Nell’immaginario collettivo non c’è probabilmente luogo della Natura più denso di significati del mare, referente simbolico polisemico, vasto spazio di rappresentazioni mitiche, topos letterario di nostalgie e utopie, di exodus e di nostos. Se la montagna si identifica nell’immagine della stabilità, della visibilità e della trascendenza in corrispondenza della sua verticalità in ascensione verso il cielo, il mare è metafora della mobilità, dell’ambiguità e dell’immanenza, essendo universo strutturalmente ambivalente nella sua doppia latitudine di superficie e di fondale, di emerso e di sommerso, di orizzonte e di abisso.
Piano d’acque scintillanti o tenebrosa cavità, fragore di marosi o profondissimo silenzio, spazio da attraversare o regno da penetrare, il mare è crocevia di ossimori e di dicotomie, repertorio delle più irriducibili opposizioni dialettiche, principio e fine nelle cosmogonie di moltissime culture. Il racconto della Creazione nella Bibbia narra di acque rovinose, testimonianze e reliquie del diluvio, un mondo destinato ad essere abitato da Leviatani e da creature mostruose, da esseri ibridi tra semiferinità e semidivinità, da figure liminari e presenze oscure. Un popolo nato e plasmato da fantasie e paure ancestrali, da pulsioni visionarie e memorie di primordiali esperienze, dalla perturbante fascinazione esercitata dall’elemento liquido, irrimediabilmente selvaggio e mai del tutto addomesticato.
Alterità magmatica ed enigmatica, il mare è una realtà instabile e sfuggente, un territorio che non si può lottizzare né comprare, una risorsa indivisibile e incontrollabile. Per la sua stessa natura così consustanziale ad una specifica cultura caratterizzata da simboli e miti che hanno dato vita e forma a riti e culti delle più antiche religioni dell’uomo, il suo paesaggio non è mai eguale né convenzionale, segnando i confini tra il noto e l’ignoto, tra l’umano e il sovraumano, tra la vita e la morte. Così è nella prassi, così è nelle rappresentazioni, mescolando e coagulando avventure e storie, sogni e sortilegi, apparizioni e sparizioni, fughe e approdi, sfide e naufragi. In sé il mare sembra essere agente e referente dell’elezione umana al narrare, dell’ineludibile tensione al raccontare, voce verbale e fattuale omologa a quella del navigare, al percorso che prevede un allontanamento, un viaggio, una prova, un ritorno, cardini e funzioni centrali della morfologia delle fiabe ormai classica di Propp.
Non è senza significato che il mare – sia esso metafora letteraria e iconografica oppure datità fisica, plastica e concreta presenza geografica – è il luogo privilegiato dell’apprendistato e dell’iniziazione alla vita, ricapitolando dell’esperienza esistenziale, come scansioni biografiche e archetipi narrativi, i passaggi cruciali del partire e del ritornare, del separarsi e del ricongiungersi, della perenne spinta verso l’ignoto, alla ricerca di nuovi orizzonti, e del mai spento anelito al porto, al riparo fidato della costa. Tra il qui e l’altrove, lungo le molteplici e mutevoli rotte, scorre il tempo della vita, si gioca la scommessa dell’avventura, si consuma l’alea dell’imprevisto, la fatica del cimento, l’epifania di un incontro. Sarebbe stato forse possibile il viatico di Ulisse e sarebbe stata immaginabile la sua Odissea senza il mare? Senza i perigliosi flutti, le infide correnti, gli incantesimi di sirene e ninfe che volteggiano sulle onde e sugli scogli?
Il mare, dunque, è paradigma di quell’immaginario in cui si addensano la memoria delle acque amniotiche delle nostre origini e le paure profonde della potenza terribile e distruttiva dell’elemento materiale. Nelle diverse pagine di narrativa popolare raccolte da Giuseppe Pitrè, le incursioni nel meraviglioso e nell’avventuroso trovano nel paesaggio marino la proiezione figurativa e simbolica di tutto quel che si oppone in qualche modo alla terraferma e si muove ai confini dell’umano, sul sottile crinale che separa la seducente attrazione dalla inquieta e turbata repulsione. Accanto a storie di gesta ardimentose e fantastici regni di fantasiosi regnanti vi leggiamo imprese di prodigiose metamorfosi e di rocamboleschi salvataggi, di pesci che escono dal mare e salgono le montagne o di chiavi perdute e ritrovate in bocca a cernie. Analogamente nella sua ampia rassegna di temi e di motivi connessi a Leggende del mare (1894), la scrittrice Maria Savi-Lopez, contemporanea del padre dell’antropologia siciliana, pur nei limiti di un’opera di compilazione priva di riferimenti ai contesti sociali e culturali dei testi raccolti, offre una significativa documentazione etnografica, che dà conto di «folletti e demoni, fiamme malefiche e mostri marini di aspetto pauroso, sirene affascinanti colle lunghe chiome d’alighe e di fili d’oro, trolli giganteschi, fantasmi di naufraghi, nani paurosi, misteriose divinità nordiche o mitiche figure orientali danzano sulle onde, salgono lungo i cordami delle navi, si aggirano sugli scogli o stanno in alto sugli alberi maestri, a terrore degli uomini che spesso portano in mare tutte le superstizioni delle loro terre natie, tutte le reminiscenze popolari dei miti antichi».
Di presenze oscure e minacciose che convivono con la quotidianità dei pescatori e di strategie cognitive e percettive che attingono ai piani dell’empirìa e della magia Ninni Ravazza – che conosce le profondità del mare e le vite degli uomini che l’hanno attraversato, navigato, ‘coltivato’ – ha raccolto in questo volume testimonianze, memorie, piccole storie, frammenti del microcosmo lungamente indagato dall’autore, del paese di San Vito lo Capo, luogo elettivo di identità e di individualità, axis mundi, alfa e omega del suo percorso di ricerca esistenziale e culturale. A guardar bene, un unico grande libro Ninni scrive da anni, come per compiere un atto d’amore, notificare una mozione di affetti, sciogliere un ex voto. Pagine che radunano le voci di quell’universo pulviscolare, i ritratti e i sentimenti dei suoi abitanti, gli scorci di un paesaggio urbano e umano che, senza soluzioni di continuità, scivola sulle acque del mare, del mare si alimenta e al mare ha sempre guardato con devozione e rispetto.
Di questo hortus conclusus – piccolo grappolo di case e di anime – sono qui raccontati «accadimenti minimi, confinati nelle confidenze sussurrate sui banchi di una barca o filtrati da esperienze personali che altri magari non avrebbero percepito». Dice bene Ravazza, parole sussurrate, con pudore e discrezione, intime confessioni, incerte rivelazioni, perché la materia del narrare ha a che fare con “l’altro mondo”, quello sommerso, misterioso, pericoloso dove santi e fantasmi si confrontano e si sfidano insieme ai morti, ai trapassati per cronache violente, alle creature di confine, di contaminazione, di mediazione tra il noto e l’ignoto, tra il sopra e il sotto, tra l’umano e il non umano. Così fatti naturali inspiegabili, coincidenze strane, visioni stupefacenti o impressionanti rinviano a potenze attribuite a pietre, animali, piante, a forze occulte inscritte in orizzonti magico-religiosi, ad atti e gesti che ricevono senso entro una cornice mitico-rituale.
Ninni Ravazza conosce bene la letteratura folklorica a riguardo e sa leggere con sensibilità etnografica quelle credenze e quelle pratiche senza stigmatizzarle come patologie superstiziose e senza ammiccare a banali interpretazioni paranormali. Sa che sono documenti di una cultura, evidenze di modelli mentali e comportamentali condivisi nel processo di orientamento nelle esperienze non intelligibili e di risignificazione degli spazi non conosciuti. La verità è che nella cosmogonia popolare la società dei viventi non è mai completamente separata da quella dei defunti, l’una trapassa nell’altra, con l’altra comunica, dialoga, convive. Così che la morte non è mai assolutamente ‘altra’ rispetto alla vita e gli sconfinamenti tra la dimensione terrena e quella ultraterrena sono possibili attraverso mediazioni, negoziazioni, presentificazioni in luoghi liminari simbolici quali crocicchi, ingrottamenti, pozzi, ruderi, crepacci. O torri come nel caso dello spirito della tonnara di Sancusumano, anime in pena incarnate in un grande uccello, «un enorme Gufo reale che si librava la notte nel cielo stellato e prima di lanciarsi a caccia tra i boschi del vicino monte Erice compiva ampi giri sulla tonnara emettendo il suo caratteristico verso che si mischiava al suono delle onde frangenti sulla costa».
Animali vicari dei morti, deputati a mediare, a vegliare su spazi cruciali della contiguità tra cielo e terra, ad incorporare le assenze e a proteggere i viventi. A propiziare la pesca come la farfalla apparsa d’improvviso a segnalare l’arrivo dei tonni, o a fare dispetti ai pescatori come il “bue marino” che sotto l’aspetto di un folletto danneggiava le reti e allontanava le prede. Ospite delle grotte a pelo d’acqua nel golfo del Secco, la foca monaca dormiva in una sprofonda spaccatura con la ghiaia sul fondo, russava e la sua voce cupa è rimasta nella memoria dei tonnaroti. Si dice che un pezzetto della sua pelle conservato in un sacchetto di tela ed ereditato per generazioni servì a confezionare una cintura che le donne sanvitesi incinte indossavano per scongiurare gravidanze a rischio. Animali, dunque, come presenze ambivalenti, creature malevoli, geni tutelari, amuleti, compagni di vita e di navigazione, temuti e ingraziati, investiti di funzioni segniche divinatorie, di energie terapeutiche, di proprietà sacre. Così il gabbiano ucciso con un colpo di fucile durante una battuta di pesca porterà una incredibile serie di sventure familiari a colui che aveva sparato.
Anche le pietre in quanto forme materiali del tempo e ierofanie del mondo ctonio hanno in questo contesto culturale un ruolo di preminente rilevanza, che va al di là della loro muta e nuda inerzia. Di pietra sono le architetture delle tonnare, le vecchie mura entro le quali si svolgono le storie raccolte da Ninni Ravazza. Di pietra è la torre di Guidaloca, tra Scopello e Castellammare, costruita nei secoli XVI e XVII per la difesa del litorale dalle scorrerie dei pirati barbareschi, abbandonata e in rovina eppure animata certe notti da balli, musiche e luci secondo le testimonianze dei pescatori. Di pietra è il riparo su cui sedeva il giovane Nicolino quando fuggiva dal mondo che lo umiliava e su quella tavola, sotto quel vecchio Torrazzo che in passato sorvegliava l’antica tonnara di San Vito e ne ospitava i morti sepolti nel tempo, giurò a se stesso che sarebbe diventato il migliore pescatore del paese. Un giuramento su una tavola di pietra che come nell’antichità conservava la solennità di un culto magico-religioso, di un patto destinato ad inverarsi. Una pietra che interrogata come un oracolo parlava al giovane e gli suggeriva le scelte da compiere, le leggi morali per stare nel mondo.
Ma il mare resta al centro dei racconti, un mare vicino alla terra, specchio delle tonnare e campo dei tonnaroti, ma anche quello più profondo, battuto dai pescatori che si spingono al largo e “tagliano” con il coltello le trombe marine, secondo un rito che è gesto perentorio e preghiera segreta, antica pratica di scongiuro contro potenze delle acque e dell’aria. Nel mare si può incontrare il vascello fantasma, «quell’imbarcazione nera – racconta Pio Solina – con molte persone mute a bordo in tante notti buie l’avevano vista anche altri marinai navigare silenziosa tra gli scogli, ma è sempre sparita all’improvviso, non è mai arrivata in porto, “non era barca”. Erano anime di gente morta a mare». Le imbarcazioni con a bordo i naufragati senza sepoltura, invisibili e pure presenti con grida, gemiti e pianti, sono – come è noto – una costante nella morfologia delle leggende del mare, un topos narrativo che ripropone il valore del culto dei morti, dei riti funerari, il bisogno di dare un luogo stabile e un nome riconoscibile ai corpi dei defunti.
In mare, in quella striscia che va da Monte Cofano a Scopello, accade che si accendano di notte piccole luci sulle cime degli alberi delle imbarcazioni in difficoltà, si possono vedere isole che non esistono sulle carte geografiche, città segrete poggiate da millenni sui fondali, l’Atlantide sommersa, dove forse – si chiede l’Autore – vanno a morire tutte insieme le lampughe, i pesci che vivono una sola estate e poi spariscono misteriosamente. Anche i nomi di battesimo delle navi possono per arcane coincidenze segnare il loro funesto destino: e così Kent è attributo maledetto di imbarcazioni che in tempi diversi sono state tutte condannate al rogo e all’affondamento, pur avendo fatte salve le vite dei passeggeri e degli equipaggi. Fatalità, casualità, fortune, sortilegi, strane corrispondenze, relitti scoperti e poi svaniti, come il sottomarino affondato davanti al Capo San Vito il 14 marzo 1943, da qualcuno avvistato, da altri ricercato da una vita senza averne mai trovato traccia. «Fantasmi che ritornano – scrive Ravazza – non scompaiono mai del tutto. Quando credi di averli esorcizzati riappaiono all’orizzonte. Una fata Morgana impossibile da raggiungere. Tentatrice e fascinosa».
Non meno intimamente legati al mare, localizzati tra l’antica tonnara del Secco e il Torrazzo “saraceno”, sono i racconti che narrano di “truvature”, di tesori nascosti nel sottosuolo e di prove impossibili di abilità e di coraggio per conquistarli. La tradizione plutonica vuole che gli ambienti incantati da “spegnare” siano quelli territorialmente marcati da evidenze naturali come asperità o anfratti o quelli ritenuti tracce di antichi insediamenti, di accadimenti drammatici e cruenti e di conseguenza ricoveri di forme di vita inquiete, di entità spiritiche irrisolte. A morti violente fondative di miti e credenze sono associati gli incantesimi e le esperienze oniriche da cui muove la caccia ai tesori incantati. In queste leggende che hanno una struttura narrativa prossima alle fiabe di magia confluiscono reminiscenze culte, eredità di occultistica, testimonianze letterarie. Nei processi di rielaborazione popolare è tuttavia trasfuso lo spirito di tensione verso il prodigioso, la perenne ricerca di affrancamento dalla precarietà materiale, l‘aspirazione all’utopica, improvvisa quanto improbabile, fortuna che cambia il destino della vita.
Le incursioni nell’aldilà sotterraneo e gli illusori tentativi per dissotterrare i tesori incantati in determinati punti del territorio sono nelle narrazioni plutoniche espedienti simbolici di nominazione e addomesticamento dello spazio, di marcatura topografica e di riconoscimento sociale. Così che il continuum indifferenziato di monti, grotte, burroni, cunicoli o ruderi è discretizzato in precisi riferimenti a storie, miti, memorie. «Si dovrebbe correr l’Isola tutta quanta – ha scritto Pitrè – e cercare la spiegazione che contadini, montagnuoli, pescatori, artigiani danno d’una valle, d’una grotta, d’un fiume, d’un sasso, d’una montagna, d’una contrada qualsisia. Vi son luoghi che non si comprendono o che si crede comprendere; i dotti almanaccano e si bisticciano; il volgo mette fuori un nome, e da quel nome esce improvvisa una luce che spiega le origini e la storia del luogo stesso».
Nella tipologia di queste storie i moduli narrativi sono abbastanza codificati. C’è un sogno che è il canale che mette in comunicazione spazio e tempo di realtà e immaginario, riverbero di un inconscio che fa dei morti i confidenti dei presagi, gli oracoli di desideri, di speranze, di riscatti. C’è la temerarietà della prova a cui è vincolato il ritrovamento, sfide complicate e beffarde. C’è la presenza di figure di guardiani, di custodi della soglia di accesso al tesoro sotterraneo, animali e più spesso anime di persone sacrificate, vittime di omicidi, che con il loro sangue versato sul luogo della loro uccisione hanno “legato” le ricchezze nascoste. C’è l’interdizione e l’infrazione delle regole procedurali e l’epilogo infine sempre fallimentare dell’impresa così che l’oro sperato si trasforma in cenere, polvere o cose senza valore.
Ritroviamo la struttura di questo schema nei brevi racconti di tesori nascosti nei pressi della torre saracena della primitiva tonnara di Santo Vito, dove si registrarono episodi di efferata violenza durante le vicende storiche delle guerre da corsa e degli assedi dei pirati. Qui Vincenzo narra che a seguito di un sogno premonitore s’imbattè in «un uomo incatenato a guardia di ori e armature preziose», un tesoro sepolto sotto una “balata” che sarebbe stato riscattato solo se al suo posto avesse lasciato sotto la lastra di pietra un’altra persona da sacrificare. Non avendo rispettato il terribile vincolo finì col trovare «solo gusci vuoti di lumache». Non diversamente da chi cerca la bisaccia piena zeppa di monete d’oro che qualcuno vede ogni tanto sospesa nella parte alta del paese di San Vito, o da chi a ponente, sotto il Monte Cofano, o nella “grotta dei cavalli” nei pressi della Cala Mancina sogna di dissotterrare le ricchezze nascoste sotto grandi massi, dopo aver inutilmente cucinato e consumato una gallina nel luogo in cui era stato commesso un assassinio o mangiato una melagrana senza farne cadere un chicco.
Sfide dell’immaginario, forme del pensiero mitico e del desiderio irrealistico, esercizi dell’utopia e del paradosso, oniriche strategie di risoluzione delle contraddizioni della vita. Dei recessi di questo complesso universo umano e culturale Ninni Ravazza ci restituisce in questo libro voci e accenti, grumi di esperienze vissute, vagheggiate o sognate, storie minime di pescatori ai margini di un mare amato e temuto, centro gravitazionale delle ansie e delle speranze, dei gesti e delle parole di un’intera comunità, metafora dell’arcano e dell’enigmatico, del meraviglioso e del minaccioso, del seducente e del terrificante. Del mare che è sempre stato orizzonte della vita e frontiera della morte.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
[*] Per gentile concessione dell’editore si pubblica in anteprima la prefazione al volume di Ninni Ravazza, L’occhio in cima all’albero e altre storie, in corso di stampa presso i tipi di Magenes editore.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).
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