il centro in periferia
di Fulvio Cozza
Introduzione
In questo saggio, raccogliendo le riflessioni lanciate da Alessandro Simonicca (2020) su aree interne e turismo pubblicate in un precedente numero di Dialoghi Mediterranei, vorrei condurre chi legge ad esplorare il contesto della cittadina di Serra San Bruno che sorge nel cuore delle Serre calabresi, in provincia di Vibo Valentia (VV) [1].
Visitare Serra San Bruno, indipendentemente che si decida di farlo attraverso le strade che si dipanano lungo il versante tirrenico delle Serre oppure risalendo il versante ionico, significa percorrere un paesaggio che improvvisamente abbandona la macchia bruciacchiata dal sole costiero per lasciare spazio ad una verdeggiante flora d’alto fusto. A quel punto all’ulivo sopraggiungono i boschi di faggio e abete bianco.
Quando infine si fa ingresso nella cittadina, al culmine di un climax ascendente ben architettato, si viene come risucchiati dall’elegante granito di corso Umberto I che calamita il visitatore costringendolo a proseguire il suo cammino attraverso i diversi edifici sacri che su tale tracciato si affacciano: la chiesa Matrice dove termina l’attesissima processione con busto reliquiario di San Bruno(custodito dai monaci certosini per la restante parte dell’anno); La chiesa dell’Addolorata, la chiesa dell’Assunta di Terravecchia e poi – oltre il corso del fiume Ancinale –la chiesa dell’Assunta di Spinetto, tre chiese contraddistinte da tre diverse congreghe religiose assai attive nella vita culturale cittadina. Quindi il percorso lascia nuovamente il centro abitato per giungere innanzi alla Certosa dei Santi Stefano e Bruno, là dove vive una piccola comunità monastica di ristrettissima clausura (Caminada, Ceravolo, Tassone, 2014). Qualche chilometro più avanti, completamente immerso nel verde, il santuario di Santa Mariadel Bosco, il laghettoe il cosiddetto dormitorio San Bruno.
Insomma, l’itinerario che ho appena descritto e che attraversa strade, piazze, luoghi e monumenti di Serra, prima ancora di essere oggetto dell’interesse turistico, ingloba vicende, personaggi, valori e tradizioni legate a doppio filo con il senso di appartenenza dei serresi (Ceravolo, 2017; Teti, 2004). I luoghi da visitare si sovrappongono ai luoghi della vita quotidiana generando un’arena piuttosto turbolenta di attori in competizione per l’offerta di beni e servizi attrattivi (Cozza, 2018). Ma al di là di coloro i quali sono impegnati in questo genere di lotte, in molti casi le diverse proposte della valorizzazione territoriale diventano degli espedienti retorici per muovere più generali considerazioni riguardanti il ruolo di Serra all’interno del contesto regionale. È in tali casi che emerge una caratteristica difficoltà nel percepirsi parte di una rete di relazioni interdipendenti.
In questo intervento tenterò di descrivere tale genere di retoriche di senso comune facendo emergere le particolari idee di relazionalità che queste sembrano sottendere. Sono convinto che il caso serrese possa fornire utili riflessioni alla più generale discussione sulle relazioni di convivenza e reciprocità tra le aree interne, i centri circonvicini e le grandi linee di comunicazione (Simonicca, 2020).
Al di là della collocazione “remota” che sembra suggerire la storia di una cittadina di montagna scelta da San Bruno proprio per installarvi una comunità monastica di ristrettissimo isolamento, il passato serrese – e in particolar modo quello della sua prestigiosa Certosa – mostra invece quanto tale località fosse considerata un centro decisionale internazionale e quanto dunque le aree circonvicine, nello specifico le coste del Tirreno e dello Ionio, fossero contraddistinte da quell’alone di marginalità che oggi si tende ad assegnare alle cosiddette aree interne. Si tratta insomma di concepire la marginalità delle aree interne non solo come il frutto di oggettive carenze infrastrutturali ma anche come il risultato di alcune particolari disposizioni culturali che fanno perno sul rifiuto della reciprocità e sul disconoscimento degli altri.
La “maestranza” serrese e gli altri
San Bruno di Colonia, come è facile immaginare, è colui dal quale scaturisce il sinecismo della comunità nel 1091 legandola a doppio filo con i destini della Certosa. I primi serresi sono infatti gli appartenenti alle maestranze impiegate nella costruzione e nella gestione degli edifici destinati ad ospitare i monaci dell’Ordine certosino. Poi, tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII la Certosa vive un periodo assai florido, il monastero viene infatti ricostruito e abbellito con il concorso di artisti provenienti dalle varie parti d’Italia e d’Europa: Poccetti, Fanzago e Müller spiccano tra gli altri (Mazza, 2012).
L’intervento di questi uomini di cultura non solo incrementa il patrimonio architettonico certosino, ma fa anche da stimolo alla popolazione locale che progressivamente si dota di un gruppo di artigiani del legno, della pietra e del ferro che fa tesoro delle influenze artistico-culturali esercitate dalla Certosa. Le loro opere risentono profondamente dei temi e dei motivi proposti dentro il monastero e infatti i richiami, le citazioni e i riutilizzi sono assai diffusi in tutto il centro abitato di Serra e costituiscono spesso le tappe delle cose da mostrare ai turisti. È l’eredità della cosiddetta Maestranza serrese (maistranza di la Serra), una classe di maestri artigiani d’importanza quantomeno regionale e divenuta oggi autentico mito a cui fanno riferimento tutti i serresi quando vogliono far emergere le specificità locali. Non è un caso infatti che lo stemma comunale di Serra San Bruno sia un autentico manifesto della maestranza: tre abeti e una sega da boscaiolo, una squadra da carpentiere e infine un martello ed un’incudine. Tre richiami alle tre storiche vocazioni artigianali serresi.
Ascoltare le imprese della Maestranza dalla viva voce dei serresi significa passare in rassegna gli sfarzosi arredi sacri che impreziosiscono le chiese locali e nutrono la rivalità tra le tre congreghe religiose: «le chiese serresi sono dei gioielli invidiate da tutti»; Maestranza significa anche ascoltare i resoconti di una comunità affratellata: «giravano molti soldi e la gente stava bene; maestro e garzone vivevano tranquilli, senza invidia», ma soprattutto richiamarsi alla Maestranza significa generare un impietoso paragone col tempo presente.
In tal senso l’abitudinaria passeggiata pomeridiana che faccio insieme ad un gruppo di amici e amiche quarantenni lungo corso Umberto I, arricchito da un elegante basolato «scolpito dai maestri scalpellini serresi», fa emergere una serie di paragoni piuttosto irriverenti tra la saldezza del «granito serrese» installato dalla Maestranza e l’asfalto «moderno» tempestato di buche, destinato a non durare più di qualche mese. «Non avevano bisogno di particolari materiali», mi spiega Bruno, «utilizzavano la roccia delle nostre montagne e lo facevano talmente bene che ancora sta lì come il primo giorno».
Nei discorsi ricorrenti lo splendore della Maestranza fa da contrasto retorico al degrado morale della Serra del presente (Aliberti, 2018). È importante sottolineare che il senso di affiatamento che contraddistinguerebbe l’epoca della Maestranza è il frutto di una comunità serrese assai idealizzata e che infatti può esistere solo nell’altrove cronologico più o meno mitico del tempo di San Bruno, durante il Rinascimento, al ritorno dei Certosini dopo il terribile terremoto del 1783, dopo la Seconda Guerra Mondiale o addirittura negli anni Ottanta del Novecento, mai però ci può essere lo spirito della Maestranza nel tempo presente. Più raramente alcuni discorsi elettorali preannunciano una Maestranza che sarà riportata in vita, però mi sembra di osservare un marcato scetticismo da parte di tutti.
Naturalmente il tema nostalgico dell’epoca della maestranza non può che intrecciarsi con la retorica del potenziamento turistico, questo sembra essere il grimaldello favorito da tutti quei cittadini che intendono fare un discorso assai più ampio sul senso del luogo e sulle sue relazioni con i contesti circonvicini. Ecco allora che il mito della Maestranza ricorre nelle differenziate discussioni riguardanti le “occasioni mancate” da Serra San Bruno e così facendo si compara la cittadina serrese con centri turistici sulla costa, se ne esplorano i rapporti e ci si interroga sulle ragioni dei successi altrui che a più di qualche persona di Serra sembrano apparire piuttosto ingiustificati. Questo è quello che succede allorquando mi trovo a parlare del rapporto coi centri turistici della costa tirrenica come Tropea e Pizzo in provincia di Vibo Valentia, oppure della ridente località balneare di Soverato sulla costa ionica ed in provincia di Catanzaro.
Maria, impiegata di circa cinquant’anni, mi spiega che per queste cittadine il successo si è potuto realizzare solo nel momento in cui l’area delle Serre è stata volutamente indebolita. A tal proposito Maria mi parla dell’epoca del Kursaal, un ex ostello situato nel centro storico di Serra San Bruno poi trasformato in ristorante e sala ricevimenti durante gli anni Ottanta e infine chiuso nella seconda metà degli anni Novanta. Il Kursaal è divenuto oggi il simbolo più ricorrente dei discorsi nostalgici sullo splendore turistico della Serra di un tempo e infatti Maria mi racconta che:
«Quando ero piccola io, Serra era il centro turistico di tutta la Calabria. Venivano i “villeggianti”, così li chiamavano. Venivano qui perché qui c’è l’aria salutare della montagna e poi ci sono questi boschi che sono una cosa meravigliosa. Persone da Catanzaro, da Reggio, dalla Sicilia… da tutte le parti, anche dal nord Italia. C’era il Kursaal che organizzava feste e balli che oggi ce li sogniamo. Era un’attrazione per tutta la Calabria, Soverato e Tropea non le conosceva nessuno […] Adesso dove vanno queste persone? Vanno a Tropea, vanno a Pizzo, vanno a Soverato… ma se vai a vedere loro non hanno le cose che abbiamo noi. Che turismo è quello? Solo mare affollato, lu tartufu, la cipuda… ma noi abbiamo delle chiese che sono delle bomboniere, la chiesa dell’Addolorata potrebbe fare bella figura anche a Roma».
La comparazione di Maria chiama in causa una storica «gelosia» nutrita da tali cittadine nei confronti dello splendore serrese dell’epoca della Maestranza. Una gelosia sancita dal fatto che Serra San Bruno e il suo nobilissimo patrimonio culturale sarebbero ingiustamente meno conosciuti rispetto a due prodotti gastronomici che lei considera “banali” come il gelato al “Tartufo di Pizzo” e la Cipolla di Tropea.
«La provincia di Vibo Valentia non vedeva l’ora di penalizzarci», continua Maria che individua nell’inserimento di Serra nella nuova provincia di Vibo Valentia l’origine di molti problemi. Tale provincia è stata istituita nel 1992, assieme alla provincia di Crotone (KR), attraverso una ripartizione del territorio precedentemente incluso nella provincia di Catanzaro (CZ). Il territorio provinciale confina con quello di Catanzaro a nord-est e con quello di Reggio Calabria (RC) a sud, si estende dalla costa Tirrenica ed ingloba una parte delle Serre calabresi con appunto l’importante cittadina di Serra San Bruno. Secondo i dati Istat del 2017 la provincia è la meno popolosa della Calabria con i suoi 160.889 abitanti. I comuni più popolati sono nell’ordine: Vibo Valentia (34.133), Pizzo (9.311), Mileto (6.734), Serra San Bruno (6.628), Tropea (6.313), Nicotera (6.158) e Filadelfia (5.261). Se si osserva il dato crudo degli abitanti provando ad immaginarli come a degli indicatori d’influenza politica, salta agli occhi che il peso di Serra San Bruno sembra essere assai più decisivo nella provincia di Vibo Valentia piuttosto che in quella di Catanzaro, qui infatti la cittadina si troverebbe davanti almeno sei centri tra i quali due dei comuni più popolosi della regione come Catanzaro (88.035) e Lamezia (69.934).
Tuttavia, non sono pochi gli abitanti che esprimono la volontà di tornare nella provincia di Catanzaro. Maria mi racconta che:
«Quando stavamo sotto [la provincia di] Catanzaro le cose andavano meglio, eravamo considerati, ci sono tanti serresi che vivono a Catanzaro e che sono diventate persone importanti, che hanno fatto la fortuna di Catanzaro ma che hanno tenuto la casa a Serra. Sono rimasti legati diciamo… E poi noi culturalmente siamo più catanzaresi che vibonesi, te ne accorgi anche dal dialetto. […] Non ci poteva essere gelosia tra di noi».
Anche Biagio, ristoratore di circa sessant’anni, mi parla dello «sciagurato» passaggio di Serra alla Provincia di Vibo Valentia. Per farmi avere una prova tangibile del suo discorso, con amara ironia, m’induce ad osservare lo stato delle vie di comunicazione delle due provincie. Biagio mi spiega:
«Guarda le strade: quelle che salgono da Soverato sono belle asfaltate e in ordine, appena si entra nella provincia di Vibo cominciano i crateri, i tratti sterrati che ci spacchi la macchina. Se ci fai caso c’è proprio un punto dove c’è il cartello del confine con la provincia di Vibo e tu vedi l’asfalto bello nuovo che finisce con la provincia di Catanzaro e cominciano le buche. Un turista che vuole venire a Serra partendo da Tropea si deve fare il segno della croce. […] ma tu pensi che a Vibo se ne preoccupano? A loro che gli interessa? Se i turisti tedeschi se ne stanno al mare a Tropea e a Pizzo è meglio per loro così resta lì e consuma lì. Fanno il loro interesse, capito?»
La Strada Statale 713, detta Trasversale delle Serre, è stata aperta nel 1985 con l’intenzione di fornire una via di comunicazione veloce tra la sponda ionica e quella tirrenica attraverso il territorio delle Serre calabresi. Effettivamente ad oggi l’arteria risulta completata solo in alcuni punti e si attende ancora la realizzazione dell’intera tratta. Tuttavia, devo dire che faccio una certa fatica a leggere le problematiche elencate dai serresi come il frutto di un peculiare piano ventennale orchestrato da Vibo Valentia, Tropea, Pizzo o Soverato al fine di danneggiare lo splendore di Serra San Bruno. Ahimè, criticità più o meno analoghe a quelle elencate dai miei interlocutori e dalle mie interlocutrici sembrano assai condivise non solo dai medesimi abitanti di quelle città che tramerebbero contro Serra, ma anche dai calabresi tutti, così come da tutti coloro i quali vivono nel territorio nazionale e che si misurano ogni giorno con specifici impedimenti e disuguaglianze.
Quel che però mi colpisce è l’immagine degli altri che emerge da tale senso comune e le conseguenze che questo genera nella rappresentazione della comunità serrese. Si tratta di un moto di sfiducia sistematica nei confronti degli altri. Gli altri sarebbero quelli che provano invidia per lo splendore serrese, gli altri sarebbero quelli che hanno affossato Serra e gli altri sarebbero ancora oggi una fonte continua di pericoli. Le lamentele sullo stato delle vie di comunicazione non considerano mai la possibilità che lo stato disastrato delle strade per Serra possa essere un danno per quegli stessi stakeholders del turismo costiero, magari impossibilitati a fornire ai visitatori delle esperienze variegate (Simonicca, 2015).
In tal senso il mito della Maestranza finisce assai spesso per diventare la celebrazione di una comunità arroccata su sé stessa, che basta a sé stessa, che sopravvive alle asperità della montagna grazie alla caparbietà e al valore dei suoi abitanti; una comunità dunque che pretende di non avere alcuna relazione con l’esterno. Anzi, avere dei legami di reciprocità con l’esterno significherebbe deteriorare ulteriormente lo stato della comunità. Infatti, il discorso di Maria sui catanzaresi che non possono nutrire “invidia” per Serra si basa sulla condivisione di un’identità serrese decisamente essenzializzata.
Si tratta di un’idea di comunità che mi lascia profondamente perplesso, a cominciare dal fatto che senza una relazione con gli altri – ad esempio gli artisti di fama internazionale attirati dal prestigio di San Bruno e della Certosa – assai difficilmente ci sarebbe stata una così rilevante Maestranza serrese.
Una comunità di individualisti
Naturalmente le idee di comunità serrese che ho appena descritto hanno poi una profonda influenza sui processi di produzione del sito e dunque sulle pratiche dell’accoglienza turistica (Simonicca, 2015). Da questo punto di vista, insieme all’assai diffuso e giustificato malcontento circa lo stato delle vie di comunicazione si aggiunge una fortissima sfiducia nei confronti delle iniziative di sviluppo indipendentemente che questa vengano caldeggiate da attori politici o da operatori del turismo, da attori locali o da personaggi regionali. In riferimento alla mia frase sulla possibilità di creare una rete sinergica di stakeholders tra i centri costieri e quelli delle Serre, Biagio si mostra piuttosto adirato anche in virtù della sua lunga esperienza di ristoratore:
«Sono anni che sento dire questa cosa ma alla fine ci rimettiamo sempre noi serresi. Perché? È un turismo mordi e fuggi. Che fanno? Fanno venire i turisti con i pullman, li fanno stare dieci minuti in centro a vedere la Chiesa Matrice, l’Addolorata (se c’è tempo l’Assunta), un’oretta alla Certosa e altri venti minuti a Santa Maria e poi se ne tornano negli alberghi di Tropea. Alla fine della giornata il turista a Serra ha consumato qualche caffè, un panino, niente di più».
A questo punto mi sembra importante concentrare la discussione su tale sentimento di sfiducia che così spesso pervade i discorsi sul turismo nel contesto serrese. Senza dubbio un buon punto di ingresso riflessivo può essere l’osservazione delle pratiche che pervadono l’organizzazione e la gestione di quegli eventi durante i quali interagiscono visitatori e stakeholders. In tal senso vorrei concentrare l’attenzione su un’iniziativa chiamata sagra della pitta china cu lu pipi di maju promossa dalla Pro Loco di Serra San Bruno, che s’inserisce all’interno di una manifestazione cittadina più grande organizzata sul modello delle cosiddette “notti bianche”.
A detta degli organizzatori l’idea che sottende tale sagra è quella di celebrare un prodotto gastronomico che ancora una volta racchiude al suo interno lo spirito della Maestranza serrese. Infatti, essendo una focaccia ripiena di olive, cipolle di Tropea, acciughe e fiori essiccati di sambuco, la pitta china testimonierebbe il benessere dei serresi di un tempo che «essendo artigiani potevano permettersi il lusso» di acquistare e preparare una focaccia a base di quelle «costose materie prime difficilmente reperibili in montagna». Per condurre in porto una tale operazione promozionale, i membri della Pro Loco cercano di arruolare i ristoranti, i panifici e le pizzerie di Serra chiedendo a ciascuno degli esercizi coinvolti di fornire una teglia di pitta china da vendere al banchetto della Pro Loco approntato su corso Umberto I, proprio innanzi all’iconica chiesa di Maria Santissima dei Sette Dolori detta dell’Addolorata. È questa la chiesa della maestranza per eccellenza. Gli appartenenti alla congrega dell’Addolorata sono infatti spregiativamente definiti «jumbarusi», cioè “ingobbiti”, a causa della postura che questi proverbialmente tenderebbero ad assumere quando lavorano in un’officina artigianale.
Ma i primi dilemmi sorgono proprio mentre si costruisce quella rete di produttori gastronomici che devono essere coinvolti nella sagra della pitta china. Uno dei membri della Pro Loco, impiegato di circa quarant’anni, mi riferisce che in tali casi occorre ad ogni costo evitare che qualcuno dei rivenditori si possa “offendere”, «si sputti», giudicando ingiusto il trattamento riservatogli. Ed è proprio per prevenire il sorgere di questo genere di “offese” che i membri della Pro Loco stampano dei cartelli con i nomi dei diversi esercizi coinvolti nella sagra e provvedono a posizionarli accanto alle rispettive teglie. Naturalmente, basta un colpo d’occhio per notare che ogni esercizio ha interpretato a modo suo la «tradizionale pitta china serrese» e lo ha fatto articolando forme, modalità di cottura o addirittura ingredienti.
La sagra riscuote un notevolissimo successo ma ogniqualvolta un acquirente chiede innocentemente un consiglio su quale delle tante pitte chine possa essere considerata «la più buona», si sente rispondere che «a modo loro sono tutte buone». Su questo punto i membri della Pro Loco mi sembrano inflessibili, più volte al banchetto ci si raccomanda di non suggerire mai alcuna preferenza ai consumatori. Nonostante tutte queste cautele nei giorni seguenti mi capita di raccogliere alcuni malumori cittadini. C’è chi storce il naso riguardo alla scelta di celebrare la pitta china, tutto sommato un piatto assai diffuso in tutta l’area delle Serre. C’è poi chi si lamenta per un’iniziativa giudicata eccessivamente inclusiva. Una sagra cioè che aveva messo sullo stesso piano produttori assai diversi col risultato di «confondere il turista» attraverso uno stand troppo variegato nel quale le «vere eccellenze» gastronomiche si perdevano tra prodotti giudicati più grossolani. Simili lamentele non sembrano stupire Biagio. Egli mi spiega:
«A Serra c’è tanta gelosia. Siamo un paese di individualisti […] se organizzi una cosa sono solo grattacapi. Perché quello si sputti [cioè si offende] perché non è stato considerato, quell’altro perché è stato considerato troppo, non fai contento mai nessuno […] C’è gente che non va più nei locali di Serra per non sentire la gente che si offende. Se tu vai in un bar di Serra devi andare sempre lì, se cambi allora poi te lo fanno notare. Ci sono persone che preferiscono comprare le cose a Soverato per non farlo a Serra. Perché se no ti dicono “eh, non potevi venire da me?”. C’è questa mentalità qui da noi».
Mi sembra opportuno riflettere sul concetto di “offesa” che come si sarà già notato a Serra, ma non solo, tende ad assume una connotazione piuttosto sessualizzata. La parola sfottere evidentemente deriva da “fottere” (dal latino futuere, possedere sessualmente) e nell’italiano comune le due accezioni del verbo indicano la presa in giro o una particolare forma di deterioramento che può occorrere a persone ed oggetti. Nel dialetto serrese la componente canzonatoria di sfottere è del tutto marginale mentre quella legata alla corruzione di una specifica integrità assume un ruolo centrale. Una persona che a Serra è “sfottuta” (sputtutu) è una persona che ha subìto un torto del quale difficilmente si può ridere o fare autoironia, la parola indica anche un atteggiamento di profonda ostilità nei confronti di coloro i quali sono ormai considerati nemici e denota anche la difesa piuttosto aggressiva della propria reputazione minacciata. Riguardo al diffuso ricorso alle metafore sessuali per descrivere le relazioni di dominio, Pierre Bourdieu ha notato che:
«Sopra o sotto, attivo o passivo – queste alternative parallele descrivono l’atto sessuale come un rapporto di dominio. Possedere sessualmente – in francese baiser, in inglese to fuck o in italiano fottere – equivale a dominare nel senso di sottomettere al proprio potere, ma anche a ingannare o, come si dice in francese, ad avoir [avere] (mentre resistere alla seduzione equivale a non lasciarsi ingannare, a non se faire avoir [farsi avere], appunto). Le manifestazioni (legittime o illegittime) della virilità si situano nella logica della prodezza, della grande prestazione che fa onore. E benché la gravità estrema della minima trasgressione sessuale vieti di esprimerla apertamente, la sfida indiretta per l’integrità maschile degli altri uomini racchiusa in ogni affermazione virile contiene il principio della visione agonistica della sessualità maschile, che si dichiara in modo più diretto in altre regioni dell’area mediterranea e non solo di essa» (Bourdieu, 2014: 28-29, enfasi dell’autore).
Insomma, nel contesto serrese quando si parla di persone offese si sta in qualche modo facendo riferimento al danneggiamento del valore di queste persone introiettato da quel secolare lavoro storico di costruzione delle differenze di genere maschile e femminile che tende ad assegnare ai primi l’attività e alle seconde la passività (Ghigi e Sassatelli, 2018; Guillaumin, 2006). Sarebbe a dire, con le parole di Connell (2009, 1995), che si mettono in dubbio quei caratteri locali della maschilità egemonica come l’autonomia, la destrezza, l’occupazione dello spazio – si potrebbe dire l’essere maestri – “deteriorandoli” con gli attributi della subalternità come appunto la debolezza, la remissività e la dipendenza.
È in questo senso che mi sembra opportuno interpretare l’irritazione di alcuni nel vedere i loro prodotti “accomunati” a quelli degli altri; ed è sempre in questo senso che è possibile leggere la critica alla medesima iniziativa della Pro Loco, “colpevole” di avere in qualche modo neutralizzato la distribuzione dei capitali simbolici mettendo in relazione il successo degli uni col quello degli altri, il buon esito dei prodotti d’eccellenza con quelli considerati più ordinari, la destrezza «del vero maestro» con la mediocrità del «garzone».
In questo quadro emerge con forza una particolare difficoltà vissuta nel contesto serrese allorquando ci si trova collegati da legami di reciprocità. L’idea di essere in qualche modo invischiati in una rete di interdipendenza, l’idea di «dover dire grazie a qualcuno», l’idea che il successo altrui possa essere condiviso, l’idea di dover tollerare un’alterità sembra avere effetti urticanti. La collocazione di un individuo all’interno di un circuito di convivenza e interdipendenza lo sottopone ad un influsso pensato come nocivo e che pone dunque il soggetto in cattiva luce innanzi allo sguardo valutante degli altri che pure lottano per l’affermazione del loro blasone e dunque del loro individualismo. Come scrive Bourdieu a proposito del concetto di onore presso i berberi della Cabilia:
«Il privilegio maschile è anche una trappola e ha la sua contropartita nella tensione e nello scontro permanenti, spinti a volte sino all’assurdo, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità. Nella misura in cui ha di fatto come soggetto un collettivo – la linea dinastica o la casa – a sua volta sottoposto alle esigenze che sono immanenti all’ordine simbolico, il punto d’onore si presenta di fatto come un ideale o, meglio, come un sistema di esigenze votato a restare, in più di un caso, inaccessibile. La virilità, intesa come capacità riproduttiva, sessuale e sociale, ma anche come attitudine alla lotta e all’esercizio della violenza (in particolare della vendetta) è prima di tutto un carico. In opposizione alla donna, il cui onore, essenzialmente negativo, può essere solo difeso o perduto, in quanto legato, successivamente, alle virtù della verginità e della fedeltà, l’uomo “veramente uomo” è quello che si sente tenuto a essere all’altezza della possibilità che gli viene offerta di accrescere il suo onore cercando la gloria e la distinzione nella sfera pubblica» (Bourdieu, 2014: 62-63, enfasi dell’autore).
In tal senso la logica dell’individualismo, in ogni momento, “corre il rischio” di vivere la sconfessione del proprio tanto coltivato sentimento di indipendenza, la smentita della propria capacità di bastare a sé stessi, di non avere bisogno di una alterità per vivere una vita ch’è tuttavia costitutivamente relazionale e interdipendente al di là di qualsiasi diversità.
Conclusioni
La sensazione di malessere che molti abitanti di Serra San Bruno sembrano avvertire nei confronti di centri ed attori decisionali ed economici, siano essi esterni o interni al contesto locale, fa spesso perno su una retorica del mancato sviluppo turistico che pone il contesto cittadino in una dimensione di isolamento. La medesima collocazione orografica dell’abitato, nonché la secolare tradizione monastica dell’area delle Serre, forniscono quel materiale simbolico necessario alla costruzione di una comunità che si autorappresenta come arroccata e che tale deve restare.
Il clima rigido, le asperità tempranti della vita di montagna, il senso di appartenenza alla vicenda storica-mistica di Bruno di Colonia e il fatto che gran parte degli arredi architettonici ripropongono costantemente il tema dell’unicità della Certosa e della relativa Maestranza; sono tutti elementi che se da un lato contribuiscono a caratterizzare lo spirito del luogo, d’altro canto finiscono per scoraggiare gran parte delle proposte di riproduzione della località che intendono spingersi oltre l’isolamento e la conservazione degli equilibri di potere.
Non si tratta qui di favorire uno sviluppo turistico prettamente economico che si riveli poi cieco e sordo innanzi alle necessità della sostenibilità locale, si tratta invece di riconsiderare la fisiologia di un territorio e quella dei relativi gruppi umani obbligati a fare i conti con la necessità della convivenza interdipendente. Intraprendere questo percorso significa considerare le carenze e le problematiche infrastrutturali del territorio delle serre calabresi come un problema comune e non come una questione riguardante solo l’area interna o quel particolare territorio comunale. Occorre condurre una riflessione più approfondita sul sistematico senso di sfiducia che ritrae o scoraggia ogni proposta d’intervento territoriale e frammenta la costruzione della comunità.
Del resto, è proprio la gloriosa storia di Serra San Bruno e della sua prestigiosa Certosa a far emergere la diretta relazione che esiste tra la chiusura verso l’esterno e il senso di marginalità. Nonostante l’asprezza delle vie di accesso al monastero – nel Cinquecento certamente più precarie di oggi – è piuttosto arduo definire “area interna” la Serra delle fasi di massimo splendore della Certosa, intendendo con questo termine la sensazione di perifericità rispetto alla riproduzione di un destino comune. E infatti quella stagione di splendore e di apertura verso l’esterno si è poi tradotta nell’esperienza della maestranza serrese, favorita appunto dal dialogo tra esterno e interno, tra influenze internazionali e skills locali.
Insomma, ogni costruzione di comunità presuppone un incontro, un confronto, una negoziazione tra attori e istituzioni che naturalmente concorrono alla riproduzione del sito con tutte le problematicità che possono generarsi. È chiaro, la varietà delle poste in gioco rende piuttosto irenico il modello di una comunità definitivamente liberata dal conflitto, ma diverso è il discorso che si sforza di negoziare e concertare le azioni più importanti da intraprendere, siano esse di livello locale, regionale o nazionale.
Essere parte di una comunità, che si tratti di esterni o di serresi, di turisti o di locali, significa fare i conti con quel senso di interdipendenza, dunque di parziale perdita del controllo, che il pensiero occidentale moderno sembra avversare accanitamente. Non sembra però vano esplorare le possibilità offerte dall’interdipendenza nei termini di un approccio più sinergico alla progettazione della comunità e dunque alle risorse da scambiare nell’arena dell’incontro turistico e non solo.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Desidero ringraziare per la pazienza e la disponibilità dimostratami tutte le mie interlocutrici e tutti i miei interlocutori che ho avuto modo di incontrare a Serra San Bruno e nei centri del circondario delle Serre. Per questioni di riservatezza ho adottato dei nomi di fantasia per tutte le persone di cui parlo in questo saggio. Ringrazio anche Alessandro Simonicca e Pietro Clemente per i preziosi suggerimenti riguardanti alcuni temi qui trattati, naturalmente le carenze del testo debbono essere attribuite esclusivamente alla mia responsabilità.
Riferimenti bibliografici
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Caminada, B., Ceravolo, T., Tassone, F., 2014, San Bruno e i certosini, Serra San Bruno, Edizioni della Certosa.
Ceravolo, T., 2017, Gli Spirdàti. Possessione e purificazione nel culto di San Bruno di Colonia (XVI-XX secolo), Soveria Mannelli, Rubettino.
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Ghigi, R., Sassatelli, R., 2018, Corpo, Genere, Società, Bologna, Il Mulino.
Guillaumin, C., 2006, “Il corpo costruito”, Studi Culturali, III, 2, 2006: 307-341.
Mazza, F., (a cura di), 2012, Fabrizia, Serra San Bruno. Storia, cultura, economia, Soveria Mannelli, Rubettino.
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Simonicca, A., 2020, “Fra mobilità turistica e aree interne”, in Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020.
Teti, V., 2004, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli.
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Fulvio Cozza, ha conseguito nel 2020 il titolo di Dottore di Ricerca in Antropologia Culturale ed Etnologia presso la Sapienza Università di Roma con una tesi sugli studenti di archeologia romana, indagando il rapporto tra le pratiche quotidiane e l’incorporazione delle tecniche archeologiche professionali. Si interessa di antropologia del quotidiano e antropologia del patrimonio.
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