Le tragedie avvenute nel Mar Mediterraneo negli ultimi anni hanno sensibilizzato sempre più l’opinione pubblica sul tema delle migrazioni. Il dibattito pubblico si è spesso acceso e, d’altronde, il fenomeno migratorio condiziona le scelte attuali e le visioni future della politica europea. Conoscerlo, discuterne, approfondirlo è soprattutto necessario. Magari, partendo dal fatto che molti fra i Paesi che attualmente ricevono i flussi migratori dal continente africano sono stati, a loro volta, in passato, protagonisti di un flusso contrario.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento del secolo scorso, milioni di italiani hanno lasciato il loro Paese per cercare fortuna in luoghi spesso molto lontani: una diaspora mondiale ancora oggi visibile in comunità più o meno definite in America, Australia, nel resto d’Europa, proseguita nel secondo dopoguerra. Anche il continente africano ha assistito a una massiccia immigrazione italiana, sia prima che dopo il periodo coloniale.
La Tunisia, con il suo profilo geografico, allungata nel Mediterraneo, è stata nel corso dei secoli al centro di scambi commerciali e di popoli. Ha accolto diverse “ondate” migratorie dall’Italia: dalle comunità tabarchine di origine ligure, con i loro commerci del corallo e l’influenza marinara e politica, agli ebrei livornesi, agli esuli risorgimentali fino alla più recente immigrazione del XX secolo.
Di questo ultimo flusso immigratorio narra il regista Massimo Ferrara nel suo bel film “Maccarruni Siciliani in Tunisia” (2020), straordinario documento di testimonianze, di voci, di storie di vita. Il progetto muove da una idea di Isabella La Bruna e Antonio Farruggia, con musiche originali di Roberta Cauli e Giuseppe Laudanna.
Diversi sono stati i contributi dedicati alla presenza italiana – e siciliana in particolare – in Tunisia negli ultimi anni. Fra tutte le grandi emigrazioni italiane, quella siciliana in Tunisia è di particolare interesse, soprattutto per la stretta interconnessione venutasi a creare tra le famiglie immigrate e la comunità di accoglienza, una connessione linguistica, sociale, a volte anche religiosa.
“Maccarruni” ha il merito di mostrare la “normalità” del fenomeno dell’emigrazione, oggi piuttosto visto come straordinario. Il dibattito attuale, in Italia, spesso verte sul concetto di “necessità dell’emigrazione”, quasi come presupposto alla sua legittimità. Ai rifugiati è internazionalmente riconosciuto un diritto d’asilo dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Gli altri sono clandestini, “migranti economici”, non fuggono da guerre o persecuzioni e quindi, “perché emigrano”?
“Maccarruni”, racconto in 11 capitoli, si apre proprio con questa semplicissima quanto indispensabile domanda: “perché emigrare”? Le risposte sono semplici e chiare, e rappresentano quello che, finora, non è mai stato sancito attraverso un accordo legale vincolante, ma che è largamente condiviso in principio: la libertà di decidere dove si vuol vivere. Lo stabilì esplicitamente nel 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che ogni individuo è libero di muoversi e di lasciare il proprio paese.
Piuttosto, è il racconto dei siciliani di Tunisia che trasforma una palese aspirazione in una narrazione illuminante: è evidente che il desiderio di cercare fortuna in un luogo diverso da quello in cui si è nati o cresciuti è spesso una spinta insopprimibile verso la propria libertà individuale. E gli emigrati siciliani che da fine Ottocento e, ancor più, agli inizi del Novecento del secolo scorso approdavano sulle coste tunisine, ribadivano questo diritto ad affrancarsi, a scegliere il proprio destino.
Nei racconti dei protagonisti di “Maccarruni” c’è tutta l’ammirazione per questi personaggi della propria famiglia, magari mai conosciuti, di cui si era solo sentito parlare nei racconti tramandati, uomini e donne che con coraggio avevano provato a ripartire da zero, in un luogo diverso e lontano. Questa è la forza di chi emigra, d’altronde. Per comprendere le ragioni dei migranti, magari di chi rischia la propria vita attraversando il mare su un barchino, bisogna sempre tenere presente questa grande determinazione, unita a una sincera capacità di astrazione.
Qualcuno direbbe che nella genetica di questi uomini e di queste donne c’era il coraggio degli antichi marinai, lo spirito di iniziativa dei pescatori che si spingono sempre più in là alla ricerca delle proprie fortune. Anche allora “bastava una notte” per attraversare il Canale di Sicilia e approdare sulle coste tunisine, come ci ricorda un altro bel film del regista Manuel Giliberti. In un’epoca in cui si faceva prima ad attraversare il mare piuttosto che l’entroterra siciliano per raggiungere la parte più lontana dell’Isola.
Nei racconti di “Maccarruni” c’è anche chi, da semplice contadino, decise di acquistare una barca e partire alla volta di Tunisi assieme al proprio cane. Vengono alla mente le immagini di un recente sbarco a Lampedusa. Si ritrovano, fra le ragioni dell’emigrazione dei siciliani in Tunisia, gli stessi sogni, gli stessi bisogni dei moderni emigrati che compiono il percorso inverso.
Una miseria diffusa accompagnava spesso chi decideva di abbandonare la Sicilia, spinto da esigenze le più disparate: motivi personali o famigliari (vendette, “fuitine” amorose, fughe per questioni giudiziarie), mancanza di lavoro o di semplici prospettive future, l’insistente minaccia della criminalità organizzata e la sottomissione ai signori locali, prodromi di un sistema mafioso incipiente.
Anche ragioni di convenienza, come il rifiuto di sottoporsi alla leva militare. La renitenza alla leva, fenomeno comune a tutto il Meridione all’indomani dell’Unità d’Italia, fu favorita dall’esenzione alla coscrizione militare per i minori di sedici anni che vivevano all’estero, almeno fino al loro rientro. Una tendenza che peraltro caratterizzò l’alto numero di renitenti fra gli italiani all’estero durante la chiamata alle armi della Prima guerra mondiale.
L’estrazione sociale di questi partenti era per lo più bassa, erano muratori, braccianti, pescatori, piccoli artigiani o nullafacenti. In Tunisia trovavano l’accoglienza di chi li aveva preceduti, terre incolte e da sfruttare, un clima simile alla loro terra d’origine e una popolazione che in gran parte accettava la loro presenza.
Dai racconti dei discendenti di questi emigrati traspare sempre la considerazione che i tunisini hanno per i siciliani e gli italiani in generale, la consapevolezza del ruolo che questi immigrati avevano avuto nel costruire la Tunisia moderna: l’architettura italiana nei quartieri attorno ai centri storici arabi delle città, la diffusione delle imprese agricole e delle produzioni vitivinicole, la compartecipazione alla vita sociale e finanche religiosa della comunità. I racconti delle feste popolari e religiose erano sempre caratterizzati dalla compresenza di esponenti delle varie comunità etniche e religiose: gli italiani, la comunità ebraica, gli arabi, i berberi.
Qualunque italiano arrivi in Tunisia può percepire immediatamente il rispetto e l’amicizia che lega i tunisini agli italiani. Non è una questione semplicemente linguistica o storica: il popolo tunisino ha da sempre riconosciuto una prossimità speciale al modo di essere e di vivere italiano. A questa prossimità faceva da contraltare il rapporto con l’amministrazione francese.
A partire dalla nascita del protettorato con il Trattato del Bardo (1881), che aveva ribaltato le precedenti intese fra il Regno d’Italia e il beilicato tunisino, la Francia aveva imposto il controllo sul Paese nordafricano, paventando sempre più la crescente influenza di altri gruppi stranieri presenti sul territorio e, in particolar modo, degli italiani – quasi centomila agli inizi del XX secolo in Tunisia, molti più dei francesi –, arrivando a definirli “le péril italien”.
La comunità italiana era ormai talmente ben inserita in Tunisia a inizi Novecento, fra proprietà terriere acquisite e la nascita delle prime aziende. I nuovi arrivi dall’Italia erano sostenuti da un sistema creditizio e uno fondiario attraverso società autonome che acquistavano grandi appezzamenti terrieri per parcellizzarli e venderli ai nuovi italiani immigrati.
Persino la produzione vitivinicola – molto diffusa nella zona di Grombalia e del Cap Bon – e il commercio italiani furono ostacolati dall’amministrazione francese attraverso la massiccia introduzione dei prodotti provenienti dall’Algeria, oppure vietando ai siciliani l’introduzione dello zibibbo. A questo proposito, il film racconta un gustoso aneddoto su come questo vitigno venne artatamente introdotto in Tunisia.
È chiaro che la Francia temeva una presenza italiana così ben strutturata, soprattutto quando, durante l’epoca fascista, si assistette a una radicalizzazione nazionalistica. Tuttavia, la manodopera italiana era richiesta e ben sfruttata, anche dai francesi. Numerosi furono gli italiani che, a più riprese, dagli anni ’20 del Novecento in poi, scelsero di naturalizzarsi francesi. Lo fecero per le maggiori opportunità salariali o di accesso a cariche pubbliche, oppure perché obbligati dalle normative sugli stranieri nati in Tunisia entrate via via in vigore, soprattutto all’indomani della vittoria alleata in Nord Africa nella Seconda guerra mondiale. Per di più, molti italiani frequentavano le scuole francesi già dagli inizi del secolo; un ruolo importante era stato svolto dalle missioni ecclesiastiche che operavano spesso in quartieri molto popolari in cui i figli più poveri della migrazione italiana convivevano con i figli del proletariato arabo o di altre comunità straniere.
Il film di Ferrara fornisce un bellissimo esempio di questo meraviglioso affresco sociale ed etnico in Tunisia, con uno dei suoi racconti più intensi e sinceri: la vita attorno al lavatoio del Kef, cittadina al confine con l’Algeria. Qui, le donne siciliane andavano a lavare assieme alle donne della comunità locale, berbere e arabe. Certamente, non le donne francesi, che evitavano di immischiarsi con la loro servitù. Attorno a questo “centro del mondo” nascevano e si incrociavano gli sguardi, la curiosità dei giovani siciliani per le donne del posto, gli amori, le “fuitine”, la tessitura di nuove trame, quei matrimoni misti che sono stati un altro importante elemento della presenza italiana in Tunisia.
Gli italiani assumono pian piano consapevolezza della loro identità multipla, ormai definitivamente partecipi della storia della Tunisia. Il rapporto con l’Italia, patria dalla quale loro e i loro genitori si erano distaccati, restava comunque un rapporto profondo, orgoglioso, come gli episodi di fedeltà al fascismo durante il periodo bellico dimostrarono.
Tuttavia, questi immigrati di seconda o terza generazione, nati in Tunisia, parlanti una lingua confusa di francese e arabo tunisino, con accenni a termini espliciti di dialetto siciliano d’origine, erano ormai pienamente inseriti nel tessuto produttivo e sociale della comunità che li aveva accolti decenni prima. Avevano realizzato il sogno che ogni emigrato fa, quello di realizzarsi, di contribuire al proprio destino: mai del tutto tunisini ma nemmeno più completamente italiani.
A un tratto, queste conquiste vengono drammaticamente e istantaneamente cancellate: le proprietà straniere sono nazionalizzate dalla nuova Repubblica indipendente di Tunisia, sorta nel frattempo (1956). È il 12 maggio 1964 quando le terre così faticosamente acquistate, tramandate di padre in figlio, fatte crescere come le proprietà e le aziende accumulate in quasi un secolo di storia, vengono espropriate dal governo tunisino. Si tratta dell’ultimo atto di affrancamento della Tunisia dalla presenza straniera, dopo la riconquista di Biserta nel 1963 – cui avevano partecipato anche molti italiani accanto all’esercito tunisino – e la cacciata dei francesi dal loro ultimo avamposto.
Gli italiani si sentirono traditi. Traditi da un paese che aveva accolto loro e i loro genitori. Fu, peraltro, un sentimento di doppio tradimento per l’assenza dell’Italia che poco fece per riprenderseli. Molti ormai si sentivano francesi, “assimilati” amministrativamente e culturalmente durante la loro permanenza in Tunisia. L’addio alla Tunisia segna un momento importante di questo racconto e caratterizza la svolta malinconica di una comunità che è stata parte fondante della storia della Tunisia nel XX secolo. Questa malinconia, sottolineata dalla nostalgia per un passato che non c’è più, è l’aspetto forse più evidente di ciò che rimane della presenza italiana in Tunisia. Un passato che però riemerge con orgoglio quando si comincia a raccontare qual è stato il contributo di questa comunità.
C’è forse anche dell’autocompiacimento nel ricordo che ho di uno degli ultimi esponenti della terza generazione di siciliani tunisini. Ivo Salerno aveva una notissima falegnameria nel cuore della Medina di Tunisi. A lui il regista Férid Boughedir aveva affidato il ruolo del siciliano cattolico “Giuseppe” nel celebre affresco cinematografico che celebrò questa ricchissima società multietnica: “Un été à la Goulette” (“Un’estate a La Goulette”, del 1996). “Ca’ semo” (“qua siamo”, ndr), mi ripeteva, sorridendo, quando lo incontrai la prima volta che arrivai a Tunisi, con quel suo modo di parlare tra francese, arabo dialettale e alcune espressioni in dialetto pantesco, a sottolineare orgogliosamente la provenienza della nonna di Pantelleria.
L’ineluttabilità di questa espressione, “siamo qua”, è come un retaggio che il film “Maccarruni” ci consegna, e allo stesso tempo ci sollecita a non disperdere.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Federico Costanza, si occupa di progettazione e management strategico culturale, con un’attenzione specifica all’area euro-mediterranea e alle società islamiche. Ha diretto per diversi anni la sede della Fondazione Orestiadi di Gibellina in Tunisia, promuovendo numerose iniziative e sostenendo le avanguardie artistiche tunisine attraverso il centro culturale di Dar Bach Hamba, nella Medina di Tunisi.
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