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Un’estate nel Fortore molisano al tempo del covid-19. Note antropologiche

cpeertinail centro in periferia

di Antonio Fanelli

King Kong a Jelsi: la festa del grano in onore di S. Anna al tempo del covid-19

Nella settimana di ferragosto, da buon emigrante, sono tornato in Molise per trascorrere le ferie estive al mio paese (Riccia, in provincia di Campobasso) e ho toccato con mano quanto le restrizioni sociali dovute alla diffusione del covid-19 abbiano minato l’energia creativa dei borghi molisani che resistono ormai da alcuni decenni alla crisi demografica. Lo spopolamento non aveva finora intaccato il reticolo di feste locali che ha fatto da collante fra “chi parte” e “chi resta”; anzi, la persistenza e il pullulare delle feste è un dato decisamente incoraggiante nella zona del Fortore, dove invece altri indicatori sono gravemente negativi, vista la capacità di gruppi di giovani di crearne delle nuove e soprattutto di prendere le redini dei comitati religiosi includendo nel programma laico eventi di natura diversa in grado di coniugare le aspettative della comunità residente, degli emigrati di ritorno e di persone e amici dei paesi limitrofi. Dai cibi locali agli immancabili concerti in piazza, alle mostre d’arte fino agli spettacoli di cabaret, fra esibizioni di scuole di danza, bande e associazioni sportive locali e piccoli eventi teatrali e musicali con artisti del territorio.

La festa è senza dubbio il momento clou per rinsaldare legami sociali e reti affettive messe a dura prova da un flusso carsico e ininterrotto di migrazioni dovute a esigenze formative e lavorative, da partenze desiderate o molte volte subite. Quest’anno è stato un anno decisamente (e tristemente) ‘speciale’ e la vita sociale dei paesi della zona è stata segnata dalla cancellazione di pressoché tutte le feste locali. Ero speranzoso, vista l’ampia possibilità di disporre localmente di piazze e di spazi all’aperto sicuramente idonei per svolgere attività musicali. Del resto la scarsa densità rende il distanziamento facilmente realizzabile a patto però di uscire dalla dimensione festiva comunitaria e di introdurre criteri rigorosi di accesso e di selezione.

Reduce dal buon esito della prima tappa del festival “InCanto” all’Istituto Ernesto de Martino, con il concerto degli Yo Yo Mundi (il 18 giugno) svoltosi nel pieno rispetto delle norme di contenimento del virus, speravo che localmente si potessero svolgere in maniera agevole delle iniziative di aggregazione di piazza. Ma le cose sono andate diversamente. Se un “evento” culturale e artistico è realizzabile seguendo le indicazioni ministeriali, la “festa” non è possibile con uso di mascherina e con il rispetto della distanza di un metro e mezzo tra le persone. I corpi nella scena della festa – come ci suggerisce Paolo Apolito [1] – hanno bisogno di un contatto ravvicinato, di muoversi in maniera sincronica nello spazio e nella condivisione di cibo, vino e danze.

Riabbracciarsi a distanza di mesi o di alcuni anni è assolutamente necessario per ritrovarsi e per “fare festa”, e proprio in ragione di tale consapevolezza è scattato in loco un meccanismo culturale di auto-protezione comunitaria grazie alla percezione del rischio del covid-19. In queste zone un focolaio di infezioni da “coronavirus” potrebbe avere effetti catastrofici vista l’età media molto elevata, la distanza dai centri ospedalieri e la reiterata gestione commissariale (e fallimentare) della sanità locale. Può sembrare un paradosso ma è proprio così: in questi luoghi con minore afflusso e transito di persone e con pochi e sporadici casi di contagio la percezione del rischio è decisamente più alta che altrove. Non è una cattiva interpretazione dei dati scientifici ma un meccanismo collettivo di valutazione del pericolo.

E di fatti è prevalsa la volontà di non svolgere le feste senza prendersi cura più di tanto di valutare la possibilità di attuarle secondo i criteri previsti dal governo. Le processioni, ad esempio, sono state vietate in un primo momento mentre negli ultimi mesi è stato possibile realizzarne alcune secondo le normative vigenti con accessi limitati e variazioni di percorso. La tecnologia ha permesso in alcuni casi di supplire al rito devozionale con proiezioni su dei maxi-schermo in piazza (come nel caso della festa del 16 luglio della Madonna del Carmine, co-patrona di Riccia), ma è rimasta impressa nella comunità la sensazione di incompletezza e di un vuoto difficilmente surrogabile dalla visione esterna all’evento rituale. Nella vicina comunità di Jelsi, invece, durante la festa patronale di Sant’Anna (26 luglio), la macchina organizzativa si è attivata per svolgere in sicurezza almeno un simulacro della festa e così è stata esposta in maniera simbolica almeno una “traglia” di grano realizzata con particolare perizia artistica in onore della Santa patrona. Un gruppo di jelsesi ha scelto però di non subire passivamente lo stato di indeterminatezza dovuto al virus e ha predisposto in maniera a dir poco creativa e spregiudicata un messaggio simbolico particolarmente originale. La sera prima della festa, nel cuore della notte, una statua di grano raffigurante King Kong è stata posta sul tetto del Palazzo Comunale. L’animale inferocito scruta dall’alto le case di Jelsi e un post sul profilo facebook degli artefici della statua ammonisce in questo modo i compaesani e gli amici lontani e virtuali:

«La natura sembra essersi ribellata alla costrizione dell’uomo, si mostra nella sua forza distruttrice, sconvolge la quotidianità, rompe la tranquillità, trasforma i luoghi, a volte limita la vita. Sembra chiedere rispetto ad una umanità che imperterrita prova a domarla e aggiogarla ai propri comodi. Clima, sismi, malattie e pandemie ci ricordano quanto possiamo essere fragili. Forse è arrivato il tempo di scegliere una strada diversa, è arrivato il tempo di smetterla di prendercene gioco ed evitare che ancora una volta il nostro King Kong fugga dalle nostre gabbie e – come il virus – si trasformi nel peggiore dei nostri incubi. Oggi siamo fermi, a Jelsi come in tutto il mondo, ma impareremo dai nostri errori e continueremo nella bellezza della vita futura! VIVA Sant’Anna, VIVA la Festa del Grano!».

Ho seguito la vicenda dai social, grazie all’amicizia con Michele Fratino, detto “Caronte” (figura ben nota a Jelsi e in Molise come archeologo, organizzatore di cultura, artigiano e amministratore locale), rimanendo impressionato non tanto dalla capacità realizzativa degli ideatori della statua del mostro cinematografico, visto che a Jelsi vi è una vasta comunità di artigiani in grado di realizzare “traglie” devozionali e carri allegorici di rara bellezza (e di disporre facilmente di una piattaforma con un cestello elevatore), quanto per la forte auto-consapevolezza del valore sociale e identitario della propria festa. È chiaro che saltare un giro bloccando il rito per un anno, o forse due, porterà a un esame collettivo di coscienza fra i paesani che potranno assuefarsi ad uno stile di vita individualistico e de-ritualizzato sperimentando il piacere dell’uscita dai vincoli comunitari e dagli obblighi morali alla partecipazione volontaria alla festa.

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Jelsi (ph. A. Fanelli)

Non voglio certo riproporre gli schemi dualistici e ormai vetusti della sociologia urbana e dell’antropologia classica: citta-campagna; individuo-comunità, visto che l’individualismo e il comunitarismo si presentano di regola insieme e ben combinati fra di loro, ma invito il lettore a tenere in considerazione l’alto valore simbolico della festa di Sant’Anna per la comunità di Jelsi. Finanche la vasta comunità jelsese in Canada svolge il rito devozionale oltreoceano e, per il radicamento e le “emozioni patrimoniali” che essa innesca, si tratta senza alcun dubbio di una “festa emblematica” (per usare una nozione dell’antropologo senese Fabio Mugnaini [2]). Ciò implica che non basta uscire la sera di festa per le strade del paese e godere della bellezza delle luminarie, dei cibi locali e della banda e dell’artista di grido della musica pop, ma che attorno alle pratiche devozionali del rito si snoda il fulcro della vita sociale della comunità.

Il rito permea le relazioni sociali, definisce i ruoli, le leadership, le amicizie, le alleanze e tiene a bada i conflitti interni alla stessa comunità che, perlomeno agli occhi dei vicini riccesi – come il sottoscritto – appare orgogliosamente legata alla festa del 26 luglio. Per capirci ancora meglio, nella limitrofa comunità di Riccia vi sono numerose feste religiose e diversi comitati organizzatori (S. Giuseppe, S. Antonio da Padova, Madonna del Carmine, S. Agostino, Madonna del Rosario-sagra dell’uva, S. Michele Arcangelo più altre feste minori, come S. Emidio, che prevedono soltanto la processione e il rito religioso mentre fino a poco tempo fa vi erano anche altre attività laiche e ludiche, oppure vi sono altre feste religiose che si svolgono in alcune frazioni del paese, come la festa di C.da Loje per la Madonna di Montevergine), per cui si è venuto a creare un pluralismo festivo e identitario più flebile quanto complesso e stratificato e nessuna delle feste sovrasta le altre per prestigio e radicamento.

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Jelsi (ph. A. Fanelli)

Anche a Jelsi proliferano manifestazioni come S. Amanzio o alcune sagre gastronomiche, ma la preparazione della “festa del grano” prevede la trasmissione di saperi artigianali e di competenze artistiche che vanno ben al di là della pur gravosa e complicata gestione della questua e dell’organizzazione della banda e dei fuochi pirotecnici. Un anno di interruzione può spezzare la catena organizzativa, demotivare le persone e arrecare danni irreparabile alla comunità. L’assenza di telecamere e di spettatori esterni ha inoltre inchiodato la comunità a interrogarsi se la festa abbia il medesimo significato anche in forma ridotta e senza proiezione turistica. Viene fatta per gli ‘altri’ o ha un nucleo profondo di azioni rituali e di significati sociali e simbolici autonomi dal bailamme festivo? Alcuni jelsesi hanno insistito proprio sulla necessità di realizzare comunque la festa almeno nelle sue forme basilari. Inoltre ci si chiede in paese se le persone coinvolte nell’allestimento delle “traglie” preferiranno anche nei prossimi anni restare in vacanza nelle località estive o avranno voglia ancora di sacrificare gran parte del loro tempo libero nella realizzazione della festa patronale che prevede una complessa forma di rotazione triennale del comitato festa, il dono del grano per la festa da parte di contadini della zona, la raccolta collettiva del grano e poi la lunga e minuziosa composizione dei carri dove, in alcuni casi, ogni chicco di grano è deposto manualmente.

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Jelsi (ph. A. Fanelli)

Infatti l’arte manuale della manipolazione artistica del grano e la capacità di ideare nuove scenografie per i carri (spaziando da temi religiosi e folklorici a scenari della cultura pop, del cinema e dei cartoni di Walt Disney) coinvolge l’intera comunità che si attiva con passione e con particolare orgoglio identitario nella realizzazione della festa. Questo complesso processo di cooperazione comunitaria viene ora messo imprevedibilmente a dura prova. I “beni volatili”, come amava definirli Alberto Mario Cirese [3] in alternativa alla classica definizione Unesco di “beni immateriali” o di “patrimonio intangibile”, sono tali poiché la loro durata è assicurata soltanto dalla capacità di trasmettere dei saperi, di condividere delle competenze, delle passioni e delle emozioni e di ricreare continuamente gli oggetti e i simboli della festa. Il caso dei carri di grano di Sant’Anna è emblematico da questo punto di vista poiché anche le opere di più alta e raffinata perizia artistica sono destinate a perire nel giro di pochi anni vista la natura vegetale del materiale adoperato. Uno sforzo enorme destinato a non essere musealizzato. O meglio ancora, si possono visionare i carri più belli e importanti grazie ad un museo auto-organizzato dai “carristi” e dai cultori della festa che hanno dato vita a una mostra permanente detta “Mufeg”, ma il museo locale può vivere soltanto rinnovando di anno in anno i carri, cioè sostituendo quelli in stato di decomposizione con altre strutture di grano.

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Jelsi (ph. A. Fanelli)

Creare, selezionare, rinnovare, scartare, distruggere, ricreare. Insomma, un museo vivente al di fuori di ogni metafora. Jelsi ha mostrato così nell’emergenza covid-19 di essere una comunità vitale in grado di scrutarsi nel profondo per pensare al futuro. La statua di grano di King Kong ci inchioda alle nostre responsabilità di fronte al disastro ambientale e fotografa assai bene lo stato di incertezza in cui siamo immersi e denota la chiara presa di coscienza della posta in gioco da parte di alcuni degli attori sociali della comunità di Jelsi.

Dalla “Piedrigrotta molisana” alla world music: un secolo di canzoni a Riccia

Nell’area del Fortore molisano soltanto a Jelsi si è trovata la determinazione per realizzare la festa patronale nello stato di eccezione che stiamo vivendo, mentre nei paesi limitrofi è prevalsa l’idea che le norme governative siano inconciliabili con lo stile godereccio locale inscindibile da assembramenti molto ravvicinati. Pertanto non ho girovagato come al solito con mia moglie e i miei amici nei paesi limitrofi del Fortore molisano, della Daunia foggiana e del Sannio beneventano per partecipare agli eventi musicali ed eno-gastronomici divenuti ormai parte centrale della vita sociale di queste piccole comunità appenniniche. Inoltre mi sono spesso riservato in questi anni di partecipare ad alcune di esse anche come organizzatore e come relatore, in particolar modo grazie al “Ricca Folk Festival” che si svolge da quasi due decenni nella mia comunità, grazie al gruppo folk “G. Moffa”.

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Riccia, Folk Festival (ph. A. Fanelli)

In questa kermesse del “folklore in costume” sono transitati gruppi di musica etnica di varia provenienza e artisti come Ambrogio Sparagna e Lino Cannavacciuolo, mentre negli appuntamenti culturali nel centro storico ho avuto, tra le altre cose, la possibilità di discutere e presentare al pubblico alcuni miei lavori, come la ricerca sull’emigrazione molisana in Germania [4] e, soprattutto, il libro Contro canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap [5]. In questa occasione ho dialogato con Fabio Dei e Alessandro Portelli mentre il mio sodale Giuseppe Moffa, in arte “Spedino” (cantautore e polistrumentista ben noto nel panorama nazionale della musica popolare e della world music), ha costruito un percorso musicale ispirato al libro. L’anno scorso invece ho avuto la fortuna di invitare Paolo Apolito al “Riccia Folk Festival” per dialogare con Peppe Barra prima del suo concerto e per presentare in anteprima il suo nuovo monologo teatrale, “Tre compari suonatori”, tratto da una ricerca in corso sui contadini meridionali.

Il “Riccia Folk Festival” ha riscosso in questi anni un grande successo di pubblico ed è saltato nel 2020 per via del Covid. Ma il gruppo folk locale aveva in serbo proprio per questa edizione un lavoro musicale di particolare originalità e così il 13 agosto si è svolto un evento musicale seguendo i criteri del distanziamento. L’unica manifestazione di piazza dell’estate riccese si deve, pertanto, al prezioso lavoro culturale del gruppo folk “Giuseppe Moffa”, che ha affidato più di un anno fa a Giuseppe “Spedino” Moffa la direzione artistica di un lavoro musicale di reinterpretazione dei brani dialettali della tradizione locale.

Il primo Giuseppe Moffa di cui vi parlo è vissuto tra Otto e Novecento ed era un esponente di spicco della borghesia terriera e della politica locale (sindaco di Riccia e consigliere provinciale). Si era profuso negli anni ’20 del Novecento nella creazione di canzoni in dialetto riccese nel clima della “Piedigrotta molisana” [6] e pertanto i brani del suo canzoniere spiccano per le chiare influenze napoletane. Moffa ha composto secondo questo modello numerosi brani dialettali divenuti la base per la creazione nel 1972 del gruppo folkloristico riccese che assunse questa denominazione in suo ricordo. La produzione poetica e musicale di Moffa non rappresenta però un caso isolato perché a Riccia esiste una tradizione di scrittura in versi nel dialetto locale che vanta poeti come Michele Cima e Giovanni Barrea, noti e apprezzati anche nel panorama della critica letteraria.

La comunità dove sono nato – e forse solo adesso che scrivo me ne rendo conto fino in fondo – ha un ruolo centrale nella storia culturale del Molise per via del ruolo di punta avuto nella creazione di una lingua scritta molisana, grazie all’opera dialettale settecentesca di Bartolomeo Zaburri (La batracomiomachia maccaronica, del 1794) e alla prima «ampia silloge delle tradizioni popolari molisane» (come ebbe a definirla Alberto M. Cirese [7]) con il volume Riccia nella storia e nel folklore (1903) di Berengario Galileo Amorosa. Questi lavori hanno alimentato una vivace e creativa tradizione poetica e musicale. Nell’Ottocento vi erano ben due bande musicali a Riccia, di cui una direttamente stipendiata dal Comune, e da un secolo a questa parte esiste una produzione di poesie e canzoni dialettali che funge da mediazione tra ambito colto e cultura popolare contadina. Vi è poi una ricca e peculiare tradizione di cantastorie che dal mondo contadino passa al mondo urbano delle osterie e delle feste di piazza e giunge fino ai nostri giorni con la figura di “Zio Peppino u fioraie” che nel corso degli anni ’80 e ’90 è stato il protagonista delle serenate, dei matrimoni e delle feste locali con il gruppo di spettacolo popolare “I sciure” (ovvero: i fiori).

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Riccia, Folk Festival (ph. A. Fanelli)

Certo non esiste un filo unitario tra tutto ciò e assieme alla comunanza del dialetto e del tema folklorico di molti brani vi erano numerose differenze di stile, di poetica e di classe sociale. Ed è proprio per questo motivo che una scommessa ardua è stata vinta poiché il disco “Pu sone e pu ballà. Un secolo di canzoni a Riccia” è un risultato decisamente sorprendente, frutto di una scelta coraggiosa e a tratti ostinata del suo ideatore (Antonello Virgilio, presidente del gruppo folk “Giuseppe Moffa”). Un disco quasi impensabile fino a poco tempo fa, quando il repertorio di “canti dialettali” del gruppo folk riccese era inscindibile dal “canone folkloristico”, frutto della decennale esperienza dell’associazione nel circuito del “folklore in costume” promosso dall’Enal sin dall’immediato dopoguerra e organizzato tuttora dalla Fitp. E fra i più scettici verso questa operazione discografica vi ero anch’io: temevo che vi fosse ormai una dissonanza irrimediabile fra questo repertorio canoro e lo stile cantautoriale di Giuseppe “Spedino” Moffa, intriso di atmosfere blues e di suggestioni che spaziano dalla musica classica alla world music.

Ma la fortuna di seguire da vicino, passo dopo passo, il percorso artistico di “Spedino” mi ha regalato un’altra sorpresa che ha mandato in frantumi alcune precedenti convinzioni. Nel lavoro comune sulle “musiche di tradizione orale” del mondo contadino riccese che realizzammo alcuni anni fa (“Acque e jerve in comune”. “Il paesaggio sonoro della Leggera contadina di Riccia”, Nota, Udine, 2011, con 2 cd allegati) la nostra intensa e appassionante ricerca sul campo era volta a mostrare la persistenza e la ricchezza del patrimonio espressivo dei “cafune”, proprio in contrasto con la rappresentazione colta e letteraria del mondo contadino realizzata dai poeti dialettali riccesi. Ma gli schemi precedenti sono ormai saltati e la ricchezza musicale che si ritrova nelle undici tracce di questo lavoro è figlia di una fase storica decisamente rinnovata dove le antiche differenze sociali, culturali, ed estetiche – che per anni hanno tenuto lontani i canti della poesia dialettale dalle musiche contemporanee – sono cadute nel dimenticatoio a favore di una ricucitura delle fratture storiche che permeavano la nostra stessa comunità.

Quando e come è avvenuto tutto ciò non è facile dirlo, non vi è infatti una data precisa poiché si tratta di un lento ma inesorabile processo storico-culturale di portata più generale che ha posto fine al perdurante dualismo fra città e campagna, alle differenze sociali fra “signori” e “cafune”, alla divisione fra “ngoppe” e “sotte” (ovvero fra le due piazze del paese) e alle mutevoli e continue distanze che si creano tra generi musicali e gruppi sociali. Ovviamente ne sorgono altre e qualche traccia di queste divisioni resta ancora attiva non solo nella memoria ma anche nella vita reale della comunità, ma il peso delle barriere culturali del mondo Otto-Novecentesco è ormai decisamente caduto.

0-8In questo nuovo progetto musicale guidato sapientemente da “Spedino” c’è più di un secolo di musica riccese e di storie della comunità messe in scena da una squadra incredibilmente ampia e plurale di appassionati e di amanti della musica. Il repertorio folk dei brani dei poeti dialettali viene reinterpretato non solo dagli eredi di questa tradizione ma da una compagine musicale a dir poco multiforme che va dalle rock-band fino al coro polifonico della Chiesa. Figure molte diverse hanno dialogato fra di loro sinergicamente per giungere alla realizzazione di un piccolo monumento artistico dedicato a Riccia e alla sua stratificata e complessa storia canora. La pluralità di voci e di stili musicali resta senza dubbio la nota più sorprendente di questo laboratorio artistico che ha visto “Spedino” nella veste di maestro-concertatore in grado di piegare le sue stesse predilezioni stilistiche ai fini della buona riuscita del progetto collettivo. “Spedino” si è messo al servizio dei suoi interpreti e in molti brani si coglie la sua generosa capacità di arrangiare e orchestrare le canzoni sulla base delle caratteristiche vocali degli interpreti coinvolti.

In tal modo questo disco ha il pregio di essere al tempo stesso sia un lavoro d’autore, sia una piccola impresa di artigianato musicale in grado di coinvolgere tante figure della nostra comunità. Si è realizzata infatti una incredibile forma di “patrimonializzazione” della cultura musicale riccese grazie a degli arrangiamenti decisamente pop. La popular music (cioè la musica che ascoltiamo tutti i giorni nelle sue diverse declinazioni) è stata a lungo descritta come degradata, omologante, commerciale e priva di contenuti artistici e letterari. Proprio tale rifiuto ispirava la ricerca delle “radici” popolari e la salvaguardia delle musiche “autentiche” del nostro passato. A questo sguardo nostalgico e a tratti archeologico si deve gran parte della letteratura folklorica degli ultimi due secoli. Oggi siamo però consapevoli che le tradizioni locali esistono proprio in virtù della loro capacità di seguire il corso dei tempi e così anche la tanto vituperata popular music è divenuta, sin dai tempi del successo di massa del “folk revival”, il mezzo espressivo fondamentale per portare nel futuro i suoni, le melodie e le storie della tradizione popolare.

libro-fanelli-moffaIl ritorno degli emigrati e gli imperscrutabili flussi turistici nella regione che non esiste

Resta però da chiedersi se la cooperazione mostrata dai riccesi in questa occasione sia il segno di una svolta culturale di più ampia portata o se resterà invece l’ennesima ed effimera occasione di orgoglio e di passione locale destinata però a non lasciare segni tangibili per il futuro. Anche il gruppo folk locale che lo ha ideato e promosso deve interrogarsi sulle possibili forme di patrimonializzazione di questo lavoro musicale così inedito e dirompente. Certo la musica non può bastare da sola a farci risalire la china, ma il “metodo” di lavoro che c’è dietro la realizzazione di questo cd è sicuramente il mezzo più proficuo per costruire le storie, le vite, le opere e i suoni del nostro futuro.

Come abbiamo già visto nel caso della festa del grano di Sant’Anna, la ricchezza del patrimonio culturale locale può essere un antidoto alla dispersione che invece incombe su altre esperienze del territorio dove il vincolo fra gli aderenti è sicuramente meno stringente. Il peso della tradizione e di una eredità culturale che assume sempre più un prestigio notevole dentro e fuori la comunità e funge internamente da veicolo di coesione sociale ha spinto i riccesi a cooperare per realizzare un lavoro corale e ha sollecitato alcuni jelsesi ad invocare la maschera di King Kong per esortare gli altri compaesani alle loro responsabilità collettive.

Ma, a ben vedere, vi sono anche altri aspetti da evidenziare in questa strana estate molisana poiché non basta lo scavo nelle pieghe interne della socialità paesana per capire la vita di questi paesi di secolare emigrazione e di pendolarismo continuo verso i centri urbani del Nord Italia. Determinante resta, infatti, la costruzione simbolica del Molise operata fuori regione. Dal film campione di incassi di Checco Zalone “Sole a catinelle” al tormentone comico di Maccio Capatonda del Molise che “non esiste”, gli sguardi mediatici alimentano la curiosità esotica verso questo territorio. E incredibilmente proprio quest’anno in assenza di feste locali si è vista più gente del solito in giro per i paesi del Molise. Con la cancellazione degli eventi è stata l’abitudinaria vita nei bar e nelle piazze ad avere la sua rivincita. La centralità della socialità in piazza permette di tenere la mobilità locale sempre sotto controllo in zone dove non vengono monitorati i flussi turistici bensì i rientri delle famiglie emigrate nel Nord Italia e fino a poco tempo fa massicciamente in Svizzera e in Germania.

Da alcuni decenni si lamenta però il distacco delle ultime generazioni verso il paese di provenienza dei nonni. Questo dato è uno dei punti di osservazione chiave per valutare la crisi di questo territorio montano e collinare tra il Fortore molisano e il Sannio beneventano. Amalia Signorelli [8] aveva già colto negli anni ’70 il rischio dello sradicamento culturale da parte degli emigrati meridionali in Germania, desiderosi di rientrare in patria e protesi a investire nelle seconde case i risparmi di una vita con la possibilità concreta e devastante di vederlo però sfumare a causa della mancata volontà di rientro dei figli e soprattutto delle mogli. E così è divenuta una triste realtà la selva di case nuove, spesso enormi, ridondanti e con spiccati elementi kitsch, che ha affiancato le vecchie casupole in pietra in stato di abbandono. Per alcuni anni le rimesse dell’emigrazione hanno dato buoni frutti a livello locale, non più con l’acquisto delle terre e l’erosione dei feudi dei grandi proprietari, come all’inizio del Novecento con il rientro dall’America, ma con l’investimento nel commercio e nell’artigianato locale.

Un flusso consistente di intelligenze e di risorse ha fatto vivere in questi territori un piccolo boom economico all’inizio degli anni ’80. Con la fine di questa virtuosa dinamica migratoria e con il venir meno del solido circuito clientelare di gestione delle risorse pubbliche destinate all’agricoltura, il Fortore è sprofondato, assieme a molte aree limitrofe, in una crisi economica e demografica di particolare gravità. Con la fine dei contributi ai coltivatori diretti e alle piccole imprese agricole la nuova ‘religione politica’ è divenuta quella del turismo alternativo e naturalistico in nome delle virtù di una presunta “natura incontaminata” (in un territorio popolato e quindi manipolato sin dai tempi dei Sanniti) e della ricchezza di “autentiche” tradizioni popolari in grado di offrire ai turisti un salto nel passato più arcaico. In assenza di programmi di sviluppo ben coordinati non esistono in questo territorio offerte e pacchetti turistici e gli stessi comuni del Fortore, un tempo uniti dalla Comunità montana, dalle attività della amministrazione provinciale e dalla leadership politica del deputato doroteo Giacomo Sedati [9], stentano decisamente a trovare la strada della cooperazione turistica. Non esistono siti internet in grado di orientare il turista verso queste zone e nel territorio vi è una assoluta scarsità di strutture ricettive, nonostante le poche imprese locali in campo agro-alimentare e caseario e in ambito ristorativo siano spesso di alta qualità.

E infatti in quest’anno così particolare i pochi alberghi del territorio hanno registrato il tutto esaurito grazie ad alcuni turisti desiderosi di stare lontano dai pericoli del virus in una regione essenzialmente “covid free”. Questi imperscrutabili turisti chiusi in alberghi tranquilli e solitari entravano in contatto con i nativi soltanto grazie alle piscine degli alberghi aperte al pubblico, senza avere però alcun contatto con la vita sociale del paese. Ciò a dimostrazione della imperfetta scienza della promozione turistica che insiste spesso proprio sulle feste tradizionali come veicolo di attrazione verso il territorio. Se la creatività dei tour operator è sconfinata, tanto che alcune agenzie hanno creato dei pacchetti turistici molisani con al centro la visita a Ferrazzano, paese di origine di Robert De Niro, alcuni comuni della zona hanno pensato di colmare queste lacune aprendosi al circuito turistico dei camperisti, con risultati decisamente scarsi per l’economia locale. In alcune occasioni festive gli assessorati locali e le pro-loco hanno ricevuto richieste decisamente insolite e finanche insolenti. A fronte dell’arrivo di alcune decine di camper le associazioni del settore chiedevano attrazioni turistiche e occasioni conviviali a spese del comune per compensare il gettito di introiti previsto nel paese di attracco della carovana. A parte la scarsa consistenza del gettito di denaro verso gli esercenti della zona, vista la totale autosufficienza dei camperisti, le modalità di contrattazione dai tratti velatamente estorsivi risultano possibili soltanto nel vuoto delle politiche turistiche regionali e si alimentano, soprattutto, grazie alle retoriche mediatiche e agli stereotipi culturali.

Se il camperista ritiene suo diritto ricevere ospitalità gratuita e pretende di assistere alle immancabili tarantelle, ciò significa che nell’immaginario esterno si è imposta l’idea di una terra antica e ospitale che vive immersa nel suo splendido isolamento, con paesi popolati di contadini dal volto mite sempre pronti ad esibirsi in qualche ballo o festa tradizionale e ad aprire le porte di casa propria al turista cittadino. Un comune della zona, San Giovanni in Galdo, situato nell’area più prossima al capoluogo di regione, ha intrapreso addirittura la strada della ospitalità gratuita per attrarre i turisti con il risultato di ricevere diverse migliaia di prenotazioni a fronte di poche case disponibili in paese. Il progetto “Regalati il Molise” è davvero emblematico e mostra la pressoché totale incorporazione da parte dei nativi degli stereotipi formulati dall’esterno verso le terre appenniniche. Regioni fuori dal tempo e dalla storia immerse in una dimensione naturale e ancestrale: le associazioni che promuovono il Molise facendo leva su queste immagini bucoliche possono inchiodarlo nella perniciosa dimensione astorica dell’arcadia da offrire gratuitamente al turista desideroso di immergersi in una realtà di gente buona e ospitale che vive lontano dallo stress della città.

Questa rappresentazione paradossale e caricaturale è veicolata dagli stessi molisani desiderosi di intercettare dei flussi turistici e così facendo si rischia di oscurare completamente la realtà locale e di non favorire le aziende e le attività economiche e culturali della zona. Questo mito della vita felice nei paesi diventa addirittura irrispettoso pensando che nel solo mese di agosto, nella mia comunità di provenienza, vi sono stati ben tre suicidi e che aumentano le persone con problemi di alcool e di disoccupazione, mentre in tanti sono a volte costretti a spostarsi per lavoro verso il Nord Italia lacerando nuclei familiari appena composti. L’immagine arcadica concorre anche a distogliere l’amministrazione centrale dal compito gravoso di evitare lo spopolamento di questo territorio visto che tutto sommato è una fortuna vivere fuori dai mali del mondo moderno.

Certo esistono delle chance da cogliere e delle serie opportunità da sviluppare sulla base dell’uso creativo del “patrimonio locale” – e il successo delle attività artigianali ed industriali agro-alimentari ce lo dimostra – ma anche noi antropologi dobbiamo stare attenti a non alimentare visioni stereotipate che rischiano di peggiorare la crisi economica locale, penalizzando fortemente quei pochi ma virtuosi operatori economici locali, e rafforzando con il nostro lavoro, a volte addirittura inconsapevolmente, la visione nostalgica e passatista della “comunità contadina” come alterità positiva al caos della città. Un’immagine astorica forgiata dal romanticismo folklorico che ritorna incessantemente sotto nuove e inedite vesti che rielaborano il primitivismo elitario e altre ideologie regressive mascherandole da ambientalismo e da resistenza alla globalizzazione. Ci vorrebbe pertanto un bel King Kong che esorti politici, scrittori, giornalisti e antropologi a non cedere, per motivi corporativi e di interesse di crescita del proprio settore, alle sirene della retorica delle meravigliose oasi della “civiltà contadina”

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Paolo Apolito, Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità, Bologna, il Mulino, 2014.
[2] Fabio Mugnaini, La festa necessaria: tra il dire, il fare e l’agire patrimoniale, in Tempo, persona e valore. Saggi in omaggio a Pier Giorgio Solinas, a cura di Armando Cutolo, Simonetta Grilli, Fabio Viti, Lecce, Argo, 2015: 273-291.
[3] Alberto Mario Cirese, Beni volatili, stili, musei. Diciotto altri scritti su oggetti e segni, Prato, Gli Ori, 2006.        
[4] Antonio Fanelli, Alessandra Fratejacci, Frank Heins, Molisani in Germania. Ricerca sugli emigrati “invisibili”, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2013.
[5] Roma, Donzelli, 2017.
[6] Vincenzo Lombardi, Quadri di un’esposizione. La cultura musicale in Molise fra Otto e Novecento, in Storia del Molise, a cura di Gino Massullo, Roma, Donzelli, 2006: 331-382.
[7] Alberto Mario Cirese, Saggi sulla cultura meridionale, vol. I, Gli studi di tradizioni popolari nel Molise. Profilo storico e saggio di bibliografia, Roma, De Luca, 1955.
[8] Amalia Signorelli, Maria Clara Tiriticco, Clara Rossi, Scelte senza potere. Il rientro degli emigranti nelle zone dell’esodo, Roma, Officina Edizioni 1977.
[9] Sulla figura chiave della politica molisana del secondo dopoguerra vedi: Massimiliano Marzillo, Giacomo Sedati il ministro della ricostruzione: dal Mezzogiorno all’Europa, le scelte economiche e politiche, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2013; Antonio Fanelli, Il ministro dei contadini molisani. Giacomo Sedati e l’egemonia democristiana nel «paese dei cuppelune», in «Meridiana», n. 90, 2017: 57-83.

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Antonio Fanelli, docente a contratto di Storia delle tradizioni popolari all’Università “Ca’ Foscari di Venezia”, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in “Antropologia, Storia e Teoria della Cultura” presso l’Università di Siena. Fa parte del Comitato Scientifico e della Giunta Esecutiva dell’Istituto Ernesto de Martino e della redazione di “Lares” (Olscki editore) e della “Rivista di Antropologia Contemporanea” (il Mulino). Tra le sue pubblicazioni: A casa del popolo. Antropologia e storia dell’associazionismo ricreativo, Roma, Donzelli, 2014; Contro canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Roma, Donzelli, 2017; Carlen l’orologiaio. Vita di Giancarlo Negretti: la Resistenza, il Pci e l’artigianato in Emilia Romagna, Bologna, Il Mulino, 2019.

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