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La pandemia: appunti di lettura di un fenomeno in chiave letteraria

 

copertinadi Maria Rosaria Zulì

Stretti nella morsa

Sono in molti ormai a paragonare questa pandemia ad una guerra; ve ne sono tanti altri pronti a sostenere che si tratti di una condizione di gran lunga peggiore a quella di una guerra. Ma cosa c’è di vero in tutto questo? Difficile dirlo poiché la lettura resta, ad oggi, ancora ferma ai primissimi paragrafi di un nuovo capitolo della storia, tutto da scrivere, tutto da decifrare. Ciononostante, si potrebbe quantomeno provare a contestualizzare questo nuovo fenomeno globale, dai contorni socio/culturali profondamente diversi rispetto a quelli della Seconda guerra mondiale. Alla luce di tale diversità, perciò, qualsiasi metro di paragone apparirebbe verosimilmente privo di senso poiché numerosi sono gli aspetti e i protagonisti che ci differenziano da quella storia.

Risulta ad ogni modo chiaro ed evidente fino a che punto la pandemia abbia messo a nudo i limiti di questa società, le sue fragilità, le sue contraddizioni e le catene che da tempo trattengono alcuni, più di altri, stretti in una morsa. Se ne intravede un’immagine, un quadro ancora non ben definito tra i movimenti delle linee, tra i chiaroscuri accennati che, tuttavia, lentamente va definendosi nel suo significato più intimo.

Mantenendo un’osservazione artistica sulla situazione attuale, ciò che possiamo scorgere, in questa cornice, è un braccio di ferro, una stretta dall’energia talmente forte da conferirle libero accesso dentro le nostre case, nelle nostre vite, in modo diretto e senza tanti convenevoli preparatori al suo ingresso in platea. Le mani che si sfidano vedono, da un lato la malattia scaturita da questa nuova (e non unica) variante di coronavirus e, dall’altro, un sistema economico imploso e radicato già da tempo nella nostra società in tutte le sue forme. Uno scontro frontale tra due titani, con caratteristiche e “regole di gioco” opposte, le quali, mal si conciliano, producendo quella drammaticità sociale con cui ci stiamo confrontando.

Ecco allora una sfida che si apre dinnanzi ai nostri occhi tra il modello capitalista con le sue leggi, i suoi ritmi pensati per viaggiare a “grande vitesse”, come direbbero i francesi (ovvero ad “alta velocità”) e, sul versante opposto, un problema dal carattere sempre più insidioso: un virus pronto a spazzarci via in poco tempo se proviamo solo per un istante a correre a quella “vitesse”. Nella tragicità di questa condizione che ci vede nel mezzo e ci lascia increduli di fronte ad una simile assurdità spinta quasi ai limiti dell’inverosimile, verrebbe, al contempo, da piangere e sorridere amaramente. Una Terza guerra mondiale dunque? Forse. Sarà il tempo a rivelarci tanto altro.

Ritornando a questo quadro e alle sue tinte sfumate, ma evidenti agli occhi di chi osserva, ci chiediamo pertanto: Tra i due titani quale sarebbe più saggio ed opportuno ascoltare per non subire gli eventi e rimanerne vittime? In merito alla risposta credo sia giusto lasciare ad ognuno carta bianca, ad ognuno la libertà di scrivere ciò che sente e ciò che vorrebbe. Nel mentre, provo a riportare, nero su bianco, la mia opinione, partendo da un capolavoro della letteratura russa del ‘900 che Eugenio Montale definì «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione».

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I combattenti di Pergamo

Di recente ho avuto il piacere di imbattermi in una lettura nuova e per me inaspettata. Si è trattato di un appuntamento voluto, cercato e, infine, scelto nel bel mezzo di una lista di testi di letteratura russa inviatami da un’amica di San Pietroburgo su mia richiesta. Si tratta di uno dei più grandi capolavori non soltanto nel panorama della letteratura russa ma mondiale: Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Per quanti ancora non fossero a conoscenza sull’esistenza di questo libro, come la sottoscritta sino a poco tempo addietro, il romanzo, ideato e intrapreso durante il 1928, redatto per ben otto volte dall’autore fino al 1940, ha dell’incredibile sotto diversi punti di vista.

Sin dalle prime pagine, se ne connota una lettura complessa, macchinosa ma lungi dal destare noia o insofferenza; un vero e proprio stimolo che può spingere insistentemente a chiedersi: “Qual è il significato di tutto questo? Che cosa l’autore sta provando a farci vedere pagina dopo pagina?”. Sulla scia di queste domande le quali, confesso, hanno accompagnato buona parte della lettura, sono corsa necessariamente ai ripari, andando alla ricerca di una fonte valida che potesse aiutarmi ad afferrare quanto non ero in grado di fare con i miei soli strumenti. Riesco così a scorgere un capolavoro che si muove non su un unico cerchio narrativo, bensì su tre, differenti l’uno dall’altro da un punto di vista temporale (quindi anche stilistico) e dei fatti: tre storie diverse ma, al tempo stesso, indissolubilmente concatenate l’una all’altra. Questi cerchi si muovono e si alternano ad un ritmo misurato e calcolato; un ritmo che solo un giocoliere di grande esperienza sa imprimere ai suoi attrezzi, rendendo il tutto di un fascino sorprendente.

Il primo elemento armonizzatore del movimento fra questi cerchi è indubbiamente la fantasia che attraversa costantemente l’intera opera. Bulgakov sprigiona una creatività e una capacità di immaginazione rara, la quale ci porta spesso a sorridere per la sua assurdità. Ma, ripartendo dalla domanda con la quale ci siamo lasciati in chiusura del primo paragrafo di questo articolo e ritornando su quel foglio bianco a cui si faceva cenno sopra, ecco di seguito illustrata la mia risposta, elaborata partendo dal primo dei tre cerchi narrativi delineati dall’autore: l’arrivo di Woland in una Mosca sul finire degli anni ’20. Chi è costui? Si tratta di un misterioso esperto di magia nera o, più precisamente, della personificazione del male che piomba in città insieme alla sua compagnia composta da: un gatto di nome Behemot, due valletti (Azazello e Korov’ev, soprannominato il Fagotto), il pallido Abadonna e la strega Hella. Con agire sempre più incalzante, Woland porterà scompiglio e profondo disorientamento tra gli individui con cui si imbatterà volutamente, gettandoli nella più totale confusione. Tra questi ultimi, distinguiamo, oltre ai protagonisti e agli spettatori dei suoi numeri di magia, anche i rappresentanti del teatro Variété e il presidente della Commissione Acustica dei teatri di Mosca, Apollonovic Semplejarov: uomini dormienti e cioè funzionari pigri, corrotti, le piccole anime morte che popolano la società sovietica di quegli anni. Essi diverranno il bersaglio di Woland, nei confronti dei quali prenderà dei provvedimenti facendo sempre leva su dinamiche surreali affinché «sia reso possibile il grande spettacolo di magia, e cioè lo scatenarsi delle forze fantastiche: forze che determinano, a loro volta, le scene isteriche tra il pubblico».

«Allora scoppiò il finimondo e le donne si riversarono da ogni parte sulla scena. […] Al Variété dopo tutto questo cominciò una confusione, che pareva la torre di Babele. Nel palco dei Semplejarov si precipitarono gli agenti dell’ordine, sul parapetto si arrampicarono dei curiosi […] Naturalmente il palcoscenico s’era fatto improvvisamente deserto perché il briccone-Fagot e l’imprudente gatto-Ippopotamo si erano dissolti, erano scomparsi, com’era sparito il mago con la sua poltrona dal tessuto logoro».

Il senso di smarrimento e confusione, seminato fra la gente e nell’animo di alcuni protagonisti in particolare, cambierà le loro vite, i programmi e gli schemi, calandoli entro circostanze che mai avrebbero osato immaginare di poter vivere. Woland rappresenta, così, un’autentica provocazione che farà vibrare alcune corde. Questo cerchio narrativo a cui si legano i successivi, si apre, ricordiamo, con un’epigrafe ripresa dal poema goethiano “Il Faust”: «E allora dunque, chi sei? Io sono una parte di quella forza che eternamente vuole il Male ed eternamente compie il Bene». 

18Dopo questo primo sguardo sull’opera, proseguiamo per gradi nella nostra lettura sull’attualità in chiave letteraria. Pensare di paragonare l’azione provocatrice di Woland quale causa di quel movimento del tutto inaspettato nella Mosca di quegli anni, all’azione “punitiva” (secondo alcuni) di questa pandemia, risulterebbe riduttivo oltre che fuori luogo. Il tentativo di comprensione della contemporaneità, in questa chiave letteraria specifica, intende andare ben oltre tale elemento. Cerchiamo di entrare nella questione in punta di piedi e nel pieno rispetto di ciò che l’emergenza sanitaria ha rappresentato e sta rappresentando per molti in ogni angolo del pianeta. Sulla base di quanto ci è dato constatare, la pandemia, nel suo ingresso irruente e tragico, ha spazzato via con violenza e ferocia una spessa coltre facendo cadere, una dopo l’altra, maschere sociali e individuali per mettere a nudo una verità, nel bene e nel male. Un evento straordinario, perciò, ci sta accompagnando insistentemente verso queste verità, indicandocele una dopo l’altra, quasi come Virgilio con Dante nel suo lungo e complicato viaggio.

Ora sta a noi scegliere non tanto se guardare poiché si è costretti a farlo, quanto piuttosto decidere se voltarci o meno dall’altra parte di fronte all’evidenza. Ed è proprio a questo punto della nostra “lettura” che osiamo fare un passo in avanti entrando nel vivo dell’opera con “Il Romanzo di Ponzio Pilato”: il secondo cerchio narrativo dopo quello legato a Woland. Questa nuova sezione é introdotta gradualmente dall’autore già nelle prime pagine del libro, servendosi ancora una volta degli scherni pungenti del mago di magia nera. Prima di vederlo all’opera, il lettore lo incontra al parco di Patriarši Prudì [1] nei panni di uno sconosciuto dalla buona dialettica, il quale si intromette in un colloquio su Gesù tra due colti atei, Michail Aleksandrovič Berljoz [2] e Ivan Nikolaevič Ponyrev [3]. Udendo lo scambio tra i due, lo «straniero poliglotta», sostiene con insistenza che «Gesù è realmente esistito», che non si tratta di «semplici invenzioni» e «comune mitologia» (come asseriscono i due letterati) e «non serve nessun punto di vista poiché è esistito e basta». Così, a seguito di una serie di scambi di battute sull’argomento e tra le perplessità di Aleksandrovič Berljoz e Ivan Ponyrev, sempre più impalliditi di fronte a quella strana presenza piombata dal nulla, egli porterà la sua testimonianza affermando che:

«Il fatto è […] che io ero presente personalmente. Sia sul terrazzo di Ponzio Pilato, sia in giardino mentre discuteva con Caifa, e anche sul palco, ma in segreto, insomma in incognito, per cui vi prego di non farne parola con nessuno, di tenere il massimo segreto. Sss!…».

Woland, per rendersi più credibile agli occhi dei due letterati, predirà la morte di Aleksandrovič Berljoz, alla quale assisterà, poco dopo, l’amico poeta Ivan Ponyrev che impazzisce e viene rinchiuso in manicomio. Vediamo così descritta la prima provocazione, una delle tante ad innescare nuove dinamiche. Il colloquio tra i tre, come già puntualizzato, costituisce, di fatto, l’introduzione agli avvenimenti accaduti a Gerusalemme al momento della condanna di Gesù e raccontati nell’opera subito dopo la scena nel parco di Mosca con paragrafi specificamente dedicati.

Questa inaspettata digressione narrativa che, di tanto in tanto, interrompe i fatti che stanno accadendo nella capitale sovietica dopo l’arrivo di Woland, si lega al primo cerchio attraverso l’incontro in manicomio tra il poeta Ivan Ponyrev e un altro paziente che si farà chiamare semplicemente “Maestro”. Quest’uomo, il quale sostiene di non avere più un nome, è uno scrittore, impazzito dopo aver avuto una storia clandestina con una donna sposata (Margherita) e dopo aver subìto pesantissime critiche dai letterati sovietici per il suo “Romanzo su Ponzio Pilato”.

Quanto leggiamo in merito agli avvenimenti risalenti ai tempi di Gesù nell’opera di Bulgakov, sono, dunque, dei passaggi estratti dallo scritto del Maestro; passaggi narrati dal punto di vista di Pilato il quale, in questo singolare racconto, è preda di una terribile emicrania per tutto il tempo del colloquio con l’imputato:

«[…] l’uomo legato lo seguì senza rumore […] si potevano sentire i piccioni tubare nello spiazzo del giardino; l’acqua della fontana cantava una complicata e dolce canzone. Al procuratore venne una gran voglia di alzarsi e di offrire la tempia allo zampillo e di restare così, immobile».

Si tratta di pause narrative apparenti, poiché, con esse, entriamo nel cuore e nel significato vero che unisce l’intera opera: il romanzo nel romanzo dunque, attraverso cui viene toccato il tema della «responsabilità individuale in un momento centrale». Il libro del Maestro attira su di sé lo sguardo feroce dei critici, i quali non solo rifiuteranno con dileggio di pubblicare il Romanzo ma lo accuseranno, per mezzo della stampa, di aver tentato di introdurre un’apologia su Gesù Cristo, non accendendo i riflettori su Gesù, bensì su Ponzio Pilato, ponendosi dalla parte della colpa:               

«Guardava l’imputato con occhi velati […] cercando disperatamente di ricordare la ragione per cui, davanti a lui, sotto il sole cocente di Gerusalemme, si trovava quest’uomo arrestato, col viso sfigurato dalle botte, e quali inutili domande avrebbe dovuto ancora rivolgergli».

Attraverso questo cambio di prospettiva in una vicenda storica nota, l’atteggiamento che traspare non è tuttavia quello di voler accusare una viltà dimostrata nei confronti di se stessi e degli altri, quanto piuttosto di abbracciarla. Questo abbraccio, da parte del Maestro, quindi di Bulgakov, simboleggia una commozione, un dispiacere nei confronti di ciò che si poteva fare e invece non è stato fatto, nonché un atto di amore gratuito da cui ne deriva l’unico possibile riscatto, secondo l’autore russo. Di qui la singolare emicrania di Ponzio Pilato, colta da Gesù con queste parole:

«[…] La verità è, prima di tutto, che ti duole la testa, e ti duole così forte che tu pensi vilmente alla morte. Tu non sei in grado non solo di parlare con me, ma fai fatica perfino a guardarmi».

La fantasia e la responsabilità individuale in un momento centrale sono i fili che tessono e uniscono magistralmente i tre cerchi narrativi tracciati con il Libro Primo e il Libro Secondo, ovvero: gli scherni di Woland che con la sua troupe colora gli aspetti più negativi e ridicoli di Mosca, il Romanzo di Ponzio Pilato e la storia tra il Maestro e Margherita. Una forza creativa, indubbiamente figlia della genialità e delle contraddizioni del periodo storico in cui visse l’autore; creatività che, malgrado tutto, viaggia ben oltre la storia, staccandosi dal paesaggio della letteratura russa sovietica per abbracciare ragioni più profonde. Se infatti riflettiamo al tema della responsabilità individuale e alla sua interpretazione, questo fa de Il Maestro e Margherita un capolavoro dal carattere fortemente attuale, la cui forza e freschezza permettono allo stesso di continuare a lanciare un messaggio importante, ricco di significato. Proviamo dunque a coglierlo…

11Oltre il varco

La pandemia ha registrato un impatto talmente prorompente da obbligare a fermarsi e spegnere i motori su più fronti. Il fenomeno ha catapultato l’umanità dentro una sorta di attimo sospeso, sulla cui durata siamo all’oscuro. Durante questa attesa, un varco pare si sia aperto dinnanzi a noi, oltre il quale ci stiamo chiaramente dirigendo.

Guardando all’attualità, attraverso il contributo letterario dato dall’autore russo, appare evidente che, così come Woland apre il sipario, entrando inaspettatamente sulla scena di Mosca per afferrare e strappare con brutalità il velo che copre tutte quelle anime e viltà, così la nostra sfida contemporanea ha messo palesemente a nudo limiti e piaghe da tempo ignorate.

Ci viene dunque offerto un tempo; un tempo necessario per poter vedere, riflettere e cambiare, se ne avremo il coraggio. Alla luce di ciò, il mio pensiero corre inevitabilmente a quel tema tanto caro a Bulgakov sulla responsabilità individuale in un momento centrale che calcola il peso del nostro coraggio, esattamente come insegna la storia di Ponzio Pilato e quella sua devastante emicrania che tanto lo affligge nel Romanzo del Maestro.

Ma proviamo prima di tutto ad oltrepassare questo varco ed elencare brevemente quanto si sta manifestando oggi dinnanzi ai nostri occhi, attraverso un evento così eccezionale che coinvolge tutto il mondo. La prima misura di contenimento drastico, vissuta tra marzo e maggio dell’anno scorso, ha consentito al pianeta che ci ospita di poter vivere il suo momento di tregua, sollevato per un istante dal peso di uno stress profondo a cui è sottoposto. Oltre il varco abbiamo inoltre constatato chiaramente che l’utilità degli ospedali si misura in letti, non in clientele. Ma, in questo nuovo percorso, abbiamo anche toccato, in modo tangibile e trasversale, il valore inestimabile del lavoro dei ricercatori: un bene essenziale alla salute e al benessere comunitario. La scarsa attenzione e considerazione nel nostro Paese nei confronti di questo bene sociale, fa sì che un qualsiasi individuo, desideroso di consacrare la propria esistenza alla Ricerca, venga spesso e volentieri considerato un illuso, poiché il sistema, così com’è strutturato intorno ad essa, non gli consentirà di poter camminare del tutto sulle proprie gambe.

E dunque? Dunque queste grandissime risorse non possono far altro che correre ai ripari, ripiegando sul posto fisso canonico, oppure salire su un aereo di sola andata diretto verso luoghi in cui la Ricerca diventa un lavoro prezioso con diritti e doveri; un lavoro attraverso cui è dato costruire una famiglia, vivere dignitosamente coltivando un talento posto a servizio dell’intera società. Al di là di tali evidenze, continuiamo a constatare cos’altro il 2020 ha ben collocato oltre il varco in modo che nulla sfugga agli occhi del visitatore: omissioni gravi non solo nei confronti della salute pubblica, dell’ambiente, della Ricerca, ma anche del “sistema lavoro”. Le circostanze, entro le quali ci troviamo attraverso la pandemia, hanno acuito uno spaccato sociale a causa di una pregressa e cronica mancanza di equità tra le varie categorie lavorative. 

La frammentarietà, la precarietà e l’incertezza che hanno caratterizzato la dimensione del lavoro di questi ultimi dieci anni, hanno necessariamente spinto a trovare rifugio in realtà più sicure, trasformatesi in veri e propri paracadute sociali, aperti solo ad alcuni. In questo senso, rifletto sulla scuola, con un riferimento specifico all’insegnamento del sostegno, oggi ancora abbastanza incerto su un percorso di formazione ad hoc. Attualmente si assiste alla massiccia presenza di laureati in materie eterogenee: giurisprudenza, biologia, moda e design, esperti di grafica ecc., i quali, per necessità, approdano infine a quest’isola di salvataggio. Andare alla ricerca di maggiori garanzie economiche per il proprio futuro, ha chiaramente iniziato a compromettere l’aspetto qualitativo del lavoro in senso ampio. A guardar bene, sono tante le “isole” che potremmo citare in termini di corsa verso i rifugi. Pensiamo al colosso industriale Arcelor Mittal di Taranto (ex ILVA): una realtà che uccide, avvelena mortalmente e disgraziatamente anche i giovanissimi, viola le meraviglie di una città e, nonostante tutto, continua a costituire “l’alternativa più ragionevole”.

Per la società attuale è la qualità, dunque, ad essere scivolata in fondo alla scala delle priorità e di questo ce ne stiamo ampiamente rendendo conto poiché, oltre il varco, siamo stati condotti a vedere adesso con la forza, che ci piaccia o no. Ma, al tempo stesso, questa società implora la presenza del bravo intenditore di moda e design che sappia ricercare e dare forma alle tendenze sociali; del giornalista appassionato laureato con il massimo dei voti in Scienze politiche; dell’eccellente ricercatore che trovi una cura; del bravo biologo specializzato in biologia molecolare, ecologia o agro alimentare che sappia dare una spiegazione corretta lì dove necessita e così via dicendo. Si ha fame di figure capaci e competenti nei loro ambiti. Come possiamo pensare di andare avanti privandocene? Se il sistema lavoro esprime esattamente l’opposto di quanto viene appreso tra i banchi, sono la cultura e la formazione ad essere messi sotto attacco, a perdere di credibilità, a decadere. E insieme alla cultura e alla formazione, decade la società che non può far altro se non saper correre ai ripari, rivelandosi incapace di tenere testa alle situazioni, di prenderle in mano e gestirle con coraggio, con competenza.                      

Alla luce dei fatti eccezionali che vedono tutti coinvolti, è evidente sino a che punto, dunque, conti la responsabilitàindividuale in un momento centrale. Ecco allora come, attraverso questa allusione, il mio pensiero corre inevitabilmente al messaggio lanciato da Bulgakov. Il suo capolavoro, nell’originalità che lo contraddistingue, invita prima di tutto a porsi faccia a faccia con la colpa, in seguito ad osservarla da ben altra prospettiva e, infine, se dentro di noi alberga almeno un po’ di quel coraggio decisivo in un momento centrale, ad intervenire attraverso scelte precise.  

In questa breve lista sommaria su quanto ci è dato vedere oltre il varco, poniamo l’attenzione su un ultimo aspetto messo fortemente in luce dalla pandemia e così descritto da Michele Serra [4]: «Il 2020 ci ha fatto riscoprire che senza lo Stato, e senza quel multiStato che è l’Europa, si è abbandonati al proprio destino, più soli, più deboli».

Ci chiediamo a riguardo: questa ulteriore constatazione potrebbe farci riflettere sull’urgenza di riscoprire il significato originario di Comunità Europea per trovare il coraggio di sviluppare nuove politiche pubbliche maggiormente pronte ad affrontare i cambiamenti?

1951

1951, I padri fondatori dell’Unione Europea. Da sinistra: R. Schuman e A. De Gaspari. Da destra: J.Bech e K. Adenauer

La memoria storica nelle sfide attuali

Probabilmente, mai come adesso, ognuno di noi si trova a dover fare i conti con gravi colpe e omissioni. Ciò, tuttavia, non dovrebbe indurci a provare vergogna, o peggio, a lasciarci inermi, di fronte a ciò che si poteva fare e non è stato fatto; ma, al contrario, come sostiene intrinsecamente Bulgakov con Il Maestro e Margherita, da un sincero dispiacere della colpa, se ne connota quell’atto d’amore pronto a renderci uomini e donne finalmente liberi. Cancellarla risulta ormai impossibile, così come è impossibile cancellare i danni provocati a causa di “scelte” errate e oltremodo codarde, verrebbe da aggiungere. Nel secondo cerchio narrativo così, il professore (nonché il Maestro), ci dimostra di aver puntato tutto proprio su quella viltà. Lo scrittore la guarda, se ne commuove e se ne prende cura, decidendo di scrivere un romanzo su di essa; una scelta di cambio del protagonista che pagherà amaramente in un contesto in cui la letteratura russa sovietica è attorniata da una critica faziosa e servile alle preoccupazioni del regime di partito.

Ritornando a noi, dunque, in questo momento epocale in cui ci è dato guardare oltre il varco, perché non provare ad andare alla ricerca di quella stessa pìetas senza, tuttavia, ricorrere al compromesso ma, piuttosto, cercando di trovare il coraggio di lottare per il bene comune? E che cosa intendiamo per bene comune nel concreto oggigiorno? Rispondiamo a questa domanda citando il recente intervento a FRANCE 24 (5) del professor Benjamin Coriat, docente in Economia e Governance presso l’Université Paris – XIII e membro dell’associazione francese “Les Economistes Atterrés”:

 «Si dà il caso che, alla luce dello sconvolgimento globale innescato dal Covid-19, risulta fondamentale, e oramai urgente, stabilire delle regole sul “bene comune”. Per “bene comune” ci riferiamo al clima, all’atmosfera, al mare, alle foreste, alla biodiversità che l’essere umano, facendo quel che vuole, sta portando alla distruzione. Consegue un binomio: pianeta stremato = uomo malato.
Dobbiamo essere capaci di saper difendere la biodiversità, il “bene comune” attivando nuove politiche pubbliche per scongiurare l’inizio di una nuova epoca fatta di pandemie. Dal momento in cui i virus vivono nel bene comune, la sua distruzione ne provoca la loro liberazione e circolazione in altri ambienti secondo i criteri della legge darwiniana. Bisogna ritornare all’essenziale» [6].

Come poter contraddire questa analisi dei fatti? Ciononostante, ci domandiamo sino a che punto la nostra società, con i mezzi che si ritrova ad avere, è pronta ad accogliere e reggere l’urgenza di una tale sfida. Personalmente ritengo che la storia in particolare possa, alle volte, davvero venirci in soccorso nei momenti di stenti e penuria; come un faro che guida e incoraggia verso il passo giusto da compiere.

Rifletto così sul valore ancora più importante rivestito oggi dalla Comunità Europea, specie sul suo significato, smarrito tra le opinioni negative che la assalgono. Eppure, più di qualcuno, molto prima di noi, si è dimostrato pronto a sacrificare tutto per quel progetto comunitario percepito oggi, da molti, come un pericolo, se non addirittura una minaccia e che, nonostante tutto, continua ad essere la nostra salvezza. Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica Italiana, aveva utilizzato, forse per la prima volta nella storia, l’espressione bene comune in circostanze tragiche e severe aggiungendo qualche tinta in più rispetto ai nostri contemporanei. Quell’accezione contribuì ad accendere in modo decisivo, in alcuni animi, la voglia ma soprattutto il coraggio di realizzare quel sogno di Unione con tutte le proprie forze.

Leggiamo un breve estratto di quel pensiero tratto dal discorso di Einaudi rivolto ai colleghi dell’Assemblea Costituente il 29 luglio 1947:

«Ma diciamo alto che noi riusciremo a salvarci dalla terza guerra mondiale solo se noi impugneremo per la salvezza e l’unificazione dell’Europa […] l’idea eterna della volontaria cooperazione per il bene comune. […] Non il primato economico; ché questo viene sempre dietro, umile ancella, al primato spirituale. Dico quel primato, che, nell’epoca feconda del Risorgimento, si attuava nella difesa delle idee di fratellanza, di cooperazione, di libertà […]. Se noi non sapremo farci portatori di un ideale umano e moderno nell’Europa d’oggi, smarrita ed incerta sulla via da percorrere, noi siamo perduti e con noi è perduta l’Europa. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare; l’unico ideale capace a salvare la vera indipendenza dei popoli, la quale […] consiste […] in tutto ciò che dà vita allo spirito e fa sì che ogni popolo sappia contribuire qualcosa alla vita spirituale degli altri popoli» [7].

Questo spirito europeista, poco noto, del Presidente, fu già esposto dallo stesso negli anni ’20 in una serie di articoli scritti e pubblicati sul Corriere della Sera come Lettere politiche di Junius, fonte di ispirazione per Altiero Spinelli, uno dei Padri fondatori dell’Unione Europea, autore del Manifesto di Ventotene [8]. L’esperienza drammatica della guerra fece germogliare valori umani nobilissimi, accompagnati da una tenacia senza eguali per affermarli ad un più ampio livello collettivo. In questo senso, pensiamo non solo a Spinelli ma anche all’entusiasmo che ha mosso altri padri fondatori del sogno europeo. Ne ricordiamo alcuni, fra i nomi annoverati dalla storia: il politico lussemburghese Joseph Bech, la cui esperienza vissuta in Lussemburgo tra le due guerre gli permise di comprendere l’importanza dell’internazionalismo e della cooperazione tra Stati  per la pace e la stabilità in un senso più ampio; l’instancabile unificatore Konrad Adenauer, primo cancelliere della Repubblica federale di Germania, il cui operato portò alla stipula di trattati di amicizia con Paesi nemici per antonomasia come la Francia; l’agricoltore e politico olandese Sicco Mansholt, testimone degli orrori della carestia che colpì i Paesi Bassi e dunque fautore della Politica agricola comune dell’Unione Europea per garantire riserve di cibo a prezzi accessibili per tutti; il mediatore per la democrazia e la libertà in Europa Alcide De Gasperi [9].

Erano questi tutti uomini propensi al dialogo, alla mediazione, all’ascolto, all’incontro: un patrimonio di idee e orizzonti che difficilmente si può intravedere nell’Europa di oggi. Sulla base tanto dei fatti contemporanei quanto di quelli legati all’ultimo decennio, rievochiamo con forza proprio quegli ideali mortificati e caduti nel dimenticatoio; ideali fondamentali per far riaccendere quel coraggio che oggi serve ad accompagnare un cambiamento non facile.

Nelle parole di Einaudi, come nell’agire dei nomi sopra citati, risuonava forte l’attenzione alla fratellanza tra i popoli e al senso di rispetto di contrastanti ideali per superare e/o arginare anche le difficoltà maggiori. Ma, ricordiamo che il progetto, sfumato, della Costituzione europea definito in un trattato (Trattato di Lisbona), contribuisce, forse oggi più di prima, a rendere sempre incerta la fisionomia, l’entità di questa unione fra Stati, ostinatamente incline a trovare la sua centralità in una banca piuttosto che in un’Unione dei popoli con lingue e culture differenti.

Una tendenza, dunque, che rischia di rendere il multiStato Europa sordo e anacronistico poiché, nelle sue scelte, volta il capo di fronte alle trasformazioni avvenute e all’insofferenza scaturita tra le persone: uomini e donne diverse rispetto al passato e oggi sempre più desiderose di rinunciare a far parte del progetto comunitario.

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Murales realizzato dagli alunni della Istituto O.Winkler di Trento, dedicato ad Antonio Megalizzi e ai valori dell’Unione Europea

Conclusioni

Credo che tra le generazioni nate nella democrazia, nella pace e nell’abbondanza, sia difficile cogliere il significato della guerra. Quegli orrori a cui tanti occhi hanno assistito, possiamo solo provare ad immaginarli, ma mai a capirli fino in fondo. Tuttavia possiamo quantomeno riuscire a comprendere cosa ha spinto la neonata Unione Europea a muovere subito i suoi primi passi verso una Comunità del Carbone e dell’Acciaio che ha, di fatto, bloccato la corsa agli armamenti per impedire altre guerre o una Comunità Economica Europea realizzata per concedere libertà nel lavoro al fine di un miglioramento dello stato sociale. In questi trattati-scudo risuona forte il pensiero: “Mai più, mai più!”.

Se solo noi, generazioni postume di quell’orrore, avessimo il buonsenso di capire che l’Europa non è una “cosa” bensì un “processo” migliorabile in qualunque istante, sapremmo manifestare nel concreto il nostro “Grazie”; un “Grazie” che dobbiamo a tutti questi uomini e queste donne, dimostratisi pronti a lottare senza sosta pur di metterci a riparo. Risuona ancora forte il gesto del Maestro e la sua attenzione, così sapientemente rappresentata, verso quell’emicrania, verso quel dolore che continua ad attenderci dietro l’angolo e da cui siamo sempre in tempo a trarci in salvo [10].

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Dal russo “Stagni Patriarši o Stagni del Patriarca”. Si tratta di una località del vecchio centro di Mosca: un parco che ha nel centro uno stagno di forma quadrata.
[2] Redattore di una notevole rivista letteraria e presidente di una delle più grandi associazioni di scrittori di Mosca: MASSOLIT.
[3] Un giovane poeta.
[4] Serra M., 2021, In difesa dell’anno scorso, La Repubblica, 2 gennaio
[5] Emittente televisiva d’informazione francese.
[6] Coriat B., France 24: 20 nov 2020. Dal francese: “Gli Economisti Sgomenti”. Associazione francese nata nel 2011 e composta da un numeroso gruppo di universitari, ricercatori ed esperti in economia, convinti che altre politiche economiche siano possibili. Il loro impegno si esprime attraverso interventi pubblici e testi scritti.
[7] Desideri A., 1992, Storia e Storiografia. Dalla prima guerra mondiale alle soglie del duemila. Nuova edizione aggiornata e ampliata con la collaborazione di Mario Themelly, Messina-Firenze: 969
[8] È considerato uno dei testi fondanti dell’Unione Europea. Fu scritto e redatto nel carcere di Ventotene da Spinelli ed Ernesto Rossi insieme ad altri prigionieri al momento della Resistenza al nazismo. Con esso il pensiero federalista, quasi completamente estraneo a tutta la tradizione politica europea, diventa un impegno politico sempre più tangibile (Desideri, 1992: 966)
[9] Sabbatucci G., in Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., 1994, Manuale di storia. L’Età Contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari: 764.
[10] Borrometi P., 2019, Il sogno di Antonio. Storia di un ragazzo europeo. Con gli scritti di Antonio Megalizzi, Solferino, Milano 2019: 118.
Riferimenti bibliografici
BORROMETI P., 2019, Il sogno di Antonio. Storia di un ragazzo europeo. Con gli scritti di Antonio Megalizzi, Solferino, Milano.
BULGAKOV A. M., 1977, Il Maestro e Margherita, Rizzoli Editore, Milano
CORIAT B., 2020, La Pandémie, l’Anthropocène et le Bien Commun, Les liens qui libèrent.
DESIDERI A., 1992, Storia e Storiografia. Dalla prima guerra mondiale alle soglie del duemila. Nuova edizione aggiornata e ampliata con la collaborazione di Mario Themelly, Messina-Firenze.
GIARDINA A., SABBATUCCI G., VIDOTTO V., 1994, Manuale di storia. L’Età Contemporanea, Editori Laterza, Bari.
SERRA M., 2021, In difesa dell’anno scorso, La Repubblica, 2 gennaio.

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Maria Rosaria Zulì consegue la laurea specialistica in Lingue e Letterature Euroamericane presso l’Università del Salento. Nel corso degli anni universitari prende parte a diversi progetti di scambio europei: nel quadro del programma Erasmus presso l’Università di Nantes, in occasione di un corso intensivo tra Lecce, Bruxelles e Gent (Interdisciplinary Course on Intercultural Competences), nonché in qualità di Assistente di Lingua Italiana all’Estero nel Limousin (Francia) tramite il MIUR. Nel 2017 consegue il master in Mediazione Linguistica e Interculturale in Materia di Immigrazione e Asilo. Attualmente lavora con l’ufficio informazioni turistiche di Galatina (Lecce), dopo aver conseguito il patentino come guida turistica: si occupa dell’accoglienza, dell’informazione e della progettazione nell’ottica della valorizzazione dell’identità culturale del territorio pugliese.

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