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La “Frontalità” di Consagra, un visionario contemporaneo

per Consagra

citta_frontale-001di Maurizio Tosco

La Città frontale di Pietro Consagra, edito nel 1969 a Bari da De Donato editore, mi ha accompagnato in uno dei miei interminabili viaggi in seconda classe – da Bologna a Palermo – che se arrivavi in orario a Messina, in diciotto ore ti eri «tolto il dente». Avevo vent’anni – degli anni 80 – e il baccano dei colpi di «P38 autonome» e «Beretta celerine», e fragori tra le strade della «Città dotta» – assieme all’odore metallico del sangue e quello acre dei lacrimogeni e al puzzo delle Molotov, e allo stridìo dei mezzi cingolati allineati lungo la via Irnerio, in attesa di espugnare piazza Verdi – facevano da colonna sonora a quelle immagini di scontri urbani che i miei occhi avevano scattato come delle Polaroid per archiviarle indelebilmente tra i «ricordi importanti»: quelli che ti accompagnano anche in quel passaggio nella vita che coglie nel mezzo del cammino dell’esistenza – dai quaranta in poi – quando vedi cambiare il corpo e tutto intorno scialba: i valori, i legami, i punti cardinali della mappa esistenziale, e ti prende lo smarrimento per aver perduto la dritta via.

Ricordi che la recente epidemia sembra abbia cancellato nelle menti dei più: quasi che il Terrorismo: nero e rosso e anarchico e cattolico-protestante e islamista sia stato e sia una carnevalata a confronto col morbo cinese.

In quello scompartimento caldo e odoroso di capelli e sudore, cibo e MS morbide, lacrime sapide e speranze, Consagra mi ha preso per mano e mi ha condotto tra i suoi pensieri sulla «Città Frontale». Pensieri che mi rapirono letteralmente in una nuova dimensione intangibile quanto concretissima, che da allora fa parte del mio vedere lo spazio e gli oggetti e tutta la materia attorno, e che rinnovo passeggiando tra le strade di Gibellina nuova, aggettivo questo appropriatissimo al quale aggiungerei “sempre”: Gibellina sempre nuova, perché ogni incontro con lei è sempre emozionante e pieno di passione e scoperte, come quello tra due amanti veri che si scoprono per sempre, sino all’ultimo alito di vita. Gibellina perché con la sua incompiutezza è il work in progress permanente del pensiero di Consagra: «Una Città espressa da artisti è l’alternativa alle mitologie del Potere, dell’efficienza, dell’adeguarsi al risultato più alto, delle quotazioni in ascesa, della vita presa come materia da confezionare, del condimento dei cervelli».

«Frontalità» il cui senso molti lustri dopo – un bel gruzzolo – mi ha fatto comprendere così, quasi per caso, un Gentil uomo mazarese antico – di quelli che fanno onore a una città – con un cuore grande come il suo talento a modellare gli spazî: l’architetto Domenico Mimmo Misuraca. Un «muratore che conosce il latino» come avrebbe detto Adolf Loos; un amante appassionato di Mazara. Uno studioso colto e sagace del suo lungomare al quale ha dato l’aggettivo «geografico». Proprio così: un giorno in una delle nostre passeggiate lì, si ferma e mi dice allargando le braccia: «Guarda questo lungomare: è così adimensionato da essere geografico» indicando con questo aggettivo la sua superficie visuale rispetto alla profondità. Questo mazarese talentuoso mi consegnava col suo bel sorriso la chiave di lettura per entrare – definitivamente – nell’essenza e origine della «Frontalità» di Pietro Consagra. Un lungomare che oggi ha la “Passeggiata Consagra”.

Così, grazie a un mazarese che ha avuto fiducia in me ed un altro che mi arricchisce con le sue confidenze, tenterò di dire qualcosa di sensato, confrontando sei citazioni dal libro di Pietro Consagra: un altro mazarese che fa onore a questa città, con quelle di cinque studiosi che molto tempo dopo – sino ad oggi – parlano di altre «Frontalità». In questo modo non aggiungerò prosa mia, alla poesia delle parole dell’Artista mazarese e mi godrò il privilegio che mi è stato assegnato: far da Caronte nel fiume della memoria lungo cento anni.

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1996, Milano, Mostra a Palazzo Brera (Archivio Pietro Consagra)

Incipit

La mia tesi è che Pietro Consagra abbia risposto con la sua visione della Città Frontale, a una domanda che ha preso corpo alla fine del ‘900 con la diffusione della tecnologia informatica e lo sviluppo della rete. Infatti soprattutto oggi – 51 anni dopo la stampa della prima edizione – il suo libro risponde calzante alla domanda: «Qual è la città per l’uomo del mondo globalizzato dalla New economy e dalla “piattaforma”, che vive simbioticamente all’ecosistema high tech costituito da una foresta di macchine che possono interpretare finanche il nostro umore?».

Questa contemporaneità del pensiero moderno dell’artista-architetto, è la prova della sua Arte: che è talento e caratura umana, e lo colloca ancora in movimento «come una ruota libera, separata, in bilico tra il costruire e il distruggere, dentro la sensazione del provvisorio» tra gli Artisti moderni, contemporanei.

potere_frontalita-001La Città Frontale (1969)

«La mia scultura è nata dalla determinazione di togliere l’oggetto dal centro ideale. Non mi sentivo di lasciarla caricare dei significati che l’operazione gli acquisiva; non mi sentivo di addossarmi una responsabilità per ideologie che non mi appartenevano. Volevo cominciare con una dimensione pertinente al mio rapporto con il mondo, una vita con una giustizia orizzontale, senza piedistalli, senza fruitori attorno al totem. Ciò valeva al desiderio di partecipare a denudare l’uomo che si veste di totem ancora oggi. […] La scultura frontale si è rivelata l’unica dimensione pertinente. La frontalità, nella coscienza dell’ubicazione dell’oggetto, nella sua articolazione di profilatura e nelle sue categorie formali di appartenenza ad un mondo, già nei temi di Colloquio, Trasparenze, Spessori, contiene inserita la Città come argomento delle emozioni umane».

«La CITTÀ FRONTALE è una estensione provocatoria della mia scultura, una forza maggiore. Ѐ il nuovo bisogno di riflettere dentro di me tutti i motivi della vita, di cui posso rendermi conto e proiettarli in un oggetto che è la professione di quei motivi. Avrei potuto prendere la strada inversa, pensare di realizzare l’immagine di un uomo, un ritratto di uomo. Ma sono molto lontano dal potermi occupare di un uomo solo, di un uomo in particolare».

«La tridimensionalità deriva dalle strutture di difesa e da quelle dei culti del sacro, da una necessità pratica antica e da una necessità religiosa antica; dal bisogno di raccogliersi dentro qualcosa di rassicurante che nello stesso tempo fosse, per chi rimaneva fuori, imposizione, soggezione, rispetto. Anche un circolo chiuso di persone fa parte dello stesso meccanismo di protezione, di imposizione, di soggezione, di rispetto. Il fruitore esterno di un oggetto tridimensionale è potenzialmente un estromesso da qualcosa: lo stesso meccanismo lo coinvolge e lo esclude. Ma, chi è estromesso è a sua volta spinto all’aggressività, alla voglia di possesso della cosa; così, da quando si nasce si deve imparare a resistere all’aggrovigliato intreccio di soggezioni che provengono dalla tridimensionalità».

«Il priapismo è una forma diretta e buffa di Potere. Dai falli piazzati davanti alle fattorie dei ricchi agricoltori dell’antica Roma ai bellissimi paracarri di granito della città italiana rinascimentale o barocca, il simbolo della virilità è stato legato alla sopraffazione del più forte per la soggezione del debole, dell’estromesso […] In sintesi, sono l’esatto modello dell’imposizione mista al colloquio offerto dalle strutture del Potere moderno. […] Il Potere si tiene ben legato il mito della virilità come massima erezione e come massima dimensione, anche se tiene gli uomini relegati ad una vita sessuale repressa. […] L’uomo, così umiliato se non ha un sesso grande, umiliato se non è sempre eretto, umiliato se non riesce a soddisfarlo. […] Il Potere mitico dell’uomo virile è legato alla sopraffazione, all’abuso, alla violenza e non alla scelta e all’amore».

«La virilità nella Città Frontale non è terroristica. L’uomo della Città Frontale si innamora liberamente, opera scelte spontanee da quando comincia ad interessarsi alle donne e non ha tempo di mitizzare la sua virilità. La sua virilità è soddisfatta e proporzionata al desiderio di accompagnarsi con la persona che ha scelto e non va oltre. […] L’uomo della Città Frontale tende a considerare la propria energia e il piacere di vivere dipendenti dalle scelte e dagli incontri fortunati. La sua virilità è considerata una gioia della vita e non uno strumento da energumeno alla catena del Potere. […] L’amore e l’arte sono, allo stesso modo, legame con la naturalezza, memoria dell’animalità perduta, alternativa all’artificialità. Nella Città Frontale non si pensa agli incontri definitivi. Questi possono accadere ma non sono preordinati come disciplina del modo di vivere. La Città Frontale è possibile, può nascere oggi e dovrebbe già essere impiantata: non è una città del futuro. Non vorremmo più stare dentro dei cubi, non vorremmo che ci proponessero di abitare dentro sfere e tubi. Non vorremmo stare dentro alcuna dimensione prestabilita dal carattere di produttività standardizzata. Non vorremmo stare dentro alcun concetto di stabilizzazione. Il nemico della città attuale non è il traffico, è l’edificio. […] La Città Frontale è ad occhi aperti, una Città da vedere. Siamo tutti abbastanza intelligenti, abbastanza nevrotici, abbastanza desiderosi di star bene, abbastanza fantasiosi per non essere stanchi, avviliti, frustrati, dalla città attuale e da quelle avveniristiche».

«Quando non ci saranno più contadini, quando saranno sradicate tutte le zone dei popoli primitivi, all’uomo non resterà che la memoria della sua animalità, un disagio imprevedibile. […] Non si può vivere senza sperare in una Città differente: Non si può vivere pensando alla fuga nella natura: dimensione perduta, un paesaggio, una riserva, un colpo di fucile, cultura, scienza, igiene, prolungamento della città. Non si può vivere senza sperare in una Città che non sia noiosa, opprimente, distruttiva, pietosa».

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Consagra, Gibellina, Meeting (ph. Tosco)

L’era dell’accesso, La rivoluzione della new economy  (2000)

«La mano invisibile del mercato regola la nostra vita. […] Oggi, le fondamenta della vita moderna cominciano a sgretolarsi. Le istituzioni che, in un tempo non lontano, hanno spinto gli uomini a combattere battaglie ideologiche, rivoluzioni e guerre, stanno lentamente svanendo, mentre una nuova costellazione di realtà economiche spinge la società a ripensare i legami e i vincoli che nel prossimo secolo definiranno i rapporti tra gli uomini. Nella nuova era, i mercati stanno cedendo il passo alle reti, e la proprietà è progressivamente sostituita dall’accesso. […] Nella new economy, il fornitore mantiene la proprietà di un bene, che noleggia o affitta o è disposto a cedere in uso temporaneo a fronte del pagamento di una tariffa, di un abbonamento, di una tassa di iscrizione. […] Dal momento che le nostre istituzioni politiche le nostre leggi si sono formate in un ambito in cui il mercato definiva i rapporti di titolarità, il passaggio dalla proprietà all’accesso comporterà, nel secolo appena iniziato, profondi cambiamenti anche nel modo di governare. […] Ci stiamo muovendo verso quella che un economista ha definito “l’economia dell’esperienza”: una società in cui la vita stessa di ciascun individuo diventa, in effetti, mercato. Nel mondo degli affari, la nuova parola d’ordine è “valore della vita” (lifetime value o LTV) del cliente: la misura teorica di quanto un essere umano potrebbe valere se la sua esistenza, per l’intera sua durata, fosse trasformata, in un modo o nell’altro, in merce e sottomessa alla sfera commerciale. […] Il viaggio del capitalismo, cominciato con la mercificazione dello spazio e della materia, terminerà con la mercificazione del tempo e della durata della vita. […] Il tempo diventa integralmente tempo commerciale. Il tempo culturale svanisce. Quando l’intera vita è un’esperienza a pagamento, la cultura si atrofizza e muore, lasciando i soli legami economici a tenere insieme la civiltà. Questa è la crisi della postmodernità. […] La grande questione che si porrà nei prossimi anni è se la civiltà riuscirà a sopravvivere in una situazione in cui la sfera culturale e quella statale sono ridotte ai minimi termini, e l’insieme delle relazioni economiche svolge il ruolo di principale mediatore della vita umana»[1] .

Nelle premesse del suo scritto, Consagra analizzando la struttura del Potere, afferma che si sarebbe venuta a determinare “un’area storica” in cui si sarebbero insediati un nuovo potere economico e politico in sostituzione dei tradizionali, e che anch’essi avrebbero avuto bisogno di un colloquio con la comunità. Ma che tale necessità avrebbe usato la facciata della cultura “nuova” nell’apparenza – globale e senza limiti – potremmo dire oggi, che di fatto nella sostanza si sarebbe espressa comunque per essere al servizio del vecchio Potere nuovo per imporre i termini del dialogo nuovo: termini che sarebbero sempre stati mitologici in quanto lontani dalla verità, perché «la cultura si sostituisce all’esperienza diretta con la realtà quando pretende da fare da guida alle idee».

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Consagra, Gibellina, Teatro, Modello definitivo

Trattato del labirinto  (2003)

«Di fronte all’entrata del labirinto moderno, conviene anzitutto porsi nell’antico stato spirituale del nomade, per capire fisicamente che cosa sono i meandri. Fare di un’erranza, apparentemente oscura, un avamposto costruttivo vivere la traversata come una liberazione, darle un senso, renderla creatrice. Imparare a ritrovare le condizioni del viaggio in tribù, riscoprire le proprie provviste di verità vagabonde e tenere a mente le quattro qualità principali. Anzitutto, ricordiamoci che il nomade deve mantenersi leggero. Può accumulare idee, esperienze, saperi e relazioni; ma nessuna ricchezza materiale, che lo ingombrerebbe negli spostamenti. La sua identità non è definita da un territorio da difendere, ma da una cultura, da un’ideologia o da un dio che porta con sé e dalla tribù che deve difendere, anche se, per questo, deve levare il campo. Il vero nomade non muore mai per custodire una terra, ma per conservare il diritto di lasciarla. Inoltre, ricordiamoci che il nomade ha il dovere di essere ospitale, cortese, aperto agli altri, attento a fare regali. Infatti dall’ospitalità che riceve in cambio del saper vivere dipende la sua sopravvivenza. Se non ha lasciato un’immagine di dolcezza, se ha distrutto tutto nell’ultimo passaggio, l’accesso ai pozzi sarà per lui interdetto. Contrariamente alla leggenda, non c’è essere più civilizzato del nomade. I miti lo insegnano: per avere assassinato Androgeo, figlio di Minosse, a disprezzo delle leggi dell’ospitalità, la maledizione del cielo si è abbattuta sugli ateniesi; e Minosse stesso morirà per avere fatto la guerra all’ospite di Dedalo, Cocalo, re di Sicilia. Inoltre, ricordiamoci che il nomade deve stare in agguato. Il suo campo è fragile, senza bastioni né trappole. Anche se si è mostrato ospitale, il nemico può presentarsi all’improvviso, non si sa dove, non si sa quando. Il nomade deve dunque essere pronto, in ogni istante, a levare il campo o a affrontare il nemico che si presenta nel deserto o nella foresta. Infine, ricordiamoci che il nomade deve mostrarsi solidale. Ha bisogno degli altri, con cui viaggia, ha bisogno di dividere fardelli e speranze. Non c’è vita nomade senza vigilanza. Non c’è vigilanza senza turni di guardia, cioè senza organizzazione della solidarietà. Leggero, cortese, disponibile, solidale: sono queste le prime qualità del nomade. Con esse dovrà confrontarsi il viaggiatore del labirinto»[2].

A tal proposito nel capitolo La città frontale è possibile, l’artista mazarese dichiara già la sua consapevolezza che qualunque spazio sarebbe capitato di dover usare in questa futura trasformazione del pianeta, esso sarebbe dovuto essere «mobile, provvisorio, trasparente, paradossale, sfuggente alle strutture eternali di Potere, disponibile alle mutabilità delle scelte», perché sarebbe stato «un mondo di chi non sta fermo».

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Consagra, Gibellina, Teatro (ph. Tosco)

Antropologia della sicurezza (2010)

«Non c’è più una città ad accoglierci e a riconoscerci. L’habitat della globalità è la comunicazione codificata in un video televisivo, o telematico, o telefonico. Il mondo globale è rapacità e rapidità, ritmi ossessivi e pensiero veloce; ma è anche peso, ingombro, invadenza. Si scarica in ogni suo attimo, in ogni nostro giorno, dentro la lentezza della vita quotidiana, dentro la sconvolta socialità locale. Siamo complici di uomini che non abbiamo mai conosciuto e condividiamo intrighi che non abbiamo vissuto. […] Il gap comunicativo tra globale e locale è ormai un handicap fisico, ed è diventato incommensurabile. A questo vuoto non eravamo proprio preparati. Prima manifestavamo contro la violenza delle relazioni internazionali, contro il golpe e contro le guerre, nei nostri quartieri, nelle nostre case. Prima discutevamo la storia del mondo nei freddi locali di una sezione di partito, dentro piccoli cineforum, in qualche mostra occasionale di rione, al nostro festival paesano. Per noi la politica aveva una certa linearità, una specie di magica continuità. Dal locale al globale si passava seguendo una sola strada, un preciso percorso. Ai salti non eravamo pronti. Non lo sapevamo. Oggi invece ci accorgiamo che il global government e il local government viaggiano su piani totalmente differiti, talvolta opposti, talvolta contrapposti. Il globale non riesce ad essere plurale, e non ci ascolta. Siamo diventati uomini nella polvere di una cometa. Sebbene speriamo, immaginiamo che forse soltanto nel net government, in questa rete che ci fa essere contemporaneamente individuali e collettivi, generali e particolari, finiti e infiniti possiamo ritrovare il modo per farci restituire quella percentuale maggiore di democrazia a cui aspiriamo. Con il rischio di restare ancora soli, uomini nella rete senza una meta. Noi attraversiamo infinite frontiere e perdiamo la nostra territorialità. Tanto più ci appropriamo del mondo, tanto più insignificante diventa la nostra casa» [3].

Consagra approfondisce la sua visione argomentando che «più che turbati di dover abitare dentro qualcosa», la vera offesa per la condizione dell’essere umano sarebbe stata ciò che egli sarebbe stato sottoposto continuamente a guardare in una sequenza di immagini lontane dalla realtà – virtuali diciamo oggi – che ci avrebbero resi «tristi e annoiati». Quindi egli propone la Città Frontale come «una creazione del mondo delle immagini» ma di un «mondo di chi deve vedere» e non guardare.

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Consagra, Città frontale, Edificio n. 13 (Archivio Pietro Consagra, ph. Paolo Vandrasch)

La cultura dell’incertezza  (2016)

«L’avvento dei computer e la diffusione della Teoria dei Sistemi ha creato la (falsa) convinzione che ogni situazione potesse essere modellizzata come un problema di ottimo vincolato e quindi risolto con strumenti matematici. In quel periodo è stato coniato il termine «Intelligenza artificiale» per esplicitare la capacità (presunta) dei computer di simulare il funzionamento della mente umana; ma se si pensa ai disegni di Escher si capisce che essi non potrebbero essere generati dal computer che non può scegliere, come fa l’artista, in modo imprevedibile. Una macchina è ottusa, l’uomo è intelligente; l’uomo esce dal sistema per riflettere su ciò che ha fatto dentro il sistema, la macchina resta sempre dentro il sistema. […] Reagire in modo molto flessibile alle situazioni e trarre vantaggio da circostanze fortuite, costituiscono le chiavi per affrontare con intelligenza la complessità del mondo reale. […] Si pensi al fenomeno chiamato Serendipity che si manifesta quando nella ricerca di un traguardo se ne raggiunge un altro molto più importante. […] Accettare la sfida della complessità significa non escludere alcuna direzione: tutte le strade sono cammini che può valere la pena di percorrere. […] Il prezzo che si deve pagare per affrontare la complessità consiste nel rinunciare alla prevedibilità dei risultati e vivere sull’orlo del caos, luogo più favorevole alla creazione e all’innovazione» [4].

Altresì Consagra intuisce che questo grande mutamento sarebbe risultato caotico, e adducendo il fatto che egli è tanto «lontano dalle simbologie» quanto «lontano e spratico di particolari», propone la Città Frontale quale dimensione che procede verso il generale e il vago, «verso un incontro di temi della realtà e verso una struttura di grandi approssimazioni». In questo modo la Città Frontale sarebbe stata in primis la grande apertura dell’autore esterno: colui che l’avrebbe iniziata, per soddisfare la sua necessita di rispettare «le sue esigenze travolte dalla città contemporanea, disordinata, aggressiva, distruttiva».

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Consagra, Città frontale, Edificio n. 14 (Archivio Pietro Consagra, ph. Paolo Vandrasch)

Dal Bel Paese alla Smart Nation (2020)

«L’applicazione pervasiva del paradigma dell’Internet of Things sostanzialmente si estenderà di fatto ad ogni ambito della nostra vita quotidiana. Questa diffusione sta ricevendo ulteriore impulso grazie all’introduzione di tecnologie di comunicazione sempre più performanti ed efficienti, tra le quali il 5G, la quinta generazione di telecomunicazioni radiomobili. Il 5G e l’IoT hanno messo in atto un processo di “smartificazione” che rende potenzialmente “smart”, ovvero, in estrema sintesi, intelligente e connesso, ogni oggetto con cui interagiamo. La smartificazione coinvolgerà anche le infrastrutture portanti sulle quali si basano servizi basilari come quelli legati alla mobilità, all’energia, all’acqua, ai trasporti. In futuro è verosimile che asset strategici come strade, autostrade, ferrovie, reti idriche ed energetiche saranno “smartificati” e, di conseguenza, trasformati in piattaforme digitali. […] Una piattaforma è una forma di business basata sulla possibilità di abilitare interazioni tra produttori esterni e consumatori per generare valore. La piattaforma fornisce un’infrastruttura aperta e partecipativa per queste interazioni e ne fissa le regole. L’obiettivo è quello di realizzare una relazione tra gli utenti e facilitare lo scambio di beni o servizi generando valore per tutti i partecipanti. Il modello di business delle piattaforme sta invadendo tutti i settori e ha già consentito ad alcune start-up di conquistare in brevissimo tempo il ruolo di dominatori assoluti del mercato di riferimento. […] Il “potere della piattaforma” deriva dalla possibilità di usare la tecnologia per mettere in collegamento persone, organizzazioni e risorse in un ecosistema interattivo. Le piattaforme stanno cambiando radicalmente l’economia e la società […] e il processo di “smartificazione” della realtà rafforzerà il processo di “piattaformizzazione” del mercato» [5].

Anche su questo aspetto, Consagra è certo del fatto che nella grande trasformazione avremo ancor più bisogno di «città che stimolino il piacere di vivere che di ritiri con la natura», proprio per fronteggiare l’appiattimento alla piattaforma – di cui intuiva – attraverso l’incontro con gli altri per «arricchirsi di energia» accrescendo così la fantasia, ed aiutare «l’agilità psicologica». Questo perché egli è consapevole della necessità che la città in fieri sarebbe dovuta essere «il ritratto di una società più intelligente, creativa, poetica, per individui informati che avranno più bisogno di spiritualità per difendersi, allo stesso tempo che goderne, da una civiltà che, come la nostra, è agli inizi di un pauroso e allettante tecnicismo».

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Consagra, Sibillina, 1999, tempera su carta

Conclusioni

Nei miei anni bolognesi ho avuto il privilegio anche di avere qualche informazione «interna» delle abitudini del pittore Giorgio Morandi: un artista molto schivo e severo – soprattutto nei confronti del suo lavoro – al punto da metter le tele appena terminate con la «faccia al muro» in attesa di un giudizio definitivo dopo un certo tempo da lui ritenuto necessario. Poi, il giorno del giudizio, l’artista lasciava in vita soltanto quelle tele che avevano «ancora da dire» dopo il tempo trascorso. Perché «architetto, non dimentichi che anche un orologio fermo è puntuale due volte al giorno».

Volendo usare questo metodo di giudizio di un artista autorevole per valutare se la visione della Città Frontale abbia «ancora da dire» dopo i 51 anni trascorsi dal 1969, nei quali sono avvenute le trasformazioni sostanziali per il pianeta e l’umanità di cui tutti sappiamo e viviamo, penso che Consagra sembri parlare stamane.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
 Note
[1] Rifkin J., L’era dell’accesso, la rivoluzione della new economy, Milano, Arnoldo Mondadori, 2000: 7, 9, 11, 13, 15
[2] Attali J., Trattato del labirinto, Milano, Spirali, 2003: 150-151
[3] Ceci A., Antropologia della sicurezza, Roma, Eurilink, 2010: 104-105
[4] Facchinetti G., Franci F., Marchese L., e altri, La cultura dell’incertezza. Fuzzy- Logica – Realtà – Sanità –Arte, Roma, Eurilink, 2016: 13-14
[5] Muciaccia T., Dal Bel Paese alla Smart Nation, Infrastrutture per la Digital Trasformation, Roma, Aracne.2020: 73-74.

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Maurizio Tosco, architetto specializzato in urbanistica e pianificazione territoriale, consolidamento e degrado del calcestruzzo, svolge la libera professione occupandosi di attività diverse comprese tra la consulenza peritale giudiziaria, i rifiuti, l’ecologia, e il fenomeno migratorio africano. Studioso di storia militare, ha recentemente pubblicato L’Immacolata segreta del 1943. Il misterioso viaggio di Roosevelt a Castelvetrano, nella collana “Controstoria” di 21 Editore.

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