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Digressione nella paura. L’invenzione del nemico nel “politically correct”

Francisco de Goya, Disordely folly, 1815-1819

Francisco de Goya, Disordely folly, 1815-1819

di   Valeria Dell’Orzo

Nell’attraversare un periodo di trasversale crisi – sociale, economica, culturale – che col suo riproporsi ciclico, cadenzato e dondolante, segna la Storia dell’umanità, ci si imbatte con ovvia ridondanza nella necessità meccanica, attuata da chi governa, di creare una coesione funzionale al rafforzamento di un iconico io diffuso, contrapposto all’immagine simboli- camente rappresentata del Nemico.

Il confluire indotto dei singoli all’interno di uno stesso immaginifico imbuto concettuale, consente ai burattinai di governare un unico amalgama che plasticamente scorre lungo uno stesso percorso già tracciato, evita così ai gestori delle ideologie politicamente orientate di dover differenziare il proprio controllo rispetto una moltitudine di particelle sociali di pensiero autonomo, che si presenterebbero slegate dalla massificazione e quindi libere di orientare la propria posizione nella comunità globale, senza la costrizione sorda degli schematismi vacui in cui viene compresso il mondo.

Una moltitudine culturalmente trasversale indotta a un facile pensiero comune, scelto da pochi e divulgato dai media, diviene un unico molle corpo plasmabile, un corpo tuffato nella distrazione di un agente eclatante, che perde così interesse per altri allarmanti elementi interni.

Per avere un’immagine di quel che include il noi è indispensabile dare un’immagine di ciò che non è il noi, dare una forma all’Altro, tracciarne un profilo che schematicamente elenchi i caratteri più spaventosi, e quanto più la forma dell’Altro è negativa, quanto più quella che diamo a noi stessi ne trae beneficio, sfuma le proprie ombre maleodoranti e si ritrova illuminata e rigenerata nel confronto col mostruoso.

Come in un gioco di sguardi tra l’uomo e la maschera del temibile, il largo Occidente fissa il bagliore umano dietro la distorsione orrorifica del volto mediatico di un Nemico, clamoroso nella sua vistosità, potente nella sua enigmaticità, straripante nella rappresentazione e nell’informazione perché funzionale al raggiungimento dell’obiettivo-controllo. Cadono intanto nell’oblio di un rapido servizio abomini apparentemente a noi più distanti a favore di altri intramurari.

«Come un capitale liquido, pronto per ogni genere di investimento, il capitale della paura può essere – ed è – trasformato in qualsiasi genere di profitto, commerciale o politico» (Bauman 2008:180).
Giorgio De Chirico, Archeologi misteriosi, 1926

Giorgio De Chirico, Archeologi misteriosi, 1926

Immersi in un contesto sempre più prepotentemente orientato ed eterodiretto, costruito e raccontato sulla base di appartenenze geografiche e religiose, la violenza diventa una componente costante della realtà quotidiana, si inscena in tutte le sue forme, dalle efferatezze fisiche alle soffocanti paure diffuse, istillate e promosse da una spettacolarizzazione dell’orrore e del terrore, enfatizzate dalla pressante apparizione visiva e dalla sporadica quanto eclatante comparsa entro i geografici confini immaginifici della sicurezza sociale.

Si conferisce un’eco assordante all’atto insano ed eclatante, dando origine e legittimazione all’appartenenza a schieramenti improvvisati e eccitati. Le religioni, in un mondo politico che è nella sua essenza profonda sempre meno laico, rincarano così il proprio peso nella costruzione delle culture, sottraendo spazio al pubblico, permeando la vita quotidiana e i modelli mentali e comportamentali diffusi, spegnendo le scintille di creatività e di individualità in un’arida e asfittica omologazione. La ricchezza delle sfumature sociali e delle screziature culturali è dissipata sotto la spinta assolutista dell’appartenenza strumentalizzata, totalizzante e cieca.

«Confinare la cultura in compartimenti rigidi e separati, ognuno corrispondente a una civiltà o a un’identità religiosa, (…) equivale ad assumere una visione troppo ristretta degli attributi culturali. Anche altre generalizzazioni culturali, come per esempio quelle relative ai gruppi nazionali, etnici o razziali, possono presentare una visione incredibilmente squallida e limitata delle caratteristiche degli esseri umani coinvolti. Quando si combinano insieme una percezione confusa della cultura e un atteggiamento fatalista rispetto al potere dominante della cultura, di fatto ci viene chiesto di essere schiavi immaginari di una forza illusoria. Eppure le generalizzazioni culturali semplicistiche sono estremamente efficaci nel determinare il nostro modo di pensare. (…) Quando si verifica una correlazione accidentale tra pregiudizio culturale e osservazione sociale (anche se incidentale), nasce una teoria, e questa teoria può sopravvivere ostinatamente anche dopo che quella correlazione fortuita è svanita senza lasciare traccia» (Sen 2006: 137-138).

Frutto di quella medesima globalizzazione che mette in piedi il circo del terrore è, però, al tempo stesso il dovere o la necessità di una presunta e generica “correttezza”, di una apertura solo nominale verso tutti, che altro non implica in realtà se non una tutela verbo-giuridica da potenziali accuse di intolleranza o di discriminazione razziale. Ecco allora che il nemico viene dissimulatamente circoscritto nelle propagande, se ne promuove la distanza concettuale rispetto a quella particolare alterità che al contempo, però, si traduce e si ribadisce come  simile, e così silenziosamente, mentre si ostenta una posizione di corretta equità, si sibila il sentire di un’appartenenza più rassicurante, un noi di cui fidarsi, e un loro sfocato dal dubbio e stigmatizzato dalla paura.

Lucio Fontana, Conceito espacial, 1968

Lucio Fontana, Conceito espacial, 1968

I recenti attentati avvenuti nel cuore dell’Europa, lì dove si spaccia un multietnico convivere come oppio di storiche disparità coloniali, hanno prodotto corali e spettacolari prese di posizione, sfociate in breve tempo nelle propagande politiche più disparate, accomunate da una stessa benevola e presunta difesa di diritti e dalla solenne enunciazione di princìpi nonché dal confuso frastuono destinato a coprire le difformità e le contraddizioni interne al fronte apparentemente unito nella manifestazione muscolare.

Il gioco del controllo delle masse dentro il perimetro del politically correct, moderna strategia articolata nella falsità dicotomica tra ciò che apertamente viene detto e quanto implicitamente si alimenta nella mente collettiva, impone un Nemico quale mezzo di distrazione, che sia spaventoso come un crescente e minaccioso manipolo di violenti, racimolati e sapientemente plagiati dalla più comune logica dei regimi; impone poi che a gran voce si espliciti la propria consapevolezza che quella realtà aberrante non possa e non debba essere assimilata alla generica alterità a cui comunque si fa continuo richiamo. Si tiene intanto alto il livello di orrore con continui riferimenti e un assiduo rimando di immagini e ricordi, e infine si lascia che la paura si diffonda incontrollata, libera di fermentare nelle menti distogliendo la collettività dalle problematiche interne, tenendola compatta contro un accentuato e pubblicizzato nemico che pressa, incalza, invade, inquieta.

Si arriva così a stringere quel cordone ombelicale che tiene unita l’umanità nel suo grado più ingenuo, violenza e plagio, orrore e difesa, masse invasate e masse atterrite, ugualmente pervase dall’eccitamento offuscante dell’adrenalina che accelera il battito e stordisce la riflessione.

«…esiste un tipo di guerra che non dà tregua, giorno e notte, e cioè la guerra di propaganda. (…) è veramente un’arma, come i cannoni o le bombe, e imparare a difendersene è importante come trovare riparo durante un attacco aereo» (Orwell 1989: 45). 
Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Riferimenti bibliografici
Z. Bauman, 2008, Paura liquida, trad. it. Laterza, Roma-Bari
G. Orwell, 1989, Cronache di guerra, trad. it. Leonardo, Milano.
A. Sen, 2006, Identità e violenza, trad. it. Laterza, Roma-Bari.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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