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Bibliothek Warburg «indefinita e forse infinita» costellazione di immagini e parole

 

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Pieter Bruegel il Vecchio, La torre di Babele, 1563

di Maria Chiara Modica

«1 Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2 Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4 Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6 Il Signore disse: “Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile”. 7 “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. 8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Genesi 11, 1-9) [1].

Un solo idioma simbolo del potere assoluto imposto dall’imperialismo babilonese fu frantumato in un caos plurale di lingue dal Dio dell’Antico Testamento, che scelse di punire l’empio e superbo tentativo degli uomini di sfidare il cielo.

Si dice che pluralità è ricchezza, tuttavia la punizione divina generò caos; da allora, le lettere si unirono fra loro in un numero infinito di combinazioni possibili in lingue diverse, e le parole eternamente s’intrecciarono creando una moltitudine di significati.

2-borges-finzioniIn Finzioni Borges (2003: 67-76) ci racconta che a Babele c’è una Biblioteca che è l’Universo stesso. Essa ha stanze esagonali sovrapposte «di un numero indefinito, e forse infinito», con cinque scaffalature di libri su cinque lati, uno solo occupato da corridoi per accedere alle diverse sale e una scala a chiocciola che permette di muoversi in verticale. Gli specchi duplicano lo spazio percepito – quale diabolico artificio! Tuttavia l’autore, volendo abbracciare l’indeterminatezza di questo spazio disorientante si augura che tali superfici riflettenti «figurino e promettano l’infinito».

La geometria euclidea si piega: è impossibile cogliere le dimensioni della Biblioteca di Babele, sappiamo soltanto che è «una sfera il cui centro perfetto è qualunque esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile». Dunque, la sua natura è circolare, come lo è Dio, «libro ciclico», al contrario dell’uomo «imperfetto bibliotecario».

La Biblioteca-Universo contiene libri dalla natura «informe e caotica», in essi c’è tutto ciò che si può esprimere, vero o falso che sia, nonché le «interpolazioni di ogni libro in tutti i libri». In definitiva si potrebbe affermare che parlare non genera novità poiché è già tutto scritto.

«Io mi arrischio a insinuare questa soluzione: la biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore l’attraversasse in qualunque direzione, verificherebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). La mia solitudine si rallegra di questa elegante speranza.
Mar del Plata, 1941».

L’“elegante” soluzione proposta da Borges consiste nel trovare ordine in ripetizioni differenti e simmetrie paradossali, ricerca sempre attuata e mai conclusa, che è insieme tragedia e salvezza per l’animo umano.

Borges aveva la capacità di condensare in un racconto di poche pagine una matassa fittissima di riferimenti e significati; i suoi testi esemplificano la “Molteplicità” delle Lezioni Americane di Italo Calvino, ciclo di sei conferenze che avrebbe dovuto tenere nell’anno accademico 1985-86 alla Harvard University, se non fosse stato stroncato da un ictus.

«La moltiplicazione dei possibili» (Calvino 2019: 121), più che frantumare l’identità di un testo e del racconto autoriale ne rivela la sua più profonda natura: «[…] chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienza, d’informazioni, di lettura, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili» (ivi: 122).

Questo processo combinatorio è ininterrotto, produce riferimenti intertestuali e ipertestuali, un dialogo continuo con gli autori del passato e una riproposizione aggiornata e diversificata di temi, riflessioni e ricerche nel presente. Si sarebbe tentati di pensare che tale processo avvenga in linea retta e progressiva partendo da archetipi o prototipi originari riproposti dalle generazioni di autori successivi.

In realtà Borges ci suggerisce una chiave di lettura più complessa sulla natura della relazione tra le voci passate e presenti. Nel suo saggio Kafka e i suoi precursori (Borges 1985: 106-108 cit. in Pinotti 2001) evidenzia, con la sua geniale propensione al paradosso, che gli autori somiglianti a Kafka che lo precedono sono eterogenei fra loro, ma con un denominatore comune dato dalla similitudine, a posteriori, con Kafka stesso. Dunque, una tale costellazione di nuove relazioni scaturita dall’introduzione di un nuovo elemento (in questo caso Kafka), inevitabilmente avrà ripercussioni non solo sulla ricezione presente delle singole opere, ma anche sulla loro lettura critica attuale e futura in virtù delle nuove connessioni trovate.

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Bibliothek Warburg

La conseguenza naturale di questo modo d’intendere la cultura fa avanzare l’ipotesi che i testi e le immagini del mondo siano in un dialogo attivo e permanente, con un’origine fluttuante nell’atemporalità. Il contenitore ideale di questi testi continuamente risignificati dovrebbe essere la borgesiana Biblioteca di Babele «indefinita, e forse infinita», dove il tempo è ciclico. C’è un filo rosso che si dipana da ogni testo e da ogni immagine, si moltiplica in infinite connessioni tra i ripiani di un grande archivio di memorie, ricordi e finzioni. Saltare da una parola a un’altra e da un’immagine a un’altra ancora equivale ad un’immersione senza fine nella vertigine del caos.

Il filo rosso si apre: si allunga in orizzontale e in verticale, s’ingrossa e si assottiglia, poi si ramifica e ogni nuovo ramo è potenzialmente produttivo…il procedere rizomatico è il suo destino. L’insieme dei testi in ogni biblioteca crea un «paesaggio mentale» (Calasso 2020:15), fluttuante e imprevedibile come il dedalo dei pensieri.

Ad Amburgo, nei primi decenni del XX secolo, nasceva una biblioteca, la Bibliothek Warburg, che era l’epifania del labirintico «paesaggio mentale» del suo ideatore, da cui prende il nome. Aby Warburg (1866-1929) fu uno storico e critico d’arte tedesco, i cui scritti, seppur frammentati ed esigui, hanno avuto una grande influenza negli sviluppi postumi della storia dell’arte, grazie al suo tentativo di costruire una «psicologia storica dell’espressione umana» (Calabrese, Uboldi 2011: VII), con un approccio interdisciplinare. Egli inoltre ha inaugurato lo studio della storia culturale europea attraverso l’analisi ora minuziosa, ora caotica e sempre ossessiva dell’interazione acronica tra immagini e storia [2].

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Sir Ernst Gombrich, quarto direttore del Warburg Institute

Oggi la mole immensa di quei volumi costituisce il nucleo originario del Warburg Institute di Londra [3], biblioteca e centro di ricerca annesso alla London University che tra i suoi collaboratori e direttori ebbe lo storico dell’arte E.H. Gombrich (tra il 1959 e il 1976). Nel 1970 Gombrich pubblicò Aby Warburg. Una biografia intellettuale, testo che contiene oltre a numerosi preziosi frammenti della vita e della ricerca dello straordinario studioso amburghese, il racconto “Storia di una biblioteca (1866-1944)” di Fritz Saxl (Gombrich 2018: 315-329), storico dell’arte e fedele collaboratore di Aby Warburg già dai tempi di Amburgo, nonché direttore della Biblioteca alla morte del suo maestro. A questo testo si farà riferimento per percorrere le linee essenziali della storia di una delle più peculiari biblioteche mai create, che sembra essere nata con quel senso di «indefinito e infinito» di borgesiana memoria. Le vicissitudini che hanno portato quell’enorme mole di libri attraverso l’Europa e su fino in Inghilterra hanno il fascino delle più avvincenti narrazioni.

Aby Warburg nacque il 13 giugno 1866 ad Amburgo, da una famiglia di ricchi banchieri. Era il maggiore di sette fratelli, ma rinunciò alla primogenitura già all’età di tredici anni, cedendola al fratello Max, che raccontò l’episodio nel suo discorso commemorativo del 1929. In cambio di un patrimonio bancario non da poco, Aby avrebbe chiesto a Max l’acquisto di tutti i libri di cui avesse avuto bisogno. Naturalmente una simile proposta fu subito accettata, d’altro canto, Max pensò che non sarebbe stato così oneroso l’acquisto di qualche testo filosofico; invece dovette ricredersi, perché quell’amore viscerale per i libri che nutriva il fratello gli costò «un assai cospicuo assegno in bianco» (Gombrich 2018: 33).

All’età di ventun anni intraprese gli studi universitari a Bonn e già in quegli anni iniziava la registrazione regolare dei libri acquistati. Si rivolse al padre per un aiuto finanziario per alcune collane particolarmente dispendiose, motivando l’acquisto con la volontà di raccogliere testi in vista delle ricerche che generazioni future avrebbero continuato. Quindi, l’idea di una biblioteca andava già formandosi in quegli anni e nel 1904 mise per iscritto che i libri alla sua morte dovevano esser donati alla Biblioteca Statale di Amburgo o all’Istituto Germanico di Firenze, entrambe istituzioni fondamentali per la sua formazione. Gli eventi storici che seguirono alla sua morte modificarono il destino della sua biblioteca.

La vastità dei suoi interessi – religione, filosofia, storia, psicologia, astrologia, storia dell’arte, per citarne alcuni – fecero maturare in lui l’idea di una biblioteca in cui lo studio delle scienze umane sarebbe avvenuto passando agevolmente da una disciplina all’altra per poterne cogliere le molteplici sfaccettature.

Nella Biblioteca Warburg, che ebbe la sua prima sede in via Heilwigstraße ad Amburgo, la combinazione dei libri sui ripiani avveniva secondo la «legge del buon vicino» (Gombrich 2018: 317), in base alla quale un ricercatore si sarebbe trovato a consultare non il libro che cercava ma quello posto accanto. Questi testi diventavano fonti preziose per la ricerca nel mare magnum della storia culturale, non tanto per le informazioni ivi contenute, ma per le questioni che erano in grado di sollevare in base alla relazione che s’instaurava tra loro. La loro vicinanza variava di volta in volta in base all’introduzione di un nuovo libro. Warburg, infatti, instancabilmente spostava e riorganizzava quei testi. L’effetto complessivo era destabilizzante e inebriante al tempo stesso.

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Bibliothek Warburg

Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, caratterizzati da un grande fermento culturale, nasceva l’Università di Amburgo e inevitabilmente la nuova istituzione portò a nuove generazioni di studenti e docenti che circolavano anche nella Bibliothek Warburg. Poi, nel 1920 Warburg si ammalò, fu ricoverato nella clinica psichiatrica di Kreuzlingen per una crisi di nervi, ritornò solo nel 1924 e riprese subito ad occuparsi dei suoi progetti di ricerca e dell’espansione della biblioteca.

I suoi collaboratori continuarono il lavoro, sia durante sia dopo la sua definitiva scomparsa avvenuta nel 1929, attraverso pubblicazioni, nuove acquisizioni e riorganizzazioni. Avvenne anche che il nuovo clima culturale amburghese portasse in quegli anni alla trasformazione della biblioteca da istituzione privata a pubblica, collegata all’Università. Il risultato fu in parte una semplificazione dell’intricata ricerca del maestro, ma anche una prolifica circolazione di studiosi internazionali, tra i quali Ernst Cassirer per la filosofia (professore e rettore dell’Università di Amburgo), Erwin Panofsky per la storia dell’arte (oggi considerato il padre fondatore dell’iconologia), Karl Reinhardt per la filologia classica.

Da lì a pochi anni il clima politico cambiò radicalmente, così, nel 1933, fu chiaro a tutti, compresa la famiglia Warburg che aveva continuato a finanziare l’Istituto anche dopo la morte di Aby, che la Germania Nazista avrebbe mandato in fumo quell’immane patrimonio librario. A quel punto, presi i giusti contatti, nel 1933 la Biblioteca fu trasportata a Londra clandestinamente, e nel 1944 fu ufficialmente annessa alla London University. La scelta a favore di questa annessione fu data da una comparazione tra i testi della Biblioteca del British Museum e quelli della Biblioteca Warburg, da cui risultò che numerosi titoli e periodici raccolti durante gli anni amburghesi non erano presenti nella prestigiosa istituzione londinese e questo decretò la salvezza e la continuità dell’eredità di Warburg.

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Aby Warburg, Tavole Mnemosyne

È necessario citare un altro aspetto del lavoro di Warburg per cogliere l’originalità del suo metodo di ricerca, anche se sono necessari ulteriori approfondimenti per una maggiore completezza. Si tratta dell’ultimo progetto a cui lavorò al ritorno dalla clinica psichiatrica e fino al momento della sua morte: il Bilderatlas Mnemosyne, l’“Atlante della Memoria”, montaggi di immagini della storia dell’arte, con lo scopo di mettere in evidenza il Nachleben der Antike (la sopravvivenze dell’antico) attraverso il riaffiorare delle Pathosformeln (formule di pathos) (Didi-Huberman 2006).

Il progetto – che non fu mai ultimato, e mai sarebbe potuto esserlo – consisteva nella riproduzione fotografica di immagini presenti nei testi della Biblioteca. In cinque anni, fino al 1929, furono realizzate circa 25 mila foto (ivi: 416). Insieme a Saxl, le foto furono fermate con dei fermagli su teli neri disposti lungo la sala di lettura della Bibliothek, seguendo l’andamento ellittico.

«I raggruppamenti possono essere formali (cerchio, sfera) o gestuali (morte, lamento). Una stessa immagine può smontarsi nella frammentazione iterata dei propri dettagli. […] Sarebbe ancora più giusto parlare di “costellazioni”, nel senso di Walter Benjamin. A condizione di insistere sul carattere sempre permutabile delle configurazioni ogni volta ottenute […] Warburg aveva capito che doveva rinunciare a fissare le immagini come un filosofo deve saper rinunciare a fissare le sue idee» (ivi: 417-423).
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Aby Warburg

Le varianti relazionali tra queste immagini sono infinite, Warburg li rimaneggiava continuamente, così come faceva con i libri; aveva deciso di frantumare la linearità cronologica della storia e del pensiero occidentale. La disposizione dei manoscritti e l’Atlante Mnemosyne avevano lo stesso carattere di permutabilità e la ricerca divenne un campo aperto per qualsiasi sviluppo successivo.

Warburg è tra quelle complesse e inclassificabili personalità che attraversano il mondo della cultura, capaci di spingersi in alto a sfidare il cielo, come i costruttori della torre di Babele, e di scendere negli abissi più profondi dell’oceano per pescare perle. Tutto ciò che è sepolto nell’oceano ha subìto un processo di trasformazione e stratificazione, è un tesoro che non smette mai di evocare nuovi significati. Le perle sono gli occhi del padre e di tutte le generazioni passate che hanno subito una «metamorfosi marina», come racconta Ariel nel celebre passo della Tempesta di Shakespeare (cit. in Didi-Huberman 2006: 468):

A cinque tese sott’acqua tuo padre giace.
Già corallo son le sue ossa
Ed i suoi occhi perle.
Tutto ciò che di lui deve perire
Subisce una metamorfosi marina
In qualche cosa di ricco e di strano.
Ad ogni ora le ninfe del mare
Una campana fanno rintoccare.

I libri della Biblioteca di Warburg – e di ogni biblioteca – sono tesori sepolti nell’oceano della conoscenza, dove tutto è stato scritto, ma è sempre pronto per essere riesplorato e riletto.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] https://www.bibbiaedu.it/CEI2008/at/Gen/11/?sel=11,1&vs=Gen%2011,1
[2] Oggi l’eredità di Warburg è tenuta in alta considerazione tra gli studiosi di estetica e cultura visuale, come Didi-Huberman, Agamben, Pinotti, Soimani, Cometa (per citarne alcuni) e di chi si occupa di “sopravvivenze dell’antico” Settis, e di chi scorge nel metodo dello storico dell’arte amburghese la possibilità di ampliare il campo d’indagine dello studio delle immagini in senso “cognitivo e neuroscintifico” (Calalbrese, Uboldi 2011: XIX).
 [3] https://warburg.sas.ac.uk/about-us
Riferimenti bibliografici
Borges, J. L. (2003), Finzioni, Adelphi, Milano.
Borges J. L. (1985), Altre Inquisizioni, Feltrinelli, Milano.
Calasso R. (2020), Come ordinare una biblioteca, Adelphi, Milano.
Calabrese S., Uboldi S. (2011), Warburg. Immagini permanenti. Saggi su arte e divinazione, Archetipolibri, Bologna.
Calvino, I. (2019), Lezioni americane, Mondadori, Milano.
Didi-Huberman G. (2006), L’immagine insepolta: Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino.
Gombrich E.H. (2018), Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Abscondita, Milano.
Pinotti, A. (2001), Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg, Mimesis, Milano.

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Maria Chiara Modica, ha conseguito la Laurea Magistrale in Arti Visive presso l’Alma Mater Studiorum -Università di Bologna con tesi di laurea dal titolo: “La Collezione olandese De Stadshof. Peculiarità di una raccolta d’arte outsider approdata nel museo Dr. Guislain in Belgio”. Attualmente insegna presso gli istituti secondari di secondo grado, parallelamente continua ad approfondire il discorso sull’arte, in particolare contemporanea, da un punto di vista fenomenologico e semiotico; il linguaggio artistico come campo d’indagine delle dinamiche socio-culturali e generatore di azioni politiche.

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