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Sonno, sogno e veglia. Quattro variazioni in chiave auto-etnografica

 

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Il sonno e la veglia (ph. Licia Taverna)

di Stefano Montes

Quali soglie separano il sonno dalla veglia e il sogno dalla realtà? Mi sono posto queste domande in quattro brevi variazioni che ho scritto – trascritto, se si tiene conto dei suggerimenti forniti surrettiziamente dal sogno – tenendo a mente l’idea di contrappunto di Said (Said 1998). Il ricorso al contrappunto consente, a mio parere, di meglio concepire un’antropologia aperta, più atta a rendere l’intreccio di prospettive molteplici, meno disancorata dai contesti plurivocalici. In queste variazioni, ho tratto spunto dalla mia esperienza personale; anzi, a dire il vero, ho pensato queste variazioni come a vere e proprie auto-etnografie in cui, più che risposte, era necessario produrre rimandi contrappuntistici.

Amo Bach, amo Emerson, Lake and Palmer. Amo la notte, amo il giorno; di più, amo indugiare sulle soglie che li contraddistinguono. Traggo un piacere particolare nell’indugiare sulle soglie sottili che identificano (e, a volte, contrappongono) il giorno e la notte, così come il sonno e la veglia o la realtà e il sogno. E ho assecondato, qui, questa mia tendenza che, tra l’altro, ha un fondamento musicale. Per quanto riguarda il sogno, più che rifarmi a una versione interpretativa di stampo freudiano, ho preferito fare delle incursioni in campo più specificamente antropologico, insistendo particolarmente sul concetto di passaggio e limite, così come sul valore della circolazione dei vari messaggi.

Il passaggio, quale che sia la sua configurazione, è sovente ritualizzato. Dalla notte al giorno, per esempio, affinché si compia il transito, devono essere portati a termine alcuni atti di riaggregazione sovente d’ordine sociale, riconosciuti in quanto tali. Il margine del risveglio deve essere trasformato in momento di vera e propria riaggregazione alla società e ai suoi orientamenti. Più in generale, tutto ciò rimanda al vivere e alla sua definizione. Cosa vuol dire vivere in effetti? Per Van Gennep, «vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo, mutare stato e forma, morire e rinascere; in altre parole si tratta di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire, ma in modo diverso. Sono sempre nuove le soglie da valicare: soglie dell’estate o dell’inverno, della stagione o dell’anno, del mese o della notte» (Van Gennep 1981: 166).

Interrogarmi sulle soglie del vivere – e dormire e vegliare e sognare – ha soprattutto voluto dire, per me, mostrare alcune vulnerabilità. Poco importa! Siamo vulnerabili, più di quanto siamo disposti ad ammettere. Prenderne coscienza è, tuttavia, anche un modo per sbarazzarsene (Behar 1996). Per quanto riguarda il sogno, più specificamente, negli anni la bibliografia è diventata ragguardevole in antropologia. Io ho citato soltanto i testi a cui ho fatto riferimento diretto e di cui mi sono servito per le mie riflessioni e pratiche oniriche.

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Prendere coscienza (ph. Licia Taverna)

È utile anticipare qui sinteticamente che, se in Occidente prevale una dimensione privata e individuale del sogno, in altre culture il sogno ha invece altre valenze: può riguardare l’intera comunità e avere effetti sociali che vanno al di là del singolo individuo e della sua sola vita interiore o psichica (Tedlock 1987). La soglia tra individuo e collettività, in altre culture, non è così forte come in Occidente: in Mongolia, per esempio, «on peut très bien rêver pour quelqu’un d’autre, et même rêver pour quantité d’autres personnes» (Humphrey, Hürelbaatar 1996: 2). I sogni possono anche avere una natura pubblica e se ne può fare un uso sociale. Tra gli Xavante del Brasile, per esempio, i giovani trasmettono agli altri le canzoni che sognano e, così facendo, la loro esperienza intima e personale viene trasformata in funzione sociale collettivamente condivisa (Graham 1995). Un altro elemento di importante riflessione in questo mio specifico approccio riguarda la nozione di soggetto. Riflettere sulle soglie, in modo particolare sul sonno e sul sogno e sulle loro demarcazioni sempre incerte, significa infatti riconsiderare il ruolo usuale e sociale che assegniamo al soggetto e alla sua forza agentiva.

Scrivendo queste quattro variazioni contrappuntistiche, mi tornavano continuamente in mente – condivisibili o meno che siano – le parole di Lévi-Strauss: «Ognuno di noi è una sorta di crocicchio ove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è scelta: è una questione di puro caso» (Lévi-Strauss 1980: 17). Il soggetto viene visto da Lévi-Strauss alla stregua di un contenitore, con capacità di scelta ridotta, all’interno del quale prendono forma gli eventi; tuttavia, in contrappunto, è altrettanto vero dire che, nella formulazione di Lévi-Strauss, il caso acquisisce una forza agentiva di tutto rispetto. Quale che sia il posto riservato al soggetto, è comunque bene tenere conto del «caso come categoria nella produzione degli avvenimenti» (Foucault 1971: 61). In fondo, queste mie quattro variazioni sono state un modo per riflettere, tra le altre cose, sul posto assegnato nella vita (e nella cultura) non soltanto alle soglie in quanto tali, ma anche alle nozioni di soggetto e di agentività. Per molti aspetti, non sono anch’essi, soggetto e agentività, delle soglie?

I. Auto-etnografia, sonno e sognare

Ebbene sì, sono crollato nel pomeriggio! Mi sono appisolato. Ero esausto e mi sono appisolato: senza avere addosso quella strana, insistente percezione di crescente oscuramento cognitivo che si accompagna – negli appiccicaticci stadi iniziali del sonno – a un tentativo di persistente ribellione da parte mia. Mi sono appisolato senza il contrappuntistico assaggio di insubordinazione – prodotta per non arrendermi – all’inerzia provocata dal torpore che, in un tutt’uno, s’imbastisce con il mio corpo ricettivo e rivoltato allo stesso tempo. Mi sono appisolato senza oppormi come al solito, senza rivelarmi antagonista del mio stesso sonno. Resisto, in genere. Resisto, non mi concedo con estrema facilità alle lusinghe del sonno. Raggranello briciole di forze benevole e resisto come posso. Lo sento arrivare, il sonno, e resisto – indispettito, benché incuriosito per il fenomeno – facendo affidamento a pensieri astratti, convocando logiche e schemi complessi, ragionamenti articolati ed efficaci, il cui unico scopo non è che questo: tenermi sveglio a oltranza, tenermi sveglio finché tengo, sveglio comunque sia, qualsiasi cosa accada. Resisto a spada tratta. Non appena comincia a presentarsi il graduale annebbiamento dei sensi, richiamo alla mente spizzichi d’intenzione al fine d’ingaggiare un duello, asciutto ma protratto, contro quella che avverto come un’invasione sofferta, non richiesta, ostile. È solitamente così!

Oggi pomeriggio, invece, mi sono assopito, privo dell’usuale scorta di ragione renitente, di energia insofferente. Mi sono lasciato andare senza reagire. Perché? Innanzitutto, perché ho pensato che, di tanto in tanto, bisogna lasciarsi andare: è salutare perdere il controllo esercitato su se stessi, consegnandosi – felicemente – al disordine degli eventi e della cultura. In antropologia, l’impostazione di Durkheim pone maggiormente in evidenza – al fine di una migliore definizione della cultura – l’importanza dell’ordine lasciando in secondo piano l’elemento relativo al disordine. Ma è anche vero che, se «si riduce l’operato della cultura a un meccanismo di controllo, si perdono di vista fenomeni come le passioni, il divertimento spontaneo e le attività frutto di improvvisazione» (Rosaldo 2001: 160). Io prediligo questo approccio antropologico in cui, oltre la pianificazione, bisogna prendere in conto pure il caso e la coincidenza, così come il divenire dialettico di ordine e disordine. Il sonno e il sogno vanno inclusi in queste attività più incontrollate, meno verificabili e programmate, di cui parla Rosaldo più in generale.

Oggi pomeriggio, diversamente dal solito, io non ero insofferente e mi sono lasciato andare al sonno senza ribellarmi: accettandolo e proponendomi – questa è una ragione che ha motivato il mio piacevole abbandono – di prenderlo in conto da osservatore, come se stessi assistendo a un fenomeno esterno del quale dovevo rendere conto finché potevo: da etnografo. L’autoetnografia, nonostante le perplessità di tanti difensori della dimensione oggettiva e ordinata della cultura, è un campo di studi affermato da tempo (Okely, Callaway 1992; Reed-Danahay 1997). Il mio intento era però quello di spostare l’accento da una più classica auto-etnografia del ‘soggetto da sveglio’ a una più insolita auto-etnografia del ‘soggetto che prende sonno e sogna’. Il mio intento era quello di lasciarmi andare al sonno, mantenendo traccia dell’eventuale sognare e tenendo desto un piccolo nucleo di attenzione che mi consentisse di rendere conto del processo stesso in cui ero immerso, in cui stavo per immergermi per essere precisi. Mi bastava tenere accesa, per quanto minima, una particella di vigilanza. Ero sollecitato da un paio di idee che mi passavano per la testa. Mi affascinava il fatto di essere avviluppato – di renderne conto – nel «movimento totalizzatore che include il mio prossimo, me stesso e l’ambiente nell’unità sintetica di una oggettivazione in corso» (Sartre 1960: 140).

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Sonno incipiente (ph. Licia Taverna)

Quale migliore occasione – mi sono detto – se non il sonno incipiente per mettere a fuoco su una oggettivazione di me stesso e del mio alterego in corso d’azione! Per di più, da qualche giorno, mi tornavano in mente le parole di un noto antropologo dell’esistenza il quale cerca, da anni, di lavorare in un senso specifico che si potrebbe riassumere nel modo seguente: «trasformare il mondo nel quale siamo scagliati in un mondo nel quale possiamo contribuire, al fine di ottenere un migliore equilibrio tra l’essere attori e l’essere agiti» (Jackson 2005: x, mio corsivo). Jackson pensa a un mondo – diurno – in cui alcuni attori sono agiti mentre altri esercitano un potere agentivo più forte, sicuramente meno giusto, più tirannico, per coloro i quali sono vulnerabili e marginali. Io penso che questa esplorazione dell’azione – l’essere attori, l’essere agiti – vada compiuta anche in ambito personale e introspettivo, se non altro perché non siamo identità monolitiche, ma individui in continuo divenire la cui parvenza d’integrata completezza dovrebbe cedere il posto a una forma di identità intesa come frontiera da «superare, spingere indietro, varcare» (Deleuze, Parnet 1998: 42).

Il mio fine è allora il seguente: scivolare nel sonno, mantenendo un nucleo di osservazione introspettiva, per andare oltre me stesso e gli ostacoli che si frappongono, più in generale, tra il sonno e la veglia, tra la vita diurna e quella notturna. A volte, non è soltanto il mondo materiale e delle interazioni in carne e ossa che fa ostacolo ma, anche, l’esercizio di un controllo esagerato sulle proprie azioni e coscienza. Parlare di coscienza, oggigiorno, sembra fuori luogo, ma siamo «lontani da averla fatta finita con essa» (Derrida 1997: 363). Così, indeciso tra l’abituale propensione a rivoltarmi e la tendenza a essere docile etnografo di me stesso, ho abdicato, oggi, in favore di quest’ultima. Ho messo da parte l’inclinazione al controllo e alla reazione e ho cercato di capire cosa stesse succedendo. So bene che qualsiasi tipo di attività e analisi «presuppone sempre la scelta di un livello di pertinenza o cerca di riconoscere solo un certo tipo di relazioni, escludendone altre, ugualmente possibili da determinare» (Greimas, Courtés 2007: 358). Ma non è una buona ragione per non provarci! Magari è bello farlo proprio per essere consapevoli dei livelli impliciti di pertinenza adottati e delle relazioni instaurate al fine di sbarazzarsene o, comunque sia, essere più efficaci nell’azione prodotta. I miei flussi di coscienza mi portavano, soprattutto, a essere incline a una pertinenza particolare: accettare il disordine del sonno e del sogno, riflettendo, per quanto possibile, sulla forza di soglia che ambedue posseggono. Non è forse il prendere sonno un’entità che si pone sulla soglia tra la vita diurna e notturna? Non è il sogno quell’entità che si situa nel sonno ma ripropone anche immagini del vivere comune?

Io non so che ora era, con esattezza, allorquando questo ottuso abbandono si è capricciosamente impossessato del mio corpo amplificandone, per uno strano effetto contrario, la consapevolezza delle sue parti. Avevo una dilatata percezione del mio corpo – ne avevo coscienza, coscienza della sua articolazione e posizione, coscienza del suo divenire processo – ma non opponevo resistenza al progredire sdrucciolo del sonno. Sono scivolato nel sonno abbassando la guardia: da osservatore, da soggetto distaccato, consapevole del fatto che avrei sognato e avrei conservato frammenti di memoria dopo e persino durante l’atto stesso. Giocando un po’ con Shakespeare, si potrebbe dire, adattando la formulazione al caso: sognare, vegliare; sognare, dormire e niente più! Senza colpo ferire, dunque, sono scivolato in modo inerme in quel mondo dell’oltretempo che è il sonno e il sognare, sorpreso dalla mia stessa docilità. Sono scivolato, semplicemente scivolando. Come se io non appartenessi a me stesso e le mie intenzioni non mi riguardassero in prima istanza, direttamente, nel mio piccolo. Come se il lento dileguarsi della veglia fosse un evento da osservare con pazienza, da lontano, con attenzione: senza opporre quella resistenza impertinente che solitamente caratterizza il mio progressivo scivolare nel soporifero nulla. Scivolare con lentezza, nel processo stesso, mi ha riportato all’idea, stranamente sotto forma d’immagine, «che dobbiamo restar fermi alle cose del pensare quotidiano» (Wittgenstein 1967: 65).

Il quotidiano e la sua apparente insignificanza esercitano, su di me, un enorme fascino. Ancora più affascinante – credo – è l’ordinario ripresentarsi, nel sonno, di immagini del mio (e altrui) vivere. Ricordo che rileggevo, con quell’attitudine disinvolta di chi non ha fine prossimo da ribadire, “La luna” – una immagine di pensiero narrata nell’Infanzia berlinese da Benjamin – quando il libro si è adagiato con uno svolazzo sulla mia gamba piegata, compiaciuta. Io ho abbandonato la presa, il libro si è lasciato cadere, non senza consentirmi però un’ultima presa, quasi fotografica, di un suo specifico, pertinente frammento:

«Quando poi il tremulo lumino notturno aveva rassicurato lei e me, quel che allora restava era la constatazione che del mondo nulla più esisteva se non un solo, ostinato interrogativo. Può essere che questo interrogativo si annidasse nelle pieghe della tenda che era appesa davanti alla mia porta per difendermi dai rumori. Può darsi che non fosse che un residuo di molte notti anteriori. Infine può darsi che esso fosse l’altra faccia dell’incantesimo che la luna operava in me. Esso suonava così: perché mai esiste qualcosa nel mondo, perché esiste il mondo? Con sbigottimento mi accorgevo che niente in esso poteva autorizzarmi a pensare il mondo» (Benjamin 1973: 120).
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Residuo notturno (ph. Licia Taverna)

Dopo aver catturato questa immagine, in una sorta di lampo fulmineo, mi sono arreso del tutto alla piega che avevano preso gli eventi, a un mondo dell’ombra al quale non è facile trovare una giustificazione. Il braccio si è allungato sul mio arrendevole corpo. La mano ha allentato la morsa, il libro ha preso posizione instabile ma decisamente comoda sulla gamba. L’ho visto cadere al rallentatore e, osservando il suo movimento al rallentatore, mi sono reso conto che ero già caduto – a corpo morto – nella piacevole trappola del sonno conciliatore di pene e affanni. Non ho resistito. Ho ceduto senza esitare. Con gli ultimi sprazzi di energia, ho spostato il volume dalla gamba, dove aveva trovato posto con noncurante leggerezza; mi sono rigirato a pancia in giù, ho abbracciato il cuscino poggiando la testa sul suo angolo più sottile e morbido. Il fatto sorprendente è che ho sognato che mio figlio venisse ad abbracciarmi. Ho sognato che venisse a dormire un po’ con me, insieme a me, in un bell’abbraccio giocoso.

Dormire e sognare in compagnia? Dormire e chiacchierare? Non sono in contraddizione? In alcune culture, il sogno non riguarda unicamente la dimensione privata dell’individuo, ma, più spesso, l’intera comunità; in alcune culture, il sogno non necessariamente possiede una significazione privata di cui tenere conto per una sua interpretazione individuale, ma può avere degli effetti più ampi all’interno della comunità. Come ho già accennato precedentemente, in Mongolia, per esempio, si può sognare al posto di un altro individuo (Humphrey, Hürelbaatar 1996). Nel sogno, io sapevo bene che mio figlio stava dall’altra parte della casa e tuttavia io percepivo la sua prossimità come se fosse sdoppiato e lo fossi anch’io: faceva i compiti e schiacciava un sonnellino con me. E io? Io sognavo e mantenevo un pizzico di coscienza: soltanto un pizzico, ma bastava. Sognavo e mi concedevo il piacevole svago di stare abbracciato a mio figlio. Sembrerebbe proprio così, per quanto strano possa sembrare. Nonostante il sonno, avevo coscienza di stare sulla soglia della vita diurna e notturna, sulla soglia del flusso alterato di pensieri e della ragione più misurata. Stavo sulla soglia e ci riflettevo lasciandomi cogliere dal piacere delle sensazioni e del sogno in soffice caduta. Beh, può un sogno essere soffice e allo stesso tempo una caduta? Sì, era questa la meraviglia: stare felicemente sulla soglia senza doversi preoccupare di saltare al di qua o al di là di essa. Trascendevo un solo e unico ruolo: quello di individuo isolato dagli altri membri della famiglia; quello di dormiente rigidamente separato dallo stato di coscienza; quello di individuo irrigidito in una sola identità diurna. Sarà stato l’effetto delle mie frenetiche letture etnografiche sul sogno?

L’antropologia consente di accogliere altre ipotesi sull’individuo (e, in questo caso, anche sul sonno e sul sogno) e di liberarsi di quelle prospettive cristallizzate nella propria cultura di appartenenza. È anche vero che, a volte, non è necessario andare altrove o impregnarsi di alterità lontane. È sufficiente rileggere, a casa propria, uno studioso come Benjamin e la forza dirompente del suo straniante sostare sulla soglia. Ma non è tutto. Un elemento di riflessione ulteriore riguarda la scrittura. Indagare sul sonno e sul sogno richiede una scrittura meno controllata, più ‘scivolosa’, che riesca a trasporre lo scivolare del sogno. Penso che, in futuro, per meglio scrivere sul sonno e sul sogno, dovrei scrivere pensando di scivolare senza attrito nel divenire, se non altro perché «lo scivolare via da noi stessi non solo è ciò che rende possibile scrivere ma è lo scrivere» (Taussig 2005: 70, mio corsivo). Scriverò e scivolerò, prenderò sonno, sognerò e mi proporrò di scriverci come se stessi scivolando. Questo è indubbiamente uno degli insegnamenti che traggo dal mio piccolo esperimento. L’altro riguarda la ‘resistenza’ da me riformulata in quanto processo graduale che può richiedere un’espansione narrativa in cui entrano in sottile attrito semantico (e fenomenologico) il ‘controllo’ e l’‘abbandonarsi’. La mia resistenza al sonno è infatti, quasi automaticamente, diventata un piccolo racconto con diverse posizioni attanziali che meglio comprendono le varie sfaccettature di cui parlavo e che esperivo. Infine, questa prima variazione, proprio perché tutta incentrata sulle soglie e sul loro valore, è un invito a tenerne sempre più conto in chiave antropologica – anche in altri campi e non soltanto nel sogno o nel sonno – riflettendo soprattutto sul loro intreccio e/o sul gradiente di smussamento dei relativi tratti oppositivi e, eventualmente, sulle loro sovrapposizioni (come è effettivamente stato, in alcuni momenti, in questa prima variazione in cui la figura della sovrapposizione tendeva a prevalere).

Cos’è una soglia in definitiva? Una soglia, alla maniera di Van Gennep, può essere rappresentata, metaforicamente ma più concretamente, da una porta. Una soglia può altresì essere, secondo me, il limite contratto o espanso, quindi sempre ricomponibile, posto tra la veglia e il sonno, la realtà e il sogno. E Benjamin? Ammetto il mio gusto smodato per le ibridazioni. L’antropologia non dovrebbe stare sulla difensiva, ma aprirsi sempre alle intuizioni di altri studiosi e discipline. Ma non si tratta solo di questo. La citazione di Benjamin è ricca di rimandi intertestuali alla realtà e ai rapporti possibili tra la sua instaurazione e il mondo notturno. Non mi dilungo su questo: invito il lettore a tornarci in base al suo interesse. Ciò su cui insisto è invece il fatto che molte narrazioni di Benjamin sono in realtà delle immagini espanse il cui valore semantico rimane magnificamente in bilico tra il frammento stesso di narrazione che l’espande e l’immagine che la riassume magnificamente. Per molti aspetti, i rimandi tra notte e giorno, veglia e sonno, sono di questo tipo. La citazione è allora una richiesta – che faccio a me stesso e al lettore – di riflessione su questo aspetto affascinante.

II. Il coccodrillo e il valore culturale del sogno

Nel pomeriggio, mi sono fatto un bel pisolino. Non mi succede spesso, ma ero particolarmente stanco oggi e mi sono concesso questo piacere spicciolo del quotidiano, pacificatore delle tensioni dell’essere. Stanotte, ho in effetti lavorato fino a tardi, poi ho guardato un film, infine mi sono messo a leggere di tutto – senza scopo, senza filo conduttore – com’è mio solito quando voglio rilassarmi e non pensare a niente nello specifico. Il risultato è che ho tirato fino alle cinque del mattino. Sono andato a letto, non senza qualche esitazione: ero alla finestra, mi tentava uscire e andare a passeggiare, leggere per strada, fissare il pensiero sugli oggetti incontrati per caso. Alla finestra, benché sonnolento, per un po’ mi sono immerso – ammaliato, affascinato – nello strano silenzio notturno che caratterizza solitamente la notte dalle mie parti, nella mia strada; dopo qualche minuto, ho deciso di andare a letto e ho lasciato la tentazione inevasa. Oscillavo, insomma, per essere precisi, tra la tentazione di uscire e la fiacchezza della giornata che mi invogliava ad andare a letto, finché ho ceduto a una delle due opzioni. Avrà avuto, tutto questo, a che fare con il sogno? L’oscillazione, in parte prolungata nel sonno, mi ha aiutato a ricordare? Non so bene. So soltanto che, nel pomeriggio, ho acceso la radio, ho messo il volume al minimo e mi sono addormentato leggendo qualche rigo di un testo che amo, con la musica in sottofondo che accompagnava i miei pensieri.

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I sogni provvedono (ph. Licia Taverna)

Nel sogno, mi trovavo in un grande giardino pubblico e m’imbattevo in un grosso coccodrillo verde. Non so perché decidevo di caricarlo in auto e di portarmelo a casa. Rubavo un coccodrillo? Era questa la sensazione che avevo: di sottrarre di soppiatto qualcosa a qualcuno. A chi? Per farne che? E che posso saperne! Non ricordo di aver fatto nessuno sforzo, tra l’altro. E mi sembra così strano, adesso, da sveglio. Il coccodrillo era di notevoli dimensioni: lungo e panciuto. Eppure, lo ricordo bene, l’ho trasportato in auto senza eccessiva fatica. L’amico che era con me e mio figlio mi hanno aiutato. Ma, riflettendoci, ero io che sostenevo gran parte del peso. Lo abbracciavo con la destra mentre con la sinistra gli tenevo le fauci ben chiuse. Mio figlio teneva la coda e l’amico mio sosteneva la testa che io tenevo chiusa con la mano sinistra. Ma come facevo ad avere braccia tanto lunghe da potere fare entrambe le cose? Si sa, i sogni provvedono alle nostre carenze e me ne faccio una ragione. Il fatto è che, dopo avere trasportato il coccodrillo in auto, non so più per quale motivo siamo tornati al giardino. Ricordo che, in qualche modo, abbiamo continuato la nostra visita al giardino pubblico, quasi fosse una piacevole gita di un giorno di vacanza. Sì, l’atmosfera era questa, ripensandoci! E il coccodrillo? Presumo che stesse, buono buono, in auto ad aspettarci. Proprio così, stava in auto in nostra attesa: in attesa del nostro ritorno. È mai possibile? Un coccodrillo? Come dicevo, i sogni hanno tutto il diritto di essere inverosimili e di proporre all’individuo universi semantici talvolta insospettati. E questo lo era. Può un coccodrillo, stipato in un’auto, starsene tranquillo in attesa delle persone che lo hanno sottratto al suo ambiente naturale? No, certo che no, nella realtà! Ma può sicuramente avere luogo nell’immaginazione.

Detto questo, dopo la prolungata  e piacevole visita al giardino, siamo tornati verso l’auto. Per strada, abbiamo incontrato due miei colleghi italiani. Abbiamo chiacchierato del più e del meno, ma lo abbiamo fatto in giapponese. Che strano! Io ho studiato un po’ di giapponese, ma più di trent’anni fa e ho dimenticato quasi tutto. L’unico lessico che mi è rimasto è quello che appartiene all’ambito delle arti marziali che ho continuato a praticare per anni, in passato. Com’è possibile, quindi, che io abbia potuto intrattenere una tale conversazione in giapponese, senza difficoltà, per di più con dei colleghi italiani? Comunque sia, mi ricordo pure che ci siamo fatti, io e i miei colleghi, quattro risate e abbiamo parlato tanto, del più e del meno, di una cosa e dell’altra. Poi, siamo tornati – io, mio figlio e il mio amico – all’auto e ci siamo diretti verso casa. Sul tragitto, abbiamo visto un negozio aperto e ne abbiamo approfittato per fare un po’ di compere. Io ho pensato di rimanere in auto, per occuparmi del coccodrillo, mentre l’amico mio e mio figlio sono andati a fare la spesa. Ho atteso a lungo in auto; poi, mi sono stufato, ho legato il coccodrillo e sono andato a vedere cosa era successo che li aveva trattenuti.

Il sogno s’interrompe qui. Mi sono svegliato. Almeno, questo è quello che ricordo con maggiore chiarezza. Al mio risveglio, ne ho parlato con l’altro mio figlio, che è liceale, il quale mi ha ricordato che proprio ieri gli avevo prestato L’interpretazione dei sogni di Freud. Una buona traccia, ho pensato, senza andare oltre. Intanto ne abbiamo approfittato per parlarne, anche se l’ho distolto un po’ dai suoi studi, e per farci una bella chiacchierata a proposito. Verso sera, avevo previsto di video-chiamare due amici. Ne ho approfittato per raccontare il sogno pure a loro. Anche con loro, ci siamo fatti quattro risate e abbiamo fatto qualche ipotesi interpretativa. Per esempio, abbiamo messo in rapporto il senso di colpa che provo in questo periodo nell’andare a comprare il pane più volte al giorno – il decreto del presidente del consiglio limita le possibilità di uscire – con l’atto di sottrarre il coccodrillo al giardino. Si potrebbe dire, senza eccessiva esitazione, che il coccodrillo è, nel sogno, un traslato che prende il posto del cane nella realtà. Possedere un cane, in effetti, in questo periodo di confinamento, mi avrebbe consentito di uscire a piacimento. Più tardi, ho raccontato il sogno a mio figlio di dieci anni. Prima ci ha riso su anche lui, poi è andato a prendere due coccodrilli: uno più piccolo, di gomma; uno più grande, di pezza. Problema risolto, a suo parere. I coccodrilli facevano parte della mia vita già da tempo, benché non lo ricordassi. È ovvio, abbiamo detto scherzando, che siano passati nel sogno: il confine è a volte labile tra realtà e sogno. Di diverso – se proprio vogliamo – c’era soltanto il contesto. E forse è proprio questo uno dei significati primari del sogno: io ho bisogno di un giardino per fare qualche passeggiata all’aperto e nel verde. Sarà veramente così? Tutto qui? Non ancora.

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Traslato (ph. Licia Taverna)

Molti antropologi, dediti all’analisi del sogno in culture diverse, pensano che il sogno non abbia significati d’ordine soltanto personale e privato (come invece crediamo noi, più spesso, nelle culture occidentali), ma sia soprattutto un operatore di socialità e influenzi direttamente l’immaginario collettivo riformulandolo. Che sia anche questa una deriva del sogno, del mio sogno in particolare? Cioè, ricordarmi una verità antropologica di tutto rispetto. In sostanza, avevo bisogno di parlare e di socializzare: con i miei figli, con gli amici miei, con la mia immaginazione e il dialogo che intrattengo – come tutti noi, chi più chi meno – con me stesso, con le ipotesi interpretative possibili emerse nel corso dei vari dialoghi e con la stessa diversità degli universi semantici proposti dal sogno. La diversità, com’è noto, si presenta nelle più svariate forme, reali o immaginarie che siano. E tutti noi ne abbiamo bisogno. Non soltanto per evadere. Ma anche per riflettere, in ritorno, sul nostro quotidiano e sui processi di socializzazione e/o di trasformazione dell’immaginario sia diurno sia notturno. Per quanto individuale, dunque, anche nella nostra cultura, talvolta, il sogno può avere una funzione sociale e ‘curativa’. Basta parlarne!

Quale interpretazione è allora, tra le tante emerse, quella buona? Importa poco, di fatto. Ciò che conta è che ci sia stata una circolazione di interpretazioni e uno scambio di ‘vedute’ tra attori diversi sui possibili sensi da attribuire al coccodrillo e al sogno. La circolazione non è avvenuta soltanto nello scambio dialogico tra amici, conoscenti e figli. La circolazione, più fluida, persino divertente, si è realizzata anche nel passaggio, sovente smussato, da una soglia all’altra: dal sogno alla realtà, dal sonno alla veglia. In questa seconda circolazione, è utile notare che ci sia stato un ‘naturale’ smussamento delle opposizioni tra le categorie semantiche richiamate: la realtà attingeva al sogno e il sogno alla realtà; la veglia aveva una qualità più prossima al sonno e viceversa. Forse, siamo noi, errando in questo, che creiamo le soglie tra il diurno e il notturno – e le pensiamo – in maniera troppo rigida, più rigida di quel che gli stessi sogni suggeriscono. Rimarrebbe un punto da discutere: fino a che punto la mia indecisione – uscire o rimanere a casa – ha, in qualche modo, agito sul sogno? Non ho una risposta certa, ovviamente, ma posso senz’altro dire che si tratta di una sorta di prologo – corrispondente all’indecisione iniziale narrata in questa variazione – la cui espansione narrativa ha a che vedere con gli eventi del momento, soprattutto con il confinamento, e quindi con le sue trasposizioni in elementi del sogno. A maggior ragione, non dobbiamo, proprio per questo, tenere conto dei suggerimenti del sogno?

III. Il bibitaro, il sogno e il contesto

Stamane, mio figlio è venuto a svegliarmi con una notizia importante che non vedeva l’ora di comunicarmi: ha sognato. Ha fatto un bel sogno e me lo voleva raccontare subito. Sorpreso, l’ho interrotto all’istante. Guarda che coincidenza – gli ho detto – anch’io ho fatto un sogno ieri e l’ho trascritto punto per punto. Sì, papà – mi ha detto – non hai fatto altro che parlare, tutta la giornata, del tuo sogno e del furto del coccodrillo in un giardino di Palermo. Mio figlio non aveva tutti i torti: era un sogno così strano che non facevo altro che parlarne con tutti e riderne con tutti. Così facendo, per quanto strana fosse la faccenda, in un momento di particolare reclusione io socializzavo: a partire da quello che, ormai, nella mia testa, passava per ‘il sogno del coccodrillo rubato’. Che io sappia, tra l’altro, non ci sono coccodrilli nei giardini di Palermo, e questo rende la cosa anche più spassosa; semmai, a proposito di animali, se proprio devo pensare a una associazione, mi viene in mente qualche tartaruga marina nella bella piscinetta del Giardino Botanico. E non mi spiace. Ogni volta che vado al Giardino Botanico, non vedo l’ora di appollaiarmi beatamente sul bordo della piscinetta e di osservare placidamente le tartarughe che si muovono con leggiadria o si camuffano tra le erbette fluttuanti. Mi dà un forte senso di calma rasserenatrice! Mi rilasso. Ma non vedo nessun rapporto diretto tra le tartarughe e i coccodrilli, se non per il fatto che stanno entrambi in acqua e, di tanto in tanto, fuori dall’acqua.

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Un contesto (ph. Licia Taverna)

Detto questo, ieri, più che lasciarmi andare a un gioco di libere associazioni che avrebbe forse contribuito a dare un senso in qualche modo omogeneo al mio sogno e di riportarlo al mio universo di senso quotidiano, io parlavo del coccodrillo con tutti – i familiari, gli amici al telefono, i miei stessi flussi di coscienza, i miei appunti ‘oggettivati’, gli amici virtuali su facebook – giusto per il gusto di farlo e raccontare un’esperienza per molti aspetti straordinaria. Socializzavo, rendevo partecipi gli altri della mia vita, intessevo dialoghi sul più e sul meno. Nel sogno, quel che conta è che trattavo un coccodrillo come se fosse un animale domestico e me lo portavo a casa per prendermene cura; oppure, ipotesi da non scartare, lo facevo per prendermi cura di me stesso e avere un animale da portare a passeggio liberamente in questi giorni di forzata clausura casalinga. È infatti vero che – nelle mie brevi sortite che, come meta giustificativa, hanno il panificio nei pressi di casa mia – non faccio altro che incontrare cani al guinzaglio di umani: umani felicemente distratti, umani che parlano al telefono, umani che passeggiano e indugiano, senza nessun senso di colpa, senza nessuna premura di tornare a casa e stare al riparo dal contagio. Sono fuori, a passeggio e sono giustificati in ogni caso dall’animale che è con loro. Come li invidio! Sospetto, perciò, che il sogno del coccodrillo sia intervenuto per darmi un po’ di pace, almeno nel corso della mia vita notturna, e consentirmi di pensare, per compensazione, a un futuro migliore: un futuro prossimo in cui sarei potuto uscire – giustificato – senza sentirmi in colpa proprio perché portavo a passeggio un animale e non avevo paura di incappare in difficoltà legali o sanzionatorie. Che sia poi un coccodrillo o altro questo è ovviamente un dettaglio: un dettaglio – tuttavia importante – dettato dal fatto che io non vorrei, se proprio dovessi, avere un animale del tutto addomesticato, ma un animale che mantiene una sua autonomia e dal quale bisogna guardarsi comunque perché non del tutto domo o soggiogato al suo padrone.

Rimesto, così, senza averne coscienza piena, sul mio desiderio di essere animale selvaggio anch’io, al di fuori delle regole costituite? Viviamo, per l’appunto, in un momento in cui il dibattito sulle regole è centrale, forse fin troppo: questa sarebbe allora una via da esplorare. L’altra ipotesi è legata al mio passato in cui vivevo a New York e correva voce che, nel metrò, ci fossero i coccodrilli di cui si erano sbarazzati alcuni americani perché, una volta cresciuti, erano diventati scomodi da tenere in casa. Il passato, in un modo o nell’altro, tende sempre a tornare a galla. Anche questa è un’ipotesi da esplorare che mi porterebbe lontano, cognitivamente, rispetto al mio stesso vissuto. Voglio soltanto accennare al fatto – teorico – che i sogni dipendono anche dai contesti e che i significati sono in ultima analisi correlati all’uso che è diversamente orientato culturalmente. Ciò che mi interessa, soprattutto, è capire meglio i legami che si instaurano – ce ne saranno tanti – tra il mio sogno del coccodrillo e il sogno di mio figlio della fiera che comporta anch’esso una possibile prospettiva per il mio futuro professionale: vendere bibite in grandi fiere.

Nel sogno di mio figlio, infatti, ci trovavamo – io e lui – in una grande fiera. Lui giocava. Io vendevo bibite. C’erano tante persone in questo luogo del divertimento in cui, proprio i bambini, si divertivano con vari giochi. C’erano i compagni di classe di mio figlio. C’erano anche nostri parenti e, più in particolare, alcuni suoi cuginetti con i quali poteva sbizzarrirsi e divertirsi liberamente. C’era, dunque, la possibilità di fare un gioco e l’altro, di passare da uno all’altro, e persino la possibilità di stare con amici e parenti che non possiamo, per ovvie ragioni, vedere in questi giorni di confinamento. Cosa volere di più? L’unico neo era l’occhio nero della cuginetta di mio figlio (che è mia nipote). Perché mio figlio l’ha sognata così? Si può fare risalire, questo, al fatto che la sera precedente abbiamo visto un film in cui, a un certo punto, succede un incidente in una fiera, una persona viene ferita e i bambini sono costretti a fuggire? Potrebbe essere un buon punto di partenza per altre esplorazioni d’ordine semantico.

Comunque sia, il sogno di mio figlio gli ha consentito di scavalcare le restrizioni che, per altri versi, non mi sembra gli pesino molto nell’arco della giornata. In ogni caso, la notte e i sogni intervengono per riequilibrare, almeno in parte, alcune mancanze percepite nella vita diurna. Rimarrebbe tuttavia un punto divertente, più oscuro e resistente all’interpretazione: perché, mio figlio, mi assegna il ruolo di bibitaro? Un riferimento potrebbe essere la discussione che abbiamo avuto, l’altra sera, sul nostro viaggio a New York di qualche anno fa e l’idea di comprarci un foodtruck, metterci a vendere panini e bibite per strada e incominciare una nuova vita in un altro paese. Che il sogno sia intervenuto a suggerire proprio questo? Che sia venuto il momento di cambiare professione? Nell’ipotesi di Lotman (Lotman 1993), il sogno ha proprio questa funzione culturale: consentire di reimpostare la comunicazione con se stessi e con la cultura all’interno della quale si bagna. Che sia ‘forma di socializzazione’ (come dicono alcuni antropologi del sogno) o instaurazione di specifica forma di ‘comunicazione io-io e io-cultura’ (come affermano Lotman e Uspenskij 1975), forse il momento è arrivato di cambiare vita e seguire il suggerimento del sogno di mio figlio: rinnovarsi. Chissà! In questa variazione, dunque, ciò che viene maggiormente messo in risalto è il fiorire di contesti e la proliferazione di associazioni legate ai vari contesti: la piscinetta del Giardino Botanico, facebook, il panificio, gli spazi aperti, la casa, New York, la fiera. È come se i diversi contesti si rimandassero i significati – da un contesto all’altro – piuttosto che aiutare a renderli in maniera fissa e definitiva. Da un contesto all’altro, non soltanto i significati vengono riformulati e si arricchiscono, ma, anche, mettono in scena forme di comunicazione e forme di socializzazione diverse. Non è forse questo, in definitiva, il fine ultimo del sogno? Consentire associazioni diversificate tra contesti e forme di comunicazione e di socializzazione. Se non è forse il fine di tutti i sogni in genere, nella sua generalità, sicuramente è il fine posto in rilievo maggiormente da questa mia terza variazione sul sogno.

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Forme di comunicazione (ph. Licia Taverna)

IV. Il sogno come digressione, digressioni sul sogno

Ho schiacciato un pisolino, oggi, a un orario insospettato. A che ora, per essere precisi? Mi vergogno un po’ a dirlo. Non sono in vena di confessioni intime o meno. Dico soltanto che avrei dovuto – il capo chino, le dita lesse sulla tastiera del mio computer – cercare di finire lestamente il saggio che sto scrivendo. Mi vergogno e mi sento dunque in colpa per questo: per aver deviato dal mio retto proposito. E invece cosa ho fatto? Ho sonnecchiato, ho sognato e ho deciso adesso di scrivere cosa mi passa per la testa allo scopo di arrivare – poco a poco, senza riguardo e senza fretta – al sogno pomeridiano. Ebbene, che sogno sia allora! Se poi non ci arrivo, non importa! È così necessario arrivare a tutti i costi da qualche parte? È così necessario mettere un punto? Mi basta, per il momento, rimanere nel processo: con piacevoli, contrappuntistiche digressioni. Come scrive Deleuze, l’interesse non sta nell’inizio o nella fine, ma nel mezzo. E, per ‘mezzo’, Deleuze non intende uno strumento o altro ma il divenire dinamico che scatta se ci si situa nell’intervallo indefinito, felicemente posto tra un qualche inizio e una qualche meta. È bene ribadirlo: questa strategia potrebbe, in principio, valere per tutto e non soltanto per la filosofia o per un frammento di vita vissuta o di sogno. Strano a dirsi, ma Deleuze e Rajneesh (un filosofo occidentale e un mistico orientale) sono, a tal proposito, sulla stessa linea di pensiero.

L’idea di Rajneesh è che si può fare sesso senza porsi il problema dell’arrivare a tutti i costi: senza porsi il fine di raggiungere un orgasmo che diventerebbe il punto finale e agognato dell’azione. L’intento, come ricorda bene Rajneesh, è stare nel mezzo: perdendosi nell’atto che dona – anch’esso, nonostante le differenze con la maniera di pensare all’occidentale – una sorta di orgasmo più profondo, più radicale, benché inusuale. Rajneesh parla di un orgasmo valle e lo oppone all’orgasmo, più comune, non tantrico, secondo cui si raggiunge un picco e, con questo, una sorta di traguardo previsto fin dall’inizio. Forse, per essere più chiaro a questo riguardo, dovrei aprire qui una parentesi su due categorie che fungono da riferimento isotopico per la costruzione differenziale del discorso di Deleuze e di Rajneesh: la superficie orizzontale e la profondità verticale. E lo dico a ragion veduta perché esse hanno a che vedere – anche, ma non solo – con il mio mestiere di antropologo del linguaggio (o dei linguaggi, come dico ai miei studenti). E c’è davvero tanto di interessante in questa direzione: semanticamente e pragmaticamente. Non ho tuttavia l’intenzione di farlo. Non ne ho voglia. Non mi va di interpretare il ruolo del docente in questo caso. È un ruolo tra i tanti, dopotutto, e non vale la pena – in vita, per la vita – di affezionarsi a un solo ruolo: prima o dopo moriremo; liberiamoci, fin da ora, dei ruoli rigidamente assegnati dalla società e godiamoci la vita nel suo svolgersi. Approfittiamo, se non altro, della possibilità che abbiamo di lasciare passare contenuti al di sotto di un altro genere testuale, meno accademico, più disarticolato.

Per di più, io rispetto cosa mi dice l’umore. L’umore mi parla oggi. L’umore mi dice di conversare, con il mio alterego, sul sogno che ho fatto. L’umore mi dice di avanzare per digressioni. Lo farò. Lo metterò addirittura per iscritto perché ciò mi consente di chiarire meglio la sua posizione (del mio alterego) e la mia. Ma ho pure detto al mio umore di darsi una calmata: ci voglio arrivare poco a poco, con calma, tenendo conto delle mie esigenze, dei miei sbandamenti. Zigzagando, inoltre, come ben sa il mio umore, rimango nel processo: mi tengo a opportuna distanza dalle conclusioni che mi imporrebbero, altrimenti, di mettere un punto alle mie intempestive riflessioni. Chi vorrebbe mai finire, d’altronde? Finire non è forse un po’ come morire? Prendo tempo, quindi, e ne approfitto per aprire, una parentesi dopo l’altra, con mio grande profitto e inverosimile gioia su tutto ciò che mi passa per la testa (sembrerebbe che Proust abbia costruito la sua opera in sette volumi a partire dall’idea di ‘parentesi da aprire’ e non mi spiace imitarlo, se non altro nel processo ideativo e negli intenti, più che nello stile ovviamente incomparabile).

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Per digressioni (ph. Licia Taverna)

Che dicevo, allora, prima di aprire la parentesi? Ah sì, parlavo di superficie e di profondità, sottolineando il fatto che si tratta di una questione complessa che non intendo aprire e chiudere una volta per tutte in questa variazione contrappuntistica. Ma coloro i quali vogliono lavorarci – sulla polarità superficie/profondità e sulle correlate narrazioni figurative – potrebbero già cominciare leggendo un testo, bello ma impegnativo, di Deleuze: La logica del senso. E dovrebbero accompagnare la lettura di questo testo con un altro – molto più semplice da leggere, ma non meno originale – che ha a che fare con il rapporto superficie/profondità: quello di Rafkin il cui titolo significativo è Lo sporco degli altri. Deleuze, ne la Logica del senso, trasforma in dettato teorico quelle che sono le sue letture letterarie ed esistenziali dell’epoca; Rafkin, invece, nel suo testo, parla del suo lavoro di donna delle pulizie: ‘dal basso’, da impiegata, riuscendo a fare una sorta di pratica della teoria che è oltretutto divertente da leggere. Il testo di Deleuze e quello di Rafkin, per quanto radicalmente diversi come impostazione, sono da mettere a fronte a mio parere. E per il sesso (in divenire), cosa dire ancora per non smettere di finire e allo stesso tempo rimandare ad altro? Leggete un’opera qualsiasi di Rajneesh: quale che sia l’argomento (danza, musica, agire, meditare, etc.), leggerla torna utile per investire di senso il vivere inteso come atto nel quale dissolversi al fine di dimenticare la polarità alto/basso, sovente utilizzata come correlativo gerarchico. Non ha, infatti, la superficie una sua dignità al pari della profondità? La perlustrazione non ha forza pari allo scavo?

Mi chiedo, qui, al di là e al di qua del sesso: sarà questa una ragione per cui amo tanto il mare? A mare, andando giù, nelle sue profondità, e guardando verso l’alto, si può provare questa sensazione piacevole grazie alla quale superficie e profondità si neutralizzano vicendevolmente aprendo una prospettiva, nuova e riposizionata, rispetto alle solite categorie spaziali percepite su terra. Non dico altro. Ci ‘torno su’ un’altra volta: fa parte della mia vita e, prima o dopo, dovrò aprire questo capitolo bachelardiano in una prospettiva di antropologia esistenziale. D’accordo: basta con i consigli e la ritraduzione rimemorativa di mie esperienze passate. Ma, prima di smetterla del tutto, devo aprire una piccola parentesi confidenziale. Ancora un’altra? Qui mi rivolgo a quello studente – di cui non dico il nome ovviamente – che legge tutti i miei saggi e li prende sul serio; gli altri lettori, virtuali o meno, possono saltare direttamente all’altro capoverso. Caro studente, se proprio vuoi vedere le cose da un punto di vista comparativo e antropologico, leggi quel mio breve saggio – scritto in francese purtroppo, quando vivevo all’estero – su Deleuze/Héritier, in cui pongo la questione dello scavo e della relazione con la superficie e la profondità intese come categorie soggiacenti una epistemologia del divenire e del ‘possibile’ strutturale (il ‘possibile’, in questo caso, non è un’eccedenza distratta di senso). L’articolo si trova on line. Basta inserire il nome dei due studiosi e il mio. Buon divertimento! Approfittiamone però, approfittiamo noi, della parentesi per interrompere il flusso sconsiderato dell’andirivieni!

Riprendiamo, così, più o meno dall’inizio (anche se a Deleuze non piacerebbe molto tornare indietro, interrompendo il divenire in corso): ciò che volevo dire all’inizio è che non è necessario pensare la vita – e il sesso ovviamente – come un picco da scalare e con fatica; semmai, seguendo l’esempio di Deleuze e di Rajneesh, si potrebbero intendere, ambedue, come un flusso in cui l’ego si perde e si dà nell’atto in quanto tale. Provare per credere! Come ulteriore testimonianza mi verrebbe voglia di prendere la caterva di libri che ho sulla meditazione e di sciorinare una bella serie di citazioni tratte, qui e lì, dai vari autori: come si fa quando si vuole essere presi sul serio o si vuole scrive in maniera ‘scientifica’ e accademica. Di fatto, scrivere non è quasi mai fine a se stesso: è, sovente, quell’effetto retorico per cui ci si vuole – e ci si deve – rendere credibili a se stessi e agli altri. Visto che non sono uno scrittore di professione, non ho nessuna necessità di rendermi credibile. Inoltre, visto che sono già in dialogo con il mio alterego, non ho nemmeno bisogno di accennare alla credibilità e convincere me stesso di essere credibile. E non è nemmeno il punto che voglio fare qui comunque (se non altro perché cercherò di continuare a sostare nella scrittura digressiva, nel divenire irrequieto). Poi, a dire il vero, non ho nessuna intenzione di mettermi a spolverare (e rispolverare) i libri sulla meditazione. Il problema non è, naturalmente, soltanto la polvere in sé: prima di prenderli e sfogliarli – tutti quei libri – dovrei togliere la patina del tempo che passa e che alberga in me. E io, al tempo, nelle sue molteplici forme, ci tengo tanto.

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Patine (ph. Licia Taverna)

Lasciamo la patina al suo posto dunque. Lasciamo perdere il vivere e il sesso, la polvere e le pulizie come categorie epistemologiche e passiamo al sogno vero e proprio, non senza un’interrogazione esistenziale che prende adesso, dopo varie parentesi, maggiore importanza esistenziale: schiacciare un pisolino, a un orario inadeguato, fa sentire in colpa? Forse, sì! Dirlo, poi, è come essere in confessione con un prete che ti guarda dentro e si aspetta che tu gli apra l’anima. Suppongo che sia così! Perché, in realtà, è da tanto che non mi confesso. L’ultima volta, avevo quattordici anni. Ma non si può parlare di vera e propria confessione. Semmai, di una fuga. Racconto come sono andate le cose e voi mi dite cosa ne pensate (quando dico ‘voi’ non parlo necessariamente con un destinatario vero e proprio; semplicemente, mi pongo nello stato d’animo di chi parla avendo in mente qualcuno che ci deve capire qualcosa, e questo mi impone di non essere obliquo nemmeno con me stesso). Ecco i fatti. Siamo entrati in chiesa io e mia madre. Mia madre mi ha invitato a confessarmi e io esitavo. Il prete mi ha invitato ad entrare nel confessionale e io me la sono data a gambe mentre il prete mi inseguiva e cercava di spiegarmi che mi avrebbe fatto comunque bene parlare con lui. Mentre me la davo a gambe, gli ho detto: io non ho niente di cui pentirmi. E lui mi ha risposto, ormai da lontano: raccontami quello che hai fatto oggi, in genere, e ne parliamo liberamente, senza imposizioni. Dietro l’angolo e al sicuro, mentre rallentavo il passo, dicevo tra me e me: non ho niente da raccontare; non ho fatto niente di speciale oggi. Ecco, a quell’età, pensavo che fossero soltanto le cose speciali da raccontare: la dignità di narrazione la possedevano soltanto i fatti straordinari.

Avevo quattordici anni e, se non ricordo male, mi divertivo tanto. Incontravo tutti i pomeriggi i miei amici per parlare del più e del meno. Me ne andavo alla Favorita – un parco nei pressi di Palermo – a fare cross con la moto. Facevo delle fantastiche nuotate a mare. Mi mettevo – indisturbato – ad ascoltare musica a tutto volume nella mia stanza. Strimpellavo la chitarra per ore e a più non posso. Invitavo la ragazzina del piano di sotto ad ascoltare la musica con un solo paio di cuffie. Insomma, più che raccontare, amavo la dimensione del fare. Poi, da adulto, ho capito che le due cose non sono nettamente distinguibili. Anzi, quale che sia l’azione da compiere – o compiuta – «noi ci riferiamo a eventi, oggetti e persone mediante espressioni che li collocano non già semplicemente in un mondo indifferente, bensì in un modo narrativo» (Bruner J. 2002: 9).

Ecco, è tutto quello che volevo dire: dire e appuntare per un futuro divenire. Sono tante le parentesi che ho aperto e che ho avuto cura di non richiudere una volta per tutte. C’è tempo per questo. Ci sarà tempo per riprendere la questione dell’apertura e della chiusura persino in una prospettiva che va, secondo me, al di là della sequenza lineare posta dall’idea di parentesi in un testo scritto. L’apertura e la chiusura sono elementi dell’immaginario e costituiscono basi di partenza per ripensarlo in un’ottica antropologica. Come scrive Crapanzano, il quale tesse un legame stretto tra immaginario, orizzonte e apertura/chiusura:

«Il punto è che quando un orizzonte, ovvero ciò che si situa al di là di esso, assume una forma articolata, esso cristallizza la nostra visione delle realtà immediate: questo avviene inevitabilmente, se non fosse per il fatto che, una volta articolato quell’aldilà, finisce per emergere un nuovo orizzonte e con esso un nuovo aldilà. La dialettica tra apertura e chiusura è, credo, una dimensione importante dell’esperienza umana che è di certo degna di riflessione antropologica» (Crapanzano 2007: 11).
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Parentesi (ph. Licia Taverna)

Ora, in questo frangente, più che pensare all’apertura e chiusura in sé, per gradi d’ordine teorico lineare, mi diverte avanzare per vere e proprie digressioni slabbrate. Avanzo e vorrei, aprendo parentesi, creare relazioni tra le stesse parentesi aperte – la loro sintassi e il loro incastro – più che sui soli contenuti al loro interno depositati. Avanzo e il linguaggio ribelle degli scarti e delle deviazioni prende piacevolmente il sopravvento sul filo conduttore che mi ero posto all’inizio: raccontare direttamente, senza tergiversare, il sogno che ho fatto oggi. E se il valore del sogno fosse invece segno di questa tendenza onirica che accentua il senso del tergiversare? Affermare il valore della digressione tergiversante andrebbe nel senso del sogno. Il senso del sogno risiederebbe nell’aprire parentesi al fine di porre in atto una strategia della digressione tergiversante. Come scrive Lévi-Strauss, «il significato non è altro che questo mettere in relazione» (Lévi-Strauss 1988: 198). Giocando un po’ con Lévi-Strauss, si potrebbe riformulare la questione nel modo seguente: il significato del sogno non è altro che questo mettere in relazione. Più radicalmente ancora: più che sui contenuti o sulle stesse relazioni, il significato del sogno sarebbe equivalente alla serie di atti necessari a mettere in relazione una cosa con l’altra. Oggi, io ho sognato di essere io stesso nel mio sogno in quanto coscienza che fluttuava liberamente durante il sonno sapendo di esserlo: in altri termini, ero consapevole che fosse un sogno; ero altrettanto consapevole che, prima o poi, mi sarei svegliato e sarei tornato alla vita diurna. I confini tra il giorno e la notte, la logica del vivere e la logica del sognare erano quindi annacquati (come quando mi trovo nelle profondità del mare). Mi perdevo piacevolmente nel sogno al pari di una qualsiasi entità minuscola – la mia coscienza – che fluttuava nell’immensità. Che bello! Mi perdevo, con briciole d’intenzione, perché ciò mi consentiva di aprire parentesi, l’una dopo l’altra, in relazione anche a ciò che pensavo da sveglio.

Non ricordo più i contenuti specifici che riempivano le parentesi che aprivo nel sogno. Ricordo bene, però, che ne aprivo tante: aprivo parentesi e fluttuavo. Il sogno era una piacevole digressione rispetto alla vita diurna, ma era pure un modo per ricordarmi di essere ancora più digressivo durante il giorno smussato della sua qualità stessa di giorno e accostato alla vita notturna. Il sogno che ho fatto, insomma, era – è – una sorta di digressione che apre tante parentesi che vale la pena trascrivere – porre allo scritto – non tanto per curarsi o soltanto per recuperare pezzi del proprio passato apparentemente dimenticati, ma, soprattutto, per avviare un libero dialogo con le molteplici parti che compongono la nostra personalità e le personalità d’altri.

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Contrappunto (ph. Licia Taverna)

Pensiamo talvolta di essere dei monoliti: unità indistinguibili e indivisibili di essere, pensiero e azione. Pensiamo di essere dei monoliti diurni. Io credo, al contrario, che siamo vertiginosamente plurali, intreccio di diurno e notturno. Penso che siamo enti in dialogo continuo con noi stessi attraverso i nostri flussi di pensiero e i flussi di pensiero d’altri; attraverso i nostri piani di azioni e percezioni e i piani d’azioni e percezioni d’altri. Questo dialogo continuo che intratteniamo con noi stessi – alcuni linguisti parlano di endofasia (Bergounioux 2004); alcuni semiotici parlano di comunicazione io-io (Lotman e Uspenskij 1975) – diventa manifesto e meglio articolato, soprattutto, se ne parliamo con altri, se lo trasponiamo allo scritto, se lo accompagniamo con foto che lo esemplificano, insomma se ci avvaliamo di tutti i mezzi possibili di espressione, facendolo inoltre circolare all’interno delle nostre reti sociali e culturali. Beh, se così è, è quello che sto effettivamente facendo adesso.

Certo, si può sempre parlare in genere di sogno come modalità dell’introspezione volta a ritrovare se stessi o pezzi di passato (anche grazie all’aiuto di uno psicanalista con il quale si intrattiene un dialogo). Ma si può pure parlare di sogno come mezzo per perdersi e mantenere un ego fluttuante che consente di tornare, con più forza, su ciò che si fa da svegli: aprire parentesi, senza necessariamente chiuderle, procedendo per digressioni, alla maniera di Proust. Le due strategie d’uso del sogno – I. dialogo con uno specialista della psiche; II. dialogo tra il sonno e la veglia, per digressioni progressive – non sono incompatibili. Io ho privilegiato qui, in questa variazione, la seconda opzione: sognare come apertura di parentesi che non sono necessariamente da chiudere. Le parentesi possono rappresentare – anche – quel movimento che va verso la soglia che si pone tra il giorno e la notte, tra la vita diurna e il sogno.

In definitiva, voleva forse dirmi, il mio sogno, che devo smussare ancora di più l’opposizione tra il giorno e la notte? Voleva forse dirmi, il sogno, che devo fluttuare anche all’interno dei miei sogni senza pormi il problema del significato in sé? Beh, questo lo faccio già anche nella vita diurna. Il sogno, forse, me lo ha ricordato. Lo ascolterò e lo metterò in pratica con più forza. Il sogno mi ha inoltre ricordato un famoso enunciato di Benjamin secondo cui «Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare» (Benjamin 1973: 9). Riformulo Benjamin a modo mio: «Non sapersi orientare in un [sogno] non vuol dir molto. Ma smarrirsi in [sogno] come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare». Ecco, forse dovrei aprire un’altra parentesi per spiegarlo meglio, a me stesso se non altro, per mettere in relazione la digressione con la riformulazione. Mi basta però, in questa quarta variazione, avere affermato il valore digressivo del sogno stesso: la forza costitutiva che risiede nel processo di mettere in relazione, di rimandare ad altro. In qualche modo, rimandare ad altro significa pure – ricordando ancora una volta Deleuze – rimanere nel mezzo, smussare il valore delle soglie: in questo caso, delle soglie tra la digressione diurna e quella notturna, tra il giorno e la notte, tra le parentesi e le operazioni di apertura e chiusura semantica.

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Vivere l’esperienza (ph. Licia Taverna)

Che conclusione trarre, in sostanza, da queste quattro variazioni, soprattutto se si volessero comparare strettamente le une con le altre per arrivare a una sorta di punto definitivo, chiarificatore una volta per tutte? Il mio intento non era ovviamente questo, fin dall’inizio: comparare e spiegare, comparare e concludere. Semmai, come ho accennato nel paragrafo introduttivo, mi sono ispirato a Said e alla sua idea di contrappunto che valorizza i diversi contesti plurivocalici, nonché gli attriti plurilineari sempre provvidi di ulteriore spunto immaginativo e creativo. Il contrappunto, in campo musicale, non procede in senso univoco e autonomo, linea per linea, ma mette una nota contro l’altra, producendo, in questo modo, armonie che non dissolvono interamente le melodie su cui si basano; alla stessa stregua, io ho inteso mettere una variazione all’‘inseguimento’ dell’altra, combinando le melodie – le isotopie, più propriamente, nel gergo semiotico – che da ogni variazione derivano al fine di creare una verticalità polifonica e plurale. E non è tutto. Un altro punto è meritevole di commento riguardo al mio modo di procedere. Ci sono fondamentalmente due modi per cercare di saperne di più su una questione, quale che essa sia. Un primo modo è basato sulla ricerca di tipo esplicativo: man mano che si avanza, si fanno collegamenti, si tessono dei rapporti di causa ed effetto che conducono alla spiegazione del fenomeno. Un altro modo consiste nel raccontare un’esperienza e nel renderne partecipe, il più possibile, il lettore e lo stesso attore in essa coinvolto: è come fare una esplorazione in cui si cerca di rimanere, più che si può, nel mezzo dell’azione mentre la si vive. Queste mie variazioni, pur essendo inevitabilmente debitrici dei due diversi apporti per gradi diversi, si sono soprattutto nutrite del secondo modo di procedere: vivere l’esperienza, fluttuare nei suoi percorsi tortuosi, narrarla senza mezzi termini.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.

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