il centro in periferia
di Maria Rosaria La Morgia
Sabrina Ciancone [1] è la sindaca di Fontecchio, bellissimo borgo medievale di 350 abitanti, nell’aquilano. È stata eletta per la prima volta nel 2010, un anno dopo il terremoto che ha devastato L’Aquila e il suo territorio, e riconfermata in due successive tornate elettorali. Il suo comune è stato il primo italiano ad aderire alla Convenzione di Faro, condividendone i principi e l’idea di eredità culturale come «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei propri valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione tra l’uomo e i luoghi nel corso del tempo».
Una scelta fatta otto anni fa quando molti ignoravano l’accordo stretto a Faro (in Portogallo) il 27 ottobre 2005 dai Paesi del Consiglio d’Europa e firmato dall’Italia nel febbraio del 2013. La Convenzione che mette al centro la cultura e la partecipazione della comunità è stata ratificata dal Parlamento del nostro Paese solo nel settembre del 2020. In tutti questi anni Sabrina Ciancone è stata l’unica a rappresentare un’amministrazione pubblica italiana accanto a delegati di università, fondazioni, enti privati di importanti città europee. La decisione di aderire alla Convenzione è stata fatta con la consapevolezza di dover costruire nuove opportunità per un territorio già sfibrato dallo spopolamento. Non sono mancate le diffidenze da parte soprattutto di alcuni colleghi sindaci e da quanti credono poco nel valore delle infrastrutture immateriali. Di questa scelta e di quello che significa per Fontecchio abbiamo parlato con Sabrina Ciancone.
Nel 2013, a Fontecchio, c’erano ancora le macerie del terremoto che aveva devastato L’Aquila e il suo territorio nel 2009, e c’erano, come ancora ci sono, i problemi della difficile quotidianità di chi vive nelle aree interne dell’Appennino italiano.
Come ha saputo della Convenzione di Faro e che cosa ha spinto l’amministrazione da lei guidata ad aderire?
«Non arenarsi sulle incombenze e le urgenze quotidiane, affrontarle, ma intravvedere e illustrare una prospettiva. Questa è, forse, una delle sfide più ardue che un sindaco di un piccolo comune deve affrontare. Lo facciamo da 11 anni, tutti i giorni, coinvolti e appassionati, nel tentativo di risolvere le innumerevoli questioni piccole, concrete, urgenti, ma determinati a lavorare per un futuro che si stenta a vedere definito e roseo. Anche nel 2013 avevamo questo approccio: in modo quasi… schizofrenico, pensavamo alla ricostruzione post terremoto e alla commissione europea, alla raccolta differenziata e ai convegni internazionali. E in un comune di 350 abitanti, con 3 dipendenti comunali (l’addetta al protocollo e due operai), tante funzioni, sia di prossimità che di prospettiva, vengono svolte direttamente dagli amministratori. A volte è possibile farlo perché ci sono felici coincidenze: sono laureata in diritto dei beni culturali, durante la preparazione della tesi, nel lontanissimo 1994, conobbi Federculture; nonostante il passare degli anni si erano conservati ottimi rapporti con il Presidente e il Direttore (Roberto Grossi e Claudio Bocci) e, aggiornati sul lavoro che stavamo facendo a Fontecchio, mi invitarono ai Colloqui di Ravello. Lì sentii Alberto D’Alessandro (Direttore dell’Ufficio italiano del Consiglio d’Europa) parlare della Convenzione di Faro. Mi incuriosii, la lessi e… fu colpo di fulmine! Era la teorizzazione perfetta, rivoluzionaria, elegante, semplice e potente di una timida pratica che inconsapevolmente stavamo attuando. Il passaggio in consiglio comunale fu semplice e – forse – sostenuto più per fiducia che per consapevolezza. Ma l’adesione fu uno slancio appassionato, voluto per avere più forza, conforto, confronto e dialogo. E il tempo ci ha dato ragione».
Che cosa ha significato dialogare con rappresentanti di grandi città come Marsiglia o Bilbao?
«Non abbiamo complessi di inferiorità, né megalomanie. Marsiglia, Bilbao, Venezia, Cordoba, Vilnius… sono realtà esorbitanti rispetto al nostro microcosmo. Sono più complicate, ricche, varie, con pressioni e risorse imparagonabili. Ma anche le comunità enormi possono modularsi, ridursi ad ambienti circoscritti, osservabili, misurabili. Se poi noi non ci fermiamo al nostro confine amministrativo, ma ci sentiamo organicamente inseriti in una dimensione globale… beh allora ci possiamo considerare equivalenti, paritari nella dignità della nostra voce. Inoltre, la ricchezza umana dei rappresentanti delle altre realtà europee ha permesso la creazione di rapporti di stima e di amicizia che trascendono il numero di abitanti nel cui nome si parla».
C’erano diffidenze nei suoi confronti in quanto rappresentante di un piccolo paese?
«È vero che ad ogni esordio di conversazione, dibattito, giro di tavolo ho dovuto caparbiamente difendere la mia posizione. Ma non in quanto piccolo paese, in quanto amministrazione pubblica. Il pregiudizio, lo stereotipo, le brutte esperienze, lo scetticismo provengono da ogni Paese e da ogni soggetto. Perciò, innanzitutto devo sistematicamente accreditarmi, riabilitare la categoria! Anche perché – e ciò è davvero interessante – nell’International board della Convenzione di Faro siamo l’unico Ente locale rappresentato. Gli altri aderenti sono Università, Associazioni, Fondazioni, ma non amministrazioni comunali. Le riflessioni sull’etica pubblica, le indagini sulla fiducia nei confronti di politica e amministrazione confermano queste nostre esperienze. La piccola incoraggiante consolazione è poter dare testimonianza di un soggetto pubblico onesto, appassionato e consapevole; ci riconoscono, dopo un po’ di incredulità, una certa accountability, alla fine dei meeting!»
In questi anni lei si è battuta per una “ricostruzione” diversa, che non fosse la realizzazione di una bellissima scenografia. Che futuro vuole per Fontecchio e in che modo l’Europa può aiutarvi?
«Dare una direzione, finalizzare la ricostruzione fisica è un obiettivo che ci siamo posti sin dall’inizio. È difficile, perché è così complicato, aleatorio e affannoso il processo di “ripristino delle agibilità” che si stenta davvero a credere, a “vedere” le fasi successive. Ci abbiamo provato, per dovere e per consolazione! Così, quando con il Politecnico di Milano lavoravamo sul Piano di ricostruzione, abbiamo voluto farvi confluire gli esiti di un percorso di partecipazione che tanto ci ha insegnato. Nel 2011 abbiamo osato un esperimento di democrazia deliberativa: Borghi attivi (https://www.amministrazioneincammino.luiss.it/2011/05/12/uno-“statuto-dei-luoghi”-per-fontecchio-esperimento-di-democrazia-deliberativa-in-un-comune-terremotato-dell’abruzzo/), primo passo ufficiale per un percorso di responsabilizzazione collettiva che dovrebbe riguardare ogni aspetto della convivenza civile. Dovrebbe di certo riguardare la gestione dei fondi per la ricostruzione e l’utilizzo degli immobili restaurati. È immorale guardare le finestre chiuse delle case rinnovate, ed è ignobile immaginare una speculazione privata sul plus valore che quelle case hanno acquisito con l’investimento pubblico. Case vuote e terre abbandonate: questo sarebbe il desolante panorama dei nostri luoghi. Ma nessuna rassegnazione ci frena. Sappiamo che la vita nei nostri 5518 piccoli comuni italiani non può fondarsi su un turismo lento e responsabile, sulla contemplazione estatica delle nostre ineguagliabili bellezze. L’economia e quindi la nostra vita necessitano della predisposizione di condizioni per attività ordinarie e attuali, moderne. In questo senso stiamo cercando di intervenire. Sulle nuove funzioni che gli spazi pubblici avranno anche nei nostri paesi, sulle infrastrutture digitali, sull’innovazione, sul contrasto allo spopolamento con il disegno di una fisionomia nuova. Ci sta stretto l’abito del delizioso borgo medievale, tra i cui vicoli è affascinante passeggiare, rievocando fantomatiche storie di cavalieri e dame, guerrieri e artisti. Quella bellezza c’è, la conserviamo e valorizziamo. Ma il nostro target sono i giovani, creativi, intraprendenti, appassionati di parkour tra i vicoli, titolari di un’impresa che usa stampanti 3D, che usa la macchina elettrica e divora i salumi locali.
Vogliamo contrastare case vuote e terre abbandonate con progetti quali Casa&bottega (http://www.comune.fontecchio.aq.it/il-progetto-casabottega/) e SibaTer (https://www.sibater.it) o la Foresta Modello (https://www.forestamodellovalleaterno.it).
Vedo un futuro verde e blu, per paesi come Fontecchio, con il verde dei boschi circostanti che invade l’abitato, con la banda ultralarga efficiente e profumi di fiori e torte nei vicoli di cui sopra! La prova di questa impostazione sta, sinteticamente, nelle deleghe che gli assessori che compongono la nostra giovane giunta comunale hanno: Cultura (sviluppo a base culturale) e Transizione ecologica e solidale dell’economia!
Il ruolo dell’Europa nei nostri percorsi lo stiamo già sperimentando. Non penso solo all’Istituzione Unione Europea, al Consiglio d’Europa, ai finanziamenti (a quelli cui siamo abituati e i nuovi, del Recovery Fund) e ai regolamenti. Penso ad un senso di appartenenza più ampio, meno… provinciale e campanilista, che ci faccia sentire unici e relativi allo stesso tempo. È un approccio che stentiamo ad adottare con difficoltà anche con i nostri vicini più prossimi e, ancor più, con chi consideriamo erroneamente distante e differente. Per questo non guardiamo solo all’Europa, ma abbiamo ospitato delegazioni FAO e risposto a bandi dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Abbiamo avuto la prova, in una esperienza legata alla Convenzione di Faro, che ci rafforza nella convinzione. Nell’ottobre 2017 abbiamo ospitato il primo workshop research in action del CoE proprio su “Community involvement in post-disaster heritage revitalisation”. Sia per i contenuti istruttivi che per le relazioni che si sono instaurate, è stata una avventura entusiasmante (http://www.comune.fontecchio.aq.it/convenzione-di-faro/). Ricercatori da tutt’Europa, rappresentanti del CoE, cittadini, operatori della regione Abruzzo, scuola, associazioni locali… è stato un tourbillon di confronti, cene, “passeggiate patrimoniali” e discussioni. Il risultato positivo è stato duplice: da una parte il contributo qualificato alle nostre azioni di sviluppo, dall’altro l’orgoglio e la disinvoltura di essere piccola parte di un tutto unico. Con la stessa curiosità e umiltà leggiamo le Linee guida della Commissione e Green New Deal, nuovo Bauhaus europeo, ci adeguiamo alle innovazione degli open data (https://opendataricostruzione.gssi.it/territori/66043/privat/tutti?bbox=13.5699633104589,42.2035426729207,13.6448057004258,42.2458535383611)».
La comunità, che ha un ruolo fondamentale, nasce da relazioni umane e culturali che vanno alimentate nella quotidianità e non è facile. Ci vuole un lavoro costante di ascolto e di tessitura, è quello che sta facendo a Fontecchio?
«Voglia di Comunità di Baumann, il concetto delle comunità patrimoniali della Convenzione di Faro, le cooperative di comunità (se ne è costituita una anche a Fontecchio nel marzo 2019), le comunità di apprendimento, i regolamenti dei beni comuni, l’art. 118 della Costituzione: sono queste le fonti di ispirazione del rapporto che abbiamo cercato di istaurare tra amministrazione e cittadini. D’altra parte, verifichiamo costantemente un profondo equivoco sul ruolo dell’ente pubblico e sulla posizione dei cittadini. Siamo ancora abituati ai cahiers de doléances, agli “egoismi miopi” che non tengono conto delle economie generali di una comunità di abitanti. D’altra parte, i cambiamenti culturali sono lenti e con ritmi sincopati e i processi di coinvolgimento e partecipazione necessitano tempo, risorse e competenze. A facilitare il compito c’è un elemento: al di là di strategie e teorizzazioni, gli amministratori sono abitanti che, per storia familiare, esperienze passate e riflessioni e progettazione attuale, vivono e agiscono naturalmente in questo senso: ascolto, disponibilità, mediazione, spiegazione, condivisione… Abbiamo una lista broadcast con cui comunichiamo costantemente (ancor più in questi tempi di isolamento e distanza), stiamo affrontando con un percorso di progettazione partecipata la costruzione del nuovo asilo nido, sosteniamo tutte e associazioni che propongono attività di coesione, cerchiamo di rendere accessibili tutti i luoghi e i dati che sono di interesse e responsabilità collettiva.
E quando l’amarezza, la stanchezza, il disincanto rischiano di prendere il sopravvento… vado a rileggere qualche pagina de L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono!»
A proposito della convenzione di Faro lei ha scritto: «Si tratta di una riappacificazione con gli aspetti aspri della natura attraverso un uso sostenibile delle risorse naturali e un rinsaldamento dei legami tra abitanti. I rapporti di solidarietà, vicinanza, accoglienza ci permettono di vivere in armonia in comunità così piccole e di valorizzare un patrimonio culturale che – spesso ignorato e sminuito – è parte del nostro essere e base della nostra crescita».
«La conoscenza che cittadini e amministratori hanno del patrimonio culturale è spesso sproporzionata rispetto alle responsabilità che sarebbero connesse alla sua salvaguardia e valorizzazione. Non sappiamo molto, siamo abituati ma non educati al patrimonio, per poter fare le scelte migliori. Eppure, l’uso delle risorse e i rapporti tra abitanti avrebbero bisogno di molta cura. Viviamo in paesaggi culturali, creati e mutati costantemente dalla nostra azione («I paesaggi culturali sono beni culturali e rappresentano il “lavoro combinato di natura e uomo” menzionato nell’Articolo 1 della Convenzione [Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage]. Essi illustrano l’evoluzione degli insediamenti e della società umana nel corso del tempo, sotto l’influenza dei vincoli fisici e/o delle opportunità presentate dal relativo ambiente naturale e dalle successive forze sociali, economiche e culturali sia esterne che interne»). Le tracce del contesto in cui evolviamo, in gruppi piccoli, sono più evidenti che altrove. E per questo vale anche viceversa: i nostri interventi, nel bene e nel male sono leggibili e riconducibili».
C’è tutta una retorica intorno ai borghi e alla bellezza del vivere in paese, soprattutto in questi tempi di pandemia non si fa che parlare di ritorno nei luoghi abbandonati di montagna. È davvero tutto così bello e facile? Lei che cosa ne pensa?
«Sono state irritanti le mistificazioni, i falsi miti che negli ultimi mesi sono stati usati per auspicare un ritorno arcadico alla vita nella natura. Quasi un mito del buon selvaggio, di paradisi terrestri misconosciuti e colonizzabili da una civiltà stressata e insana. Molti di noi conoscono pro e contro della vita in città e della vita in campagna. È indubbio che aria sana e ritmi umani si possono trovare più facilmente a Fontecchio che a Brescia. Ma, da abitante serena e consapevole, penso che non sia questa la leva che dovrebbe attrarre nuovi abitanti. Non è nella lentezza, nel relax, nei bei panorami che risiede l’appeal delle aree interne. Sta nella possibilità di conciliare il lavoro (anche stressante) con il resto della vita. Poter lavorare 8 ore in smart working su uno schermo, ma in 5 minuti poter riprendere il figlio a scuola o passeggiare per 10 km tra i boschi senza scorgere manufatto umano. Non si vive un’eterna vacanza qui, non c’è un’umanità più semplice e più buona. Ma sono possibili relazioni sociali, è possibile incontrarsi, cenare, guardare un film, portare i bambini al parco o in piscina senza affrontare ore di traffico.
Così come per la mitizzazione dei borghi come mera meta di turismo esperienziale, trovo fuorviante lo stereotipo di luoghi di pace e di meditazione. Alla base di tante riflessioni e azioni, dalla Strategia nazionale per le aree interne, a Riabitare l’Italia, all’UNCEM, c’è il presupposto di fornire le aree rurali di servizi di cittadinanza (sanità, istruzione, mobilità). Cittadini italiani posti sullo stesso livello, a Brescia e a Fontecchio, per servizi pubblici e possibilità di sviluppo, costo della vita e infrastrutture.
Ho vissuto a lungo e felicemente a Roma. Non cambierei un giorno di quelli che sto vivendo ora a Fontecchio con uno solo trascorso in una metropoli. E so che non sto privando i miei figli di nessuna chance di crescita e di stimolo. Non siamo più isolati (forse raggiungibili fisicamente con un po’ di fatica, ma non inaccessibili!), ignari e in ritardo. Abbiamo la banda ultralarga e tempo ed energia per completare le giornate di lavoro con cultura, sport e socialità. Mi diverte declinare il concetto di “urban pressure” in una “rural pressure”: difficoltà più di chiusura e pigrizia mentale che di carenza di infrastrutture moderne.
Ma sarebbe disonesto e irreale dire che è tutto facile e piacevole, sebbene l’amore e il legame con questi luoghi ci facciano apparire come affrontabile ogni difficoltà. Tutte le ipotesi di normativa speciale per la montagna hanno identificato i nodi che da decenni si discutono ma non si risolvono. Solo alcuni, tra quelli che quotidianamente fronteggiamo: mobilità su gomma e su rotaia rarefatta, servizi sanitari spesso lontani, scuole sempre con la spada di Damocle dell’accorpamento per carenza di iscrizioni, uffici postali aperti a singhiozzo, copertura della telefonia mobile aleatoria, attività commerciali superstiti in difficoltà, centri di aggregazione rari, competenze professionali locali scarse, dissesto idrogeologico diffuso.
È vero tutto ciò, come è vero che il supporto finanziario negli ultimi tempi è più corposo. Ma a livello locale, come a livello regionale o nazionale, se non ci sono capacità tecniche per progettare e gestire i progetti, si resta con la doppia frustrazione di non potere perché non si sa fare. Da sindaca, poi, non posso che lamentare la frustrazione più grande, che è quella di avere responsabilità esorbitanti e risorse umane a dir poco scarse per fronteggiarle. Non è soltanto la carenza di personale con cui affrontare progetti speciali, anche la quotidianità e gli adempimenti di legge, senza responsabili di servizio, senza segretario comunale sono campo minato per inadempienze e ritardi. Solo una grande passione, uno spirito di servizio sconsiderato possono spiegare l’ostilità con cui si continua a lottare per il benessere di chi ha il coraggio di vivere in territori ricchi e fragili».
Tra le parole di moda in questo nostro tempo ci sono “territorio” e “identità” che a volte finiscono per evocare una chiusura nel proprio piccolo spazio geografico e culturale. A Fontecchio, invece, anche attraverso la convenzione di Faro, l’obiettivo è quello di progettare un futuro di dialogo, di integrazione. Lei ha voluto che nel suo paese fosse realizzato, attraverso un’azione collettiva, il Terzo Paradiso, un progetto di un grande artista contemporaneo, Michelangelo Pistoletto, partito nel 2003 e ora diffuso in tutto il mondo. Consiste in tre cerchi consecutivi, quelli esterni rappresentano tutte le diversità e le antinomie, tra cui natura e artificio. Quello centrale è la compenetrazione fra i cerchi opposti e rappresenta il grembo generativo della nuova umanità. Un’utopia o una realtà, faticosa da costruire, ma possibile?
«Per affrontare le delusioni e le fatiche non posso che essere profondamente convinta che sia un’utopia possibile! Avrei altrimenti perduto la forza di inserire in un flusso la solitudine, le meschinità, le retrocessioni, le ostilità. È, in effetti, il tasto più dolente: dover constatare che apertura, generosità, gratuità, solidarietà non sono attitudini spontanee e diffuse. E tasto delicato e dolente è anche l’equilibrio tra memoria e identità, luogo e globalità. Enciclopedie di riflessioni sono state elaborate su questi temi, abbiamo cercato di farle nostre in un microcosmo con molte persone anziane, con una comunità che, comunque, nel 2015, ha osteggiato l’avvio di un progetto di seconda accoglienza per migranti richiedenti asilo. Riproveremo con i minori non accompagnati, perché il senso di essere fortunati, di essere stati aiutati nel momento di drammatico bisogno (mi riferisco al terremoto del 2009) dovrebbe averci insegnato che, anche se il nostro contributo alla soluzione di problemi enormi appare minuscolo, deve essere dato. Sommare e far convivere le diversità, provocare le contaminazioni può essere gratificante per ognuno di noi, ma credo sia dovere precipuo dell’amministratore pubblico.
Il modo che abbiamo identificato a Fontecchio per farlo è attraverso l’arte. Avremmo potuto percorrere la strada dello sport, dell’agricoltura o dell’assistenza agli anziani. Anche. Ma il mezzo che ci è apparso più pacifico, discreto, interpretabile, versatile, stimolante, efficace, è stato l’arte, meglio: il patrimonio culturale. L’adesione così convinta alla convenzione di Faro risiede proprio in questa certezza: l’eredità culturale ha valore sociale. Vale per la coesione, per l’economia, per il dialogo, per il dialogo intergenerazionale. Profondo rispetto per l’identità che nei secoli si è definita, audacia e sperimentazione per come la stessa preziosa identità può evolversi e deve aprirsi per continuare a vivere. Constatiamo come ci si può facilmente avvizzire, inaridire se non ci si apre, non ci si coltiva. Anche il bello statico deperisce. Stiamo cercando di aumentare, rinnovare la incommensurabile bellezza del nostro patrimonio materiale e immateriale. Nuove tradizioni, nuovi linguaggi, nuove energie, giovani ed eterogenee. Todd, Luca, Valeria, Costanza, Allison, Stefania, Julian, presto Sebastian… Sono ricchezze di esperienze e di sentimenti che hanno scelto di investire in questo luogo, di interagire con i componenti di questa comunità, di farne parte. Ed è una gioia e uno stimolo incommensurabile! D’altro canto, si innescano circoli virtuosi se il rispetto con cui si accoglie e si ascolta dà credibilità al luogo.
Le comunità ospitanti sono un obiettivo di molti, società aperte, anche se le recalcitranze, le ostilità, le presunzioni non mancano in nessun gruppo. Ma qui si può respirare, in senso stretto e in senso lato, si può più facilmente respirare. Con un buon ritmo del respiro, anche l’equilibrio è più probabile. E credo che quell’equilibrio, sempre precario e fragile, deve essere obiettivo e metodo. Equilibrio tra natura e artificio, esigenze personali e bene comune, benessere e sostenibilità, leadership e condivisione, memoria e innovazione…Si può fare. Lo credo. Lo so».
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Sabrina Ciancone ha 51 anni, vive a Fontecchio, è sposata con Antonio ed è madre di Lorenzo e Giacomo. Ora lavora nello staff del Rettore del Gran Sasso Science Institute, prima era stata nell’amministrazione di una Residenza assistenziale per anziani, della Clinica Oculistica del Policlinico Gemelli di Roma e dell’Ospedale dell’Aquila. Ancor prima aveva collaborato con il Formez, il Centro Studi V. Bachelet e nella gestione di fondi comunitari per lo sviluppo rurale. Ha una laurea e un Master in Scienze Politiche presso la LUISS di Roma, sta provando a laurearsi finalmente in beni culturali.
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Maria Rosaria La Morgia, giornalista professionista, ha lavorato in Rai fino al 2017. Si è laureata in Filosofia con una tesi di antropologia culturale nel 1977 e ha frequentato la Scuola di specializzazione per Archivisti e Bibliotecari, su suggerimento di Alberto M. Cirese, suo maestro negli anni universitari. Il concorso per programmisti registi in occasione della nascita della Terza rete (1978) l’ha portata in Rai dove ha lavorato come giornalista nella redazione di Pescara e per un breve periodo anche in quella del TG2 a Roma. Tra le pubblicazioni: Contributo alla storia orale delle contadinanze frentane (1978), C’era una volta l’Abruzzo (1985), La Buona Salute, medici medicina e sanità nell’intervista con Silvio Garattini (1997), Terra di Libertà, coautrice con Mario Setta (2015), Sul cammino della modernità, a cura di Franca de Leonardis e Fabrizio Masciangioli, (2017). Tra le fondatrici del “Centro di cultura delle donne Margaret Fuller” di Pescara e dell’Associazione “Le Maiellane”, è attualmente è cultrice della materia presso la cattedra di Antropologia culturale dell’Università D’Annunzio, collabora con le riviste Leggendaria e Rivista Abruzzese.
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