dialoghi intorno al virus
10 aprile
di Antonio Ortoleva
Ogni società politica riflette il tipo umano che la compone, diceva Platone. E se la comunità è permeabile alla paura, la tirannia è il governo che ci vuole. Tentazioni tiranniche, o quanto meno restrizioni delle libertà personali e civili, decreti di emergenza varati da governi autoritari e non, sono oggi al centro, in tempi di pandemia, dell’attenzione di organismi internazionali e dell’opinione pubblica. Il virus Covid-19 non è democratico se ha ingenerato in mezzo mondo, assieme a un diffuso panico e a grandi mutamenti nello stile di vita, scelte politiche tendenti a violare diritti umani essenziali.
Comodamente alla scrivania, si può visionare una panoramica su ciò che sta accadendo nei cinque continenti consultando siti e testate giornalistiche di latitudini diverse, perché l’informazione italiana è, per sua non encomiabile tradizione, generalmente concentrata sugli accadimenti domestici e per di più indaffarata a riferire della cronaca quotidiana. La nostra perlustrazione comincia da Budapest, in piena Europa, la vicenda più clamorosa. Due terzi del Parlamento ungherese hanno approvato la legge che affida pieni poteri al premier Victor Orban. E senza limiti di tempo. Approfittando dell’emergenza sanitaria, che in Ungheria non mostra al momento esiti drammatici, il leader magiaro avrebbe così raccattato quel poco di potere che gli mancava, chiudendo di fatto i lavori della Camera a tempo indeterminato. Respinta la mozione presentata in extremis dai socialisti che avrebbero votato la legge con il limite dei 90 giorni ai pieni poteri del premier. Ai tempi della repubblica di Roma, il dictator poteva essere nominato in momenti di emergenza, come una guerra, dai due consoli di concerto con il Senato. Ai sensi della Costituzione, poteva restare in carica fino a sei mesi. «Chi non vota questa legge, ha replicato Orban, è a favore del virus». «Un colpo di Stato», è stato il commento del partito ultranazionalista Jobbik, più a destra di Fidesz, la formazione ultranazionalista del nuovo “dictator”.
Un fatto senza precedenti in ambito di Comunità europea che ha i suoi fondamentali proprio sullo stato di diritto. Tuttavia la risposta iniziale della Commissione è stata prudente e persino imbarazzata. La presidente Ursula von der Leyen, in una nota, ha chiesto che le misure siano «limitate al necessario, proporzionate e soggette a controllo» e che «seguirà da vicino la loro applicazione», benché tredici partiti aderenti al Ppe abbiano chiesto l’espulsione definitiva dal gruppo di Fidesz. In ambito italiano, Salvini guarda “con rispetto” alla scelta di Budapest e la Meloni sostiene che si è «fatto troppo rumore per nulla», mentre i partiti che sostengono il governo Conte ritengono sia incompatibile con i valori fondamentali dell’Unione. La legge dei pieni poteri tra l’altro stabilisce una pena sino a 5 anni di prigione per chi diffonde notizie false sul Covid-19 e sull’azione del governo, decisione interpretata come un ennesimo giro di vite sulla libertà di stampa e di espressione, già sanzionato da una decina di organizzazioni internazionali a tutela del lavoro dei giornalisti.
Una categoria, quest’ultima, ospite abituale e forzata delle galere in non pochi Paesi dove la libertà d’opinione è un delitto contro lo Stato. Ne sanno tanto i reporter egiziani, i quali firmano con uno pseudonimo quando fiutano che un articolo sia a rischio-prigione e con processi dilatati nel tempo. Dopo arresti di giornalisti e chiusura di testate che hanno raccontato violazioni di diritti umani o semplicemente avevano criticato il governo Al-Sisi, una sorta di silenzio stampa è calato al Cairo con l’emergenza Coronavirus dove agenti speciali hanno fermato l’editorialista dell’inglese Guardian, la scrittrice Ahdaf Soueif, assieme ad attivisti di primo piano della società civile, come la madre e la sorella di Alaa Abdel Fatah, uno dei simboli di Piazza Tahrir, con l’accusa di aver disinformato sull’epidemia e sulla risposta offerta dalle autorità sanitarie. Al Guardian è stato revocato l’accredito del proprio corrispondente, mentre il collega del New York Times ha ricevuto “visite non gradite”.
Anche le patrie galere turche sono piene di giornalisti e intellettuali come Ahmet Altan, popolare scrittore e opinionista accusato di terrorismo, liberato dopo tre anni e mezzo, scarcerato per pochi giorni e rimesso infine dietro le sbarre tra le proteste internazionali. Mentre quel poco di libera stampa che rimane in attività evita, per ovvi motivi, qualunque accento critico verso il governo, in Turchia il manifestarsi del virus ha risvegliato un antico e mai sepolto fantasma: l’antisemitismo. Lo ha destato tra i primi uno dei più influenti personaggi del Paese della Mezzaluna, vicino, molto vicino al presidente Erdogan. «Sebbene non vi siano prove concrete, il sionismo potrebbe benissimo essere dietro il coronavirus». Sono le esatte parole pronunciate da Fatih Erbakan, leader degli islamisti dello Yeniden Refah Partisi, ma soprattutto figlio di Necmettin, già primo ministro e capo del primo partito a sfondo religioso che andò al potere negli anni Novanta in conflitto con i generali, da sempre tutori di un esecutivo laico. Non si ignora che Erbakan padre, costretto poi a dimettersi, sarebbe stato una sorta di padrino politico di Recep Tayyp Erdogan.
Lo spettro dell’antisemitismo, dopo la sentenza di Erbakan, si è spalmato nel Paese notoriamente allergico alle minoranze – vedasi i curdi – attraverso i media controllati dal governo e i social. Prendiamo a testimonianza un editoriale del quotidiano “Yeni Akit”. Dove si legge: «Osserviamo come alcune persone oggi si siano rimboccate le maniche per realizzare il piano nazista. Vogliono ridurre il numero delle persone e sterilizzare i turchi, per poi vendere il vaccino israeliano».
Di questo teorema complottista esportato anche in Iran, su cui ha messo in guardia il “Jerusalem Post”, se ne è discusso il 16 marzo scorso nella conferenza mondiale del Cam, il Movimento per la lotta all’antisemitismo, in un primo tempo fissata a Philadelphia e per esigenze sanitarie tenuta in diretta streaming con 30 mila utenti dichiarati e collegati da ogni parte del mondo, proprio sul tema delle dicerie anti-ebraiche intorno alla diffusione del virus. Tra i principali relatori, Natan Sharansky, di cui diremo subito dopo, il quale ha affermato, come riferisce Paolo Castellano sull’organo ufficiale della Comunità ebraica di Milano: «Stanno incolpando gli ebrei, accusandoli di cercare di distruggere l’economia per fare soldi. Incolpano anche Israele per aver creato il virus. Sappiamo che accusare gli ebrei di diffondere la peste non è una novità. Lo abbiamo visto nel Medioevo durante la peste nera che ha investito l’Europa. La differenza tra il presente e il passato è che oggi esiste un solido Stato di Israele e siamo determinati a combattere l’antisemitismo e a sconfiggerlo».
Se si muove Sharansky, il problema deve essere maledettamente serio. Chi è Natan Sharansky, se qualcuno non lo ricordasse? Scienziato e scrittore allievo di Andrej Sacharov, dissidente ebreo-sovietico che ha conosciuto il gulag siberiano, fu liberato, su pressioni internazionali, sul mitico ponte di Berlino in cambio di due spie di Mosca. Episodio che ispirò il bellissimo film di Spielberg, seppur con altri protagonisti. Fu più volte ministro d’Israele e influencer di George W. Bush che pretendeva dai suoi collaboratori che conoscessero i suoi libri. E secondo la ricostruzione di due studiosi americani, esponente di punta della lobby ebraica americana, in particolare la potente Apac (American Israel Public Affairs Committee) che convinse il presidente Usa ad invadere l’Iraq, nonché estensore del progetto denominato “Taglio Netto” che intendeva stravolgere il quadro medio-orientale, facendo fuori tutti i nemici di Israele nell’area, Siria compresa.
Così lo descrisse Antonio Ferrari, l’inviato del Corriere della Sera, che assistette nel 1986 allo scambio in quella gelida notte a meno dieci sul ponte di Glienicke: «Ricordo bene il piccolo Sharanski, stretto in un cappotto, con il colbacco di pelliccia, accanto all’ambasciatore americano, magro e altissimo, che era andato a riceverlo. Un momento indimenticabile; da una parte la bandiera della Germania Est, dall’altra soltanto la libertà».
L’onda antisemita e anti-Israele, benché agli occhi degli osservatori indipendenti siano questioni ben diverse e divaricabili, per comodità o interesse politico vengono di solito fatte coincidere. Esecrabile la prima, richiama orrori nazisti del recente passato; lecita la seconda, consiste nella critica alla politica estera spesso aggressiva di Tel Aviv, in particolare verso i palestinesi. E senza dubbio il clima preoccupa le comunità ebraiche nel mondo, che restano in allerta.
Da un’ondata xenofoba all’altra. In India è montato il caso degli islamisti radicali del TJ che secondo alcuni esponenti politici locali e per una fetta di opinione corrente avrebbero importato il Coronavirus. Il 3 marzo scorso poco meno di 5 mila aderenti, alcune centinaia provenienti dall’estero, hanno partecipato al raduno annuale dell’organizzazione radicale a Delhi, nonostante i divieti. Drammatico flop: ben dieci risultarono tra i primi decessi oltre ad alcune centinaia di contagiati. Tanto è bastato per incriminare l’intera leadership del gruppo, compreso il capo supremo Maulana Saad Kandhalvi, ai sensi dell’Eda, Epidemic Disease Act. Tanto è bastato, per far definire da una tv indiana la vicenda come la Corona Jihad. «Hanno messo il Paese in pericolo diffondendo il virus», ha aggiunto un ministro dello Stato di Goa. Nella patria della spiritualità la tensione religiosa ha fatto schizzare nuova febbre sociale, già in fibrillazione a seguito della controversa legge sulla cittadinanza che discrimina i musulmani. Se ciò non bastasse, il catastrofico e improvviso lockdown ha provocato un esodo biblico dalle città verso le campagne e decine di vittime, tanto che il premier Narenda Modi ha chiesto perdono alla sua gente. Eclatante alle cronache il caso di un contadino quarantenne che è morto d’infarto dopo aver marciato per 250 chilometri in direzione di casa. Nel grande Paese asiatico più amato dagli occidentali, lo stato di emergenza ha indotto a superare i limiti costituzionali della più grande democrazia del mondo. Almeno due episodi hanno avuto ripercussioni in Parlamento tramite il partito dei Gandhi all’opposizione: poliziotti che pestano i passanti con i loro lunghi manganelli di bambù e l’obbligo a Goa di inviare un selfie ogni ora a una piattaforma pubblica per dimostrare che si è in casa.
Mentre nelle Filippine il presidente Dutarte ordinava di sparare a vista a chi esce di casa e si sono registrati nella regione di Manila centinaia di arresti di gente che chiedeva cibo, nel mar della Cina si svolgevano operazioni navali a distanza ravvicinata come dimostrazione di forza tra navigli americani russi e cinesi. E a Mosca venivano individuati alcuni canali controllati dal governo, come RT, i quali avrebbero sparso panico in Occidente tramite fake news. Infine in Usa, dagli ospedali dal Tennessee al Minnesota, si dava precedenza ai contagiati privi di patologie o disabilità perché i posti letto in terapia intensiva non sarebbero sufficienti.
Chiudiamo questa panoramica con un volo in Sud Africa. Qui il governo di Pretoria ha annunciato che è allo studio un progetto alla Trump: costruire un muro di circa 40 chilometri al confine con lo Zimbabwe. Per evitare nuovi contagi, visto che sette milioni di sudafricani sono affetti da Hiv, quindi vulnerabili. Un muro destinato soprattutto a fermare gli ingressi illegali di immigrati.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, nonché del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore
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