacopo Xicli (dal 1574 al 1609) e dal figlio di quest’ultimo Presti Giovan Battista Xicli eletto a seguito di rinuncia del padre il 30 ottobre 1609 e indicato come parrino di la vara almeno fino al 1637. Si tratta come si vede di una trasmissione di saperi e competenze artigianali, ma forse anche di contenuti dottrinari sui quadri di riferimento teologici, astrologici e misterici della grande machina, secondo una linea rigidamente maschile, da padre a figlio o da suocero a genero.

Quanto fin qui richiamato giova a rafforzare l’ipotesi di una città che, come tante altre in Sicilia, nonché essere emarginata e periferica rispetto alla circolazione di idee assai in voga in tutta Europa, da tale circolazione risulta direttamente investita.

Passando a esaminare le due Canzoni, va detto che nonostante esse occupino una minima parte (tre fogli in tutto) del corposo manoscritto (un volume in 4° rilegato in pergamena di 303 fogli numerati al solo recto), dedicato alla trascrizione di importanti opere alchemiche del tempo (il Novum Lumen Chemicum e altri scritti di Michele Sendivogio, il Della tramutatione metallica sogni tre dell’erudito bresciano Giovan Battista Nazari, la celeberrima Pretiosa Margarita Novella attribuita a Pietro Bono da Ferrara etc.), costituiscono in effetti la porzione più pregevole del volume, per la loro evidente origine locale e, soprattutto, per la curiosa testimonianza da esse offerta di un uso particolare cui in passato è stato piegato il dialetto siciliano: di descrivere cioè operazioni ermetiche in odore di magia facenti parte di un universo culturale esoterico e tendenzialmente “aristocratico”, la cui presumibile area di elaborazione avrebbe pertanto dovuto essere, come di fatto è stata storicamente, ben distante dai contesti “popolari” cui ordinariamente si riconduce un registro linguistico subalterno come il dialetto. È pertanto plausibile che le canzoni siciliane qui proposte costituiscano un significativo esempio di produzione letteraria esito di un equilibrio sincretico fra cultura popolare e cultura dotta, le cui dinamiche viene così reso possibile cogliere in vivo.

bub_gb_8b7u6s6ew2sc_0018I testi contenuti nel volume possono comunque aiutarci a valutare tanto la circolazione di testi famosi in tutta Europa in un ambito apparentemente “provinciale” quale quello messinese del XVII secolo, quanto la particolare competenza in materia dell’ignoto amanuense, che collaziona gli scritti dimostrando una consuetudine da studioso, in grado di padroneggiare ampiamente il latino. Un appunto alla fine del volume («brevitatem rei citius invenies apud Dionisium Saccarium, et apud Filalectam, seu introitus apertus ad Palatium Regis») ci consente inoltre di fissare un termine post quem il manoscritto potè essere redatto, dato che la prima edizione del volume di Ireneo Filalete risale al 1667 (Eirenaeus Philaletha, Introitus Apertus ad Occlusum Regis Palatium; Autore Anonymo Philaletha Philosopho (…), Amstelodami, Apud Joannem Janssonium à Waesberge & Viduam ac Haeredes Elizei Weyerstraet, 1667). Tutto concorre insomma a far supporre che l’autore sia un religioso, tenuto altresì conto che i manoscritti posseduti dalla Biblioteca Regionale provengono con certezza da un fondo gesuitico e da biblioteche conventuali.

Vane sono risultate le ricerche volte a dare un’identità al Mastro Roberto Della Valle autore delle due canzoni, come pure del misterioso autore, il cui nome si nasconde sotto un anagramma, del sonetto in volgare che le segue, nel quale si abiura la pratica alchemica dapprima sperimentata manifestando una ritrovata adesione alla fede cristiana.

Questo straordinario documento locale, in cui il dialetto viene utilizzato per una materia al contempo aristocratica e in fumo di eresia, dispiega a ventaglio una gamma di nodi problematici. Si potrebbe pensare al dialetto come veicolo di ulteriore “nascondimento ermetico”, e in tal senso deporrebbero alcuni componimenti poetici elaborati in seno alle citate Accademie, in cui è evidente l’intento di mascherare sotto versi di argomento in apparenza amoroso, mitologico o bucolico contenuti di tipo sapienziale. Il modello storico più illustre di queste forme poetiche era naturalmente il Dolce Stil Novo e l’universo simbolico dei “Fedeli d’Amore”, nelle cui composizioni la donna amata allude a una Sapienza di tipo trascendente la cui conquista viene assicurata attraverso percorsi di tipo iniziatico.

Al contempo le Canzoni di Mastro Roberto della Valle potrebbero esprimere, sempre come elaborazioni maturate all’interno di un contesto colto cui non risultavano mai estranei orizzonti autarchici, vezzi campanilistici e tentativi di esperire contenuti autonomi della cultura locale.

Altra ipotesi è che l’impiego del dialetto fosse stato proposto come codice utile a verificare e/o dimostrare l’universalità delle simbologie ermetico-alchemiche e la loro “traducibilità” in idiomi lontani da quelli storicamente deputati (l’arabo, il greco, il latino).

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Cordus Raimondo Lullo

La soluzione a tali ipotesi, tutte fin qui indimostrate e al contempo plausibili, non può che esser legata a un approfondimento dei contesti in cui vide la luce il manoscritto, e che potrebbe riservare sorprese rispetto alle apparenti certezze su cui riposa certa storiografia abituata a tagliare con l’accetta – in  modo manicheo – i fatti culturali. Una puntualizzazione storica, tutt’altro che peregrina, è quella che rimanda al probabile periodo di redazione del codice, la fine del XVII secolo o l’immediato inizio del XVIII. Un periodo, come sappiamo, caratterizzato da uno dei momenti più critici della storia di Messina, quello del ritorno degli Spagnoli nella città dopo la rivolta filofrancese del 1674-78 e della durissima repressione che ne seguì, che vide la cancellazione di ogni privilegio, l’abolizione del Senato Messinese, il trasferimento della Zecca, la soppressione dell’Università, la persecuzione e deportazione di tutti i promotori della rivolta e la spoliazione dagli archivi di migliaia di documenti che costituivano la memoria storica della città.

A me pare opportuno, all’attuale stato della ricerca, dare spazio alle canzoni, qui di seguito trascritte integralmente rispettando la grafia e i refusi originali, con l’avvertenza che la stessa composizione dei testi, due dei quali pienamente intrisi di dottrina ermetica mentre il terzo a ogni evidenza frutto di pentimento e di abiura, potrebbe ascriversi ad autori diversi. Le poche annotazioni marginali dell’ignoto amanuense sono state riportate tra parentesi, precedute da un asterisco.

Come è facile percepire dalla lettura, si tratta in ogni caso di un autore assai competente in tema di letteratura alchemica, le cui citazioni abbondanti e appropriate riguardano operazioni presenti nei testi alchemici dell’epoca e autori oltremodo famosi in tutta Europa, quali Arnaldo di Villanova (medico e alchimista catalano, presente in Sicilia agli inizi del XIV secolo alla corte di Federico II di Aragona), Geber (Abū Mūsā Jābir ibn Ḥayyān al-Azdī, alchimista arabo medioevale), Aristotele, Avicenna. È inoltre inequivocabile il doppio registro – reealistico e simbolico – impiegato nel descrivere tecnicamente le singole fasi dell’Opera, e tuttavia emerge altrettanto chiaramente come sia dominante la prospettiva esoterico-iniziatica della materia trattata, il cui fine riserva all’adepto un completo e definitivo affrancamento dalle leggi naturali (Cui purrà chisti versi interpetrari / sarrà patruni di zoch’è sugettu; Si sì furmica tornirai Liuni, etc.). Rimangono infine degne di nota la potenza immaginifica e la forza evocativa dei versi, la cui prometeica modernità cattura e affascina il lettore.

Ulteriore interesse delle Canzoni è infine costituito dall’utilizzo di termini oggi desueti nel dialetto siciliano (pussanza, cassu, a gutta a gutta, padisci, incuntinenti, onninamenti, giurranda, cunorti etc.), ma qui presenti nella loro vitalità e in grado di esprimere nella nostra lingua operazioni complesse di teurgia chimica.

 “Canzoni di Mastro Roberto della Valle siciliano

intorno alla materia e prattica della Pietra filosofica”

 1

Nelli caverni oscuri e munti brutti

si ritrova una petra, ch’in mult’anni

ha fattu la natura, e li soi frutti

fannu a cui l’ascia nesciri d’affanni

e trovasindi a li paisi tutti

d’Italia, Franza, Spagna ed Alemanni

e nota beni li mei versi e mutti

chi parru senza fraudi e senza inganni

2

Di petra ha forma comu veramenti

Arnaldu à li soi libri nota e scrivi

e di natura sua, tuttu è putenti

che si trasmuta in undi chiari, e vivi,

ed ha pussanza di fari li genti

richi, e ben sani, e di fastidiu privi

di modu chi sarrai sempri cuntenti

si cu l’ingegnu à lu secretu arrivi

 3

ed è composta di quattru elementi

si comu voli in tuttu la natura

Pighiali in manu netti e risplendenti

cu summa diligentia e multa cura

e poi l’attacca tutti strittamenti

l’unu appressu di l’autru, e ben procura

chi sianu stritti forti, e talimenti

chi nuddu focu li dugna paura

4

Sta petra tantu nobili e giocunda

ch’in lu so occultu natura ci là misu

L’anima tanta bedda lustra e munda

Ch’è un veru suli, e di chistu t’avvisu

Ma si tu fai chi lu so focu e l’unda

l’haggi di l’autri parti ben divisu

Di quantu beni voi tuttu t’abbunda

senza peccatu cu piaciri e risu

5

Havi lu spirtu, è corpu, havendu l’alma,

e truviralla cui sapi operari

Si voi chi la furtuna torni calma

voghi la petra in quattro parti fari,

e non ti para gravusa la salma

di multi voti lavarila a mari

chi comu è netta ti darrà la palma

di quantu tu purrai desiderari

6

Platuni voli chi tri voti sia

in acqua chistu corpu misu in fundu

Lavalu tantu chi tua fantasia

canuscia chi sia puru, vivu, e mundu

chi comu è nettu gran causa haviria

un’autra vota turnari à lu mundu

e rendiri piaciri e curtisia

à cui l’ha misu à stu statu giocundu

7

Ed ogni vota chi lu voi lavari

ricordati chi sia beni asciucatu

si tu n’ha suli voghi preparari

un bagnu chi sia un pocu caudiatu

e lassalu ddà tantu dimurari

chi ricanusci chi sia ricriatu

e poi lu focu voghi rinfurzari

ch’asciuchi l’acqua, e restiti annittatu

 8

Solvi li corpi in acqua, e chistu passu

ha fattu beni cui l’ha ’ntisu tuttu

cui no l’intendi mettasi d’arrassu

pri non ristari cunfusu e distruttu

e quando sarrà frittu comu un tassu

dallu in putiri a lu draguni tuttu

tantu chi resti di sua vita cassu

e chi desij lu perdutu fruttu

9

A talchi resti satisfactu, presti

L’aurichi dammi ad ascutari intenti

Bisogna chi stu corpu primu resti

privu d’ogni bruttizza e ben lucenti

e curra comu un oghiu a gutta a gutta

chiaru in culuri d’oru risplendenti

e poi lu duna in putiri a la pesti

nella sua cambaredda rilucenti

10

E stia cu chista pesti cundannatu

sintantu chi canusci chi sia mortu

in terra nigra tuttu cungelatu

e chistu sia lu primu tò cunfortu

Poi l’ardi tantu chi sia caucinatu

e comu l’hai cunduttu a chistu portu

Sacci di certu chi sarrai beatu

si tu sai beni cultivari l’ortu

11

Mentri chi sta à lu passu d’agunia

e chi n’è mortu ancora veramenti

gridirà multu forti, cridi a mia

pri lu travaghiu e fatica chi senti

Coghiri stu suduri duviria

l’homu chi fussi saviu e prudenti

e poi ben nettu lu cunserviria

intra d’un vasu diligentimenti

 12

Pirchì faria miraculusi gesti

quandu tempu sarà di dari initiu

E cu lu tempu risuscita presti

non aspettandu finu à lu giuditiu

Sarà di multi signi manifesti

quandu ch’è mortu, e darà veru inditiu

C’havirà bianca e poi russa la vesti

e mai non cessirà gridari sitiu

 13

Allura dacci a biviri na pocu  (* mestrum)

di l’acqua amara stupida et ardenti

non stari tantu chi diventi crocu

ogni fiata chi chiamari senti

Ma subitu chi bivi à lu so focu

lu porta, e fallu stari destramenti

e comu lu padisci a chiddu locu

daccindi nautra pocu incontinenti

14

Sacci chi chistu biviri è infinitu

e sempri chi tu voi non speddi mai

e comu tu canusci ch’è cumplitu

di chidda etati ch’ammazzatu l’hai,

Pighialu in manu, e fa chi sia ben fritu

e poi l’esalta cu calidi rai

e multu presti l’havirai guaritu

S’un autra cosa a modu miu farai

 15

Va pighia l’alma chi tu l’hai attaccatu   (* Cristalli usciti dal rosso)

quandu di lu so corpu nisciu fora

e dunaccindi un pocu, e poi scalfatu

lu teni qualchi spatiu e dimora

Poi lu riguardi ch’havirà lu ciatu

e nci sintirai diri sta palora

Di mortu vivu su risuscitatu

ed’è bisognu ch’ogn’unu m’honora

16

Hora vi voghiu à tutti dimustrari

li mei pussanzi chi sunnu infiniti

Vughiati dissi dunca dimandari

ch’incuntinenti cuntenti sarriti

Li duni chi vi voghiu prisintari

non sunnu giochi festi ne cunviti

Pirchì vi voghiu a tutti ricchi fari

di modu chi mai chiù bisognu aviti

17

e subbitu li detti a chiddi genti

tutti li cosi chi ci dumandaru

di modu chi ristaru assai cuntenti

et à li casi loru sind’andaru

Stettiru sempri ricchi ed opulenti

e tutti li piaciri si pighiaru

Ringrattiandu à Diu omnipotenti

di iornu e notti fin’a chi camparu

18

E pirchi li planeti tutti foru

pronti a furmari sua bedda pirsuna

Li detti un dunu a tutti quanti foru

Si trasmutassi cui in suli cui in luna

Detti à lu mastru tantu argentu ed’oru

chi mai non vitti puvirtà nisciuna

poi di mirtu, e triunfali alloru

nci misi in testa nà bedda curuna

19

Tornu di l’elementi a rasciunari

pirchì sta porta principali importa

Non ti rincriscia dicu putrefari

pirchì di l’operari chistu importa

l’acqua pri la lambicu distillari

divi à lu bagnu, e lassa pri la storta

e poi la terra tantu caucinari

pri fina chi canusci chi sia morta

 20

Voli lu focu ogni unu sapienti

chi tu lu purghi tantu chi sia nettu

in summa tutti quanti l’elementi

volinu haviri lu culuri rettu

l’acqua ritrovu chi sia ben lucenti

russu è lu focu in culuri perfettu

la terra bianca sia, l’aria splendenti

chi non sia d’acqua ne di focu infettu

21

Havendu fattu chistu tu farrai

lu chiù tesoru ch’a lu mundu sia

Poi tutti insiemi li componirai

pri li rasciuni di filosofia

Primu una libra d’oru purghirai

cu l’acqua fridda chi lu corpu havia

e tanti voti lu calcinirai

chi torni biancu pri sua curtisia

22

Allura li culuri firmi e boni

si vidirannu visibilimenti

e poi facendu la coniunzioni

diventa tutta bianca incuntinenti

e fatta c’hai la sublimationi

fermati (siddu è russu risplendenti)

Dapoi t’accosta à la fissationi

chi ci bisogna dari onninamenti

 23

Non sulamenti bisogna fixari

sta midicina acciò chi sia cumplita

ma ci bisogna in tuttu ingressu dari

à tal chi tegna virtuti infinita

e guarda in chisti cosi non errari

si tu voi haviri l’opera cumplita

Ancora nautra cosa ricurdari

ti voghiu, pri tu sciri à la via trita

 24

Quando lu mestruu hai fattu è tu lu ietta

d’intra d’un vasu è mettilu à lu focu

ma fa chi stij cu la menti netta

facendo d’homu gravi e non di jocu

in primu focu lentu si ci metta

e poi lu furzirai di pocu in pocu

tantu chi bùghia, è non cu multa fretta

chi violenti lu locatu è locu

 25

Stu passu prima importa a tutta l’arti

comu Rinaldu recita è cumanda

Al hura purrai fari quattro parti

di sta minestra e fa chi non ti spanda

e metti l’una di l’autra in disparti

e dapoi pighia fetida vivanda

e truviraicci d’intra ascusu à marti    (*cro cus)

chi ti darrà d’honuri la giurranda

26

Saturnu, Venus, Mercuriu, cu Giovi

pronti li trovi in chiddu locu intendu

e tu di l’acqua fridda quandu chiovi

si ietta in facci a tutti à to cumandu

e vidirai chi nuddu non si movi

anzi ogn’unu nd’aspetta disiandu

è tu di chiddu statu li rimovi

e va di gradu in gradu sublimandu

 27

Comu su netti, la gratia divina

voghi continuamenti ringratiari

Allura forma la tua midicina

Vulendu argentu finu et oru fari

Un autra cosa à parrari m’inclina

pr’haviriti di tuttu à sadisfari

e poi di fari beni ti destina

à poviri, è cattivi liberari.

 28

Ti voghiu rasciunari di li vasi

à talchi di l’intuttu ti cunorti

Concludi l’Ortulanu, è S. Thumasi

chi sulamenti sianu di dui sorti

e sianu intrambu rutundi e non spasi

li coddi longhi sianu, dritti, e torti

et à li punti loru giusti e rasi

Pri siggillari beni e multu forti

 29

Quattru furneddi in tuttu divi fari

e cridi sulu à la mia opinioni

Lu primu furnu sia pri putrefari

e l’autru sia pri distillattioni

Lu terzu pri vuliri caucinari

è poi fa l’autru pri coniuntioni

Pirchì autramenti t’esponi ad errari

cu multa e grandi tua confusioni

30

Chist’è na medicina dichiarata

la chiù felici, perfetta, e superna

e chist’è la diadema coronata

chi sana certu ogni pirsuna inferma;

chist’è la vera scientia pruvata

chi fa allegrari l’auceddu chi sverna

e chista è la ricetta ritruvata

Di Geber, Aristoteli, e Avicenna.

31

In nomu di Diu forti e principali

haiu cumplutu chistu miu cuncettu

ma non ti incriscia passari lu sali

tantu lu passa fina chi sia nettu

Haggi lu to nimicu à sublimari

fallu tri voti dicu in focu nettu

Cui purrà chisti versi interpetrari

sarrà patruni di zoch’è sugettu

32

Ti scrissi tutta l’arti integramenti

comu operandu vidiri purrai

e si l’intendi diligentimenti

Lu gran secretu in putiri havirai

Cchà fazzu fini à li rasciunamenti

e preguti chi l’arti stimi assai

Chi non sparagni travaghi ne stenti

Quando lu beddu corpu annittirai.

finis

 “Sonni d’un filosofu sicilianu anticu supra l’arti Alchimica”

 L’inventuri s’insunnau

vidiri una gran sciumara

stupida fitenti ed’amara

chi tuttu si spavintau

In dui parti equalimenti

chiddu sciumi si spartia

e l’una veramenti

salata nci paria

e l’autra sindi ija

cu la bucca afflitta e magra

parìacci forti et agra

tantu chi non la tastau.

Ciascunu brazzu di lu sciumi

curria dudici mighia

cu tal modu e tal costumi

ch’è grandi maravighia

non nci è homu chi ndi pighia

tantu è piriculusu

cui lu gusta e l’havi in usu

l’Altu Diu lu cunsighia.

L’unu brazzu sindi andava

intra un locu quasi tundu

di nisciuna parti spirava

chi si ripusava in fundu

poi nci parsi un autru mundu

e paria chi fussi infermu

e lu fundu supra un pernu

fu pusatu, e dimurau.

Non intendu alcunu focu

ne gran friddu chi parissi

veru chi di dda na pocu

nci parsi chi ridissi

unu chi nci purgassi

setti vasi beni ornati

undi nceranu apparichiati

li vivandi chi mangiari

Certamente in chiddu puntu

incuminzau à sintiri

lu travaghiu ch’era vintu

la pena e li martiri

e cu tutti li suspiri

lu pighiau cu festa e giocu

da poi sintiu lu focu

chi tuttu lu scarfau

La vivanda e li vasi

erano di dui musturi

pri paura non mi spasi

chi campava cu terrori

ad ogni vinti quattro huri

pighiava la crottioni

et haviva l’occasioni

chi tuttu lu declinau.

Sa non era pani e carni

ch’era venenu e morti

ne ancora pernici e starni

ma acqua acitusa e forti

eccettu chi pri bona sorti

una parti di farina

chi tuttu lu ricriau.

Compliti li setti iorni

paria di vinticincu anni

pri tutti li contorni

s’alligrava senza danni

havia eccettu alcuni affanni

pri lu solitu caluri

e quistu sempri tutti l’huri

tantu chi si maturau.

Non pinsandu a chistu mundu

eccettu chi al altu Diu

ch’era spintu di lu fundu

paria al ingegnu miu

allura giudicai Iu

chi criscia di virtuti

tanti foru li camuti

chi tuttu s’annigricau

Chistu mundu abbandunau

lu so spirtu è la sua alma

tuttu quantu tramutau

la fortuna turnau calma

happi chidda vera palma

e lu portu di saluti

tutti sunnu cechi e muti

eccettu cui l’indivinau.

Ancor chi lu corpu so

fu disfattu e fattu terra

e ben cridiri si può

chi lu mortu non fa guerra

chistu mundu già s’afferra

cu tutti dui li manu

vidirailu vivu e sanu

e dirrai risuscitau.

Di la terra nigra e oscura

si farrà la camellina

si tu guardi e teni cura

vidirai poi la citrina

e divintirà farina

pri cui lu mundu campa

chist’è l’oghiu di la lampa

chi sempr’ardi e mai non manca.

Poi vidiri s’iddu è veru

chi non piangi pri fatiga

comu facia primeru

pri molestia di briga

anzi si stringi è liga

la sua peddi pulpa ed’ossa

in tandu cava la sua fossa

è dirrai santificau.

Lu marti di la sira

quantu di pocu caviali

lu primu annu è calamita

ti suspinci senza l’ali

si no ti veni mali

lu secundu e terzu annu

à tutti chiddi chi lu sannu

Salamuni nci parrau.

Ma cui voli prosperari

è campari comu un Re

non si voli disperari

di lu so sangui si c’è

iu ti giuru pri mi fè

cu pura concientia

chi tutta la scientia

lu poeta ti narrau

l’Inventuri s’insunnau.

 O’tu chi leggi chisti mei canzuni

à tutti l’autri lassa è cridi à mia

chi multi su ristati à lu rituni

pasciuti di la loru gran follia

S’annu fattu stimari Bestiuni

cu li loru pinzeri è fantasia

Si sì furmica tornirai Liuni

cridimi zertu è poi beatu tia.

fine

“Sonetto del Prè (il di cui nome si contiene in Anagramma) TIMOTEO PEDALZOZ

Nel di cui sonetto dichiara il suo senso che si deve fugire quest’Arte Alchimistica”

 Vane speranze andate ad Albergare

Fuor del mio cuore, o di Plutone, o Aletto

Ne promettete più gioia, o diletto

Ma solo inganni, e le dovizie amare

e se cieco ne fui in rammentare

Nuova usanza di fuoco, al fuoco astretto

Il fuoco fuggo, e di alchimista ‘l petto

Sò chè l’fuoco divin farò soffiare

Perdonami Sig.r, humil t’adoro

solo a tè unica speme oggi ravviso

e in ogni piaga tua scopro un tesoro

Lapis fù il sangue tuo, che in Croce assiso

Non fosti a Trasmutar il ferro in oro

Ma l’Anime dall’Inferno al Paradiso.

 Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.

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