il centro in periferia
di Pietro Clemente
In mezzo al guado sempre
A ogni uscita de Il centro in periferia, scialuppa del vascello di Dialoghi Mediterranei, si prende atto della crescita del numero dei morti: ieri sera erano 95.718. Nella sua relazione di avvio del nuovo governo, Mario Draghi ha detto che l’età media degli italiani (la speranza di vita) in un anno è decresciuta di 4-5 punti. È una cosa da far sbiancare, da far tremare i polsi. Da fare ricorso alle faccette blu terrorizzate degli emoticon. Nell’editoriale di gennaio parlavo di 60.000 morti. Erano 35.000 di meno. Mi pare che nel dibattito pubblico questo tema manchi. Non sia nella mente di chi vuole riaprire i ristoranti, di chi vuole andare la domenica in un’altra regione, di chi finisce per scambiare il Covid con chi gestisce il potere. Forse il dibattito pubblico è fatto da chi non ha ancora 70 anni. Da chi non ha capito che i fragili dal punto di vista del futuro della nostra forma di vita, non sono i commercianti, ma i giovani e gli anziani. Le classi d’età che segnano il futuro: i primi perché lo vivranno, i secondi perché sono la avanguardia di una nuova longevità.
È in questo scenario che cresce in me il senso di scandalo per tanti eventi. Come è possibile chiamare ‘lavoratori della montagna’ i gestori delle sciovie, il personale che ci opera, quelli dell’indotto? Ai giornalisti è sembrato poetico usare questo termine per qualcosa che con la montagna non ha nulla a che fare se non un consumo del territorio. Come si devono sentire coloro che vivono ancora in montagna, con la montagna e della montagna? Potevano dire “lavoratori della neve” ma forse non era abbastanza carino e evocativo. E ogni volta che vedo ripetere ossessivamente la pubblicità dell’acqua Oliveto o del cioccolato Novi, tra annunci di morti e percentuali di contagi, mi viene da pensare se non si vergognano di abusare del nostro dolore. Sono tutti segni che dimostrano che non si è capito che il mondo è cambiato e non tornerà come prima.
Provo a credere che qualcosa si stia muovendo da qualche settimana. Finora nessun partito avrebbe potuto parlare di svolta ecologica senza perdere voti, e infatti nessuno lo ha mai fatto. Ora almeno è stato detto. E tra i ministri proverei a credere in chi ha mostrato più attenzione verso le zone interne. Penso a Enrico Giovannini [1], autore con Fabrizio Barca di Quel mondo diverso. Da immaginare, per cui battersi, che si può realizzare (Laterza 2020) al cui centro sta il tema delle aree interne, di un diverso orientamento dello sviluppo e delle diseguaglianze. Fabrizio Barca, responsabile del Forum Disuguaglianze e Diversità, in un articolo sul quotidiano Domani ha rivolto al governo l’invito a operare da subito contro le disuguaglianze territoriali [2].
A qualche spiraglio di nuova prospettiva ascrivo anche il fatto che perfino le riviste settimanali Robinson (la Repubblica) e La Lettura (Il Corriere della Sera) che si contendono il pubblico a suon di scoop letterari e di cultura tradizionale, hanno introdotto l’agricoltura tra gli aspetti della vita culturale. Ma per arrivarci ci sono voluti profili di intellettuali contadini (su Robinson è stato Michele Serra) e comunque di contadini ‘esistenziali’ come scrive il musicista Massimo Zamboni su La lettura nell’articolo Terra! distinguendoli dai contadini ‘professionisti’. Così come anche Emanuele Bernardi, docente di Storia contemporanea, che nella stessa rivista scrive Ora serve una riforma agraria in digitale. Ma è contadina Federica Manizza di Senigallia, in un racconto di Giampiero Rossi (Una donna nei campi). Credo che sparirà presto l’agricoltura da pagine culturali così tradizionali, ma questa traccia può rappresentare un segno.
Riabitare l’Italia significa soprattutto riattivare il lavoro contadino. È da decenni che si discute su questo aspetto a livello mondiale. Questi contadini-intellettuali (la nostra storia è ricca di intellettuali-contadini) [3], che lo sono come ‘secondo lavoro’, hanno chiarissima la differenza tra chi investe sulla terra e chi la vive solo di domenica o produce una vivace mitologia neorurale (nell’ampio scritto di Letizia Bindi vi è una forte critica del neoruralismo e del ‘borghismo’, fenomeni ignari della dimensione complessa del lavoro e del riabitare). Speriamo che questa differenza sia chiara anche al governo e allo stesso Ministro della Cultura. Il Ministero ha da poco un nuovo nome ma resta la propensione a ripercorrere la tradizione meno innovativa della storia dell’arte e dell’architettura, estendendola al massimo al cinema e al teatro, senza mai però porsi il problema di cosa significhi ‘cultura’ nel mondo e nella società plurale che viviamo.
Dal punto di vista antropologico il concetto di cultura ha circa 150 anni di vita [4]. Ma sembra essere ancora ignoto a chi parla solo di eccellenze, bellezza, e inaugurazioni impedite dal Covid. Per riabitare l’Italia delle zone interne occorrono risorse culturali che non stanno nelle Soprintendenze, ma nei saperi pratici degli anziani, nello studio dei territori, a volte nei musei locali, nel grandioso patrimonio immateriale di canti, riti, feste, che caratterizza l’Italia periferica. Uno scenario che si presenta un po’ più complesso che Pompei, gli Uffizi e Venaria reale.
La vigna magica
Mi viene a proposito la segnalazione del libro di Piercarlo Grimaldi, La vigna magica. Le pietre antropomorfe ritornano ad abitare la Langa (Casa ed. di Mirafiore, 2020). Un esperimento che ha a che fare con le culture locali, i riti e le memorie. Perché il libro ha lo stesso nome del vino di una vigna che è stata impiantata e ha fruttificato, secondo pratiche proprie dei saperi locali del passato. Un impianto di nuova vigna che ha voluto proporre una ‘magia post-moderna’, utilizzando, come protezione dei vitigni, delle coppie (maschio/femmina) di pietre antropomorfe scolpite, sul modello di quelle già studiate da Grimaldi anni fa. Pietre magiche e propiziatorie. Un esperimento denso di valori simbolici, simile in qualche modo alla riproposta che Piercarlo Grimaldi fece molti anni fa dell’orso, figura scomparsa dalle feste locali [5]. Si tratta di sperimentare l’attualità creativa di alcune figure e simboli del passato. La proposta è quella di acclimatare nel presente l’investimento emotivo delle antiche forme di magismo, dei simboli della fecondità e degli investimenti propiziatori, facendoli dialogare con la dimensione ecologica, biodiversa, identitaria.
È come dire che il nostro mondo ha bisogno di simboli, di valori esperienziali, non riducibili alla razionalità produttiva. Occorrono visioni, forse ‘ideologie’, capaci di connettere un insieme che va dall’impiantare un vigneto a raccoglierne il prodotto, trasformarlo in vino e fare tutto ciò rispettando la terra e amando il territorio. A ben pensarci non è difficile considerare una magia o un gesto religioso il poter bere un prodotto che viene dalla terra ed è legato al ciclo delle stagioni, che affronta la meteorologia, che contrasta il mercantilismo, e che chiede quindi, fiducia, rispetto, consonanza col territorio e col tempo (tra terra e cielo). Un prodotto che non è estraniato rispetto al produttore come avveniva in alcuni modelli pre-capitalistici dei quali credevamo si fosse perduta memoria.
In un certo senso Riabitare l’Italia è anche superare il modello di sviluppo che abbiamo incorporato, quello per cui l’abbandono delle campagne e delle montagne era l’irreversibile regola della modernizzazione e chi lo negava era reazionario. In quelle ideologie era solo oltre il capitalismo, nel comunismo, che si poteva ritrovare un possibile nuovo incontro tra prodotto e produttore reale. La proposta di Grimaldi è – detto in modo un po’ provocatorio – di smettere, come era d’uso negli approcci marxisti della mia generazione, di smitizzare il mondo contadino, e di restituire alla comune Madre Terra gli atti che si compiono nel mondo contadino di oggi attraverso miti, emozioni e senso di appartenenza [6].
Servono simboli e riti
La proposta-esperimento-provocazione di Grimaldi mi fa pensare a decenni di ricerche e dibattiti antropologici sul magico, ricerche che non hanno visto altro che superstizione, resistenza culturale, o “riti arcaici precristiani la cui origine affonda nella notte dei tempi”, senza però un possibile esito di futuro. A mio parere oggi è necessario rileggere il mondo simbolico del passato nella chiave del riabitare. Bisogna proporsi di costruire un nuovo mondo simbolico che ne tenga conto. Nell’ambito delle tematiche delle aree interne, questo è un punto molto rilevante che distanzia antropologi e ‘resto del mondo’. Sembra che tutti gli altri (architetti, urbanisti, geografi, sociologi, economisti) vedano come un impaccio il fatto che la resistenza di molti territori marginali sia rafforzata da grandi ritualità calendariali, da eventi religiosi, da credenze locali. Mentre gli antropologi trovano le periferie animate piuttosto dalle feste, che non dalle imprese innovative basate sulla biodiversità. Riconoscono in queste pratiche forme di resistenza all’individualismo, espressioni collettive di partecipazione democratica [7].
C’è anche un orizzonte generale di analisi che aiuta a pensare in questi termini. A questo proposito penso alle teorie di Philippe Descola sull’animismo come forma diffusa, primaria, presente nel nostro modo di vivere e non solo in quello degli uomini delle origini [8]. Questo dibattito è stato avviato dalle critiche che alcuni degli studiosi del riabitare l’Italia hanno mosso al tema del patrimonio culturale, ma può utilmente essere esteso alla dimensione dei riti e del simbolismo.
Di recente ho partecipato a una iniziativa su Facebook fatta dall’Associazione Realtà Virtuose di Sa Pedra Bianca (Padru) (una piccola comunità della rete dei piccoli paesi, in provincia di Sassari) dedicata alla rinascita del piccolo paese corso di Pianellu. In questo caso al cuore del riabitare c’è una confraternita che fa da punto di condensazione simbolica della comunità resiliente. Da qui parte una elaborazione straordinaria sul modo di vivere, sull’identità, sulla centralità della persona-comunità, rispetto a quella della divisione del lavoro, dell’essere professore o pastore. Era sorprendente che i due intervistati fossero professori e pastori allo stesso tempo. Le confraternite come interpreti laiche di festività religiose non sono un soggetto ‘politicamente corretto’ per una rinascita territoriale “illuminista”. Anche in Italia le confraternite restano forti nuclei di condensazione comunitaria, anche se poche riescono ad avere una riflessione sulla vita e il riabitare innovativa come quella di Pianellu.
Ma l’idea importante è che il ri-abitare non può essere solo visto come una impresa laica senza simboli e senza le tradizioni (e non solo i saperi pratici) che la hanno caratterizzata. In queste pagine ospitiamo lo scritto di Giovanni Gugg su La processione sull’oceano. Il Venerdì Santo nel tempo della pandemia, una straordinaria conferma della potenza comunitaria del vissuto rituale e simbolico. Inventare una festa confraternale su una nave mette in evidenza il bisogno di simboli comuni per dare senso alle forme della vita contemporanea. Il mondo simbolico è parte fondamentale delle forme di vita e dà senso alle pratiche della vita ordinaria. Su questi temi esiste molta letteratura antropologica che può essere messa in campo nelle nostre discussioni.
Nei nostri studi antropologici italiani, il tema del ritorno nei paesi abbandonati si apre con il volume di Gian Luigi Bravo su Festa contadina e società complessa (Angeli 1984), con un commento di Luciano Gallino. La festa del Venerdì santo ha fatto tornare i paesani inurbati a Belvedere Langhe. Si trattava di una festa ricostruita dalla comunità nello spirito del passato, ma sulla base delle nuove esperienze di ciascuno. Un modello che resta centrale anche nei nostri attuali progetti di riabitare l’Italia.
Piccoli paesi
In queste pagine prendono la parola esperienze diverse. Riabitare significa senza dubbio mettere insieme tante diverse storie, vite, imprese, comunità. Più una alleanza che un movimento, più una polifonia che un progetto. Di recente in un altro incontro su Facebook dedicato dall’Associazione Realtà Virtuose alla Corsica, Toni Casalonga, che rappresenta Pigna, un piccolo comune in cui il riabitare è cominciato nel 1964, ci ha ricordato che non si deve rimpiangere il passato piangendo il vuoto dell’abbandono. E che si deve usare il vuoto per riempirlo di qualcosa che non c’era stato prima. Anche a Pigna la musica, la lingua e la cultura corsa, l’artigianato hanno fatto blocco con scelte di vita ecologicamente fondate sulla biodiversità. In un insieme dai forti tratti ‘ideologici’ e contro egemonici.
Ma pensando al vuoto, mi è venuta in mente una storia giapponese vista sul web, quella della signora Ayano Tsukimi che a Nagoro sull’isola di Shikoku, per riempire i vuoti dell’abbandono ha costruito un fantoccio di pezza per ciascuno degli abitanti assenti, morti o andati via. Li ha collocati negli spazi della comunità, nei bar, nelle scuole, come in un museo che simula la vita. Vuole ricordarci un secondo luogo, una seconda vita simbolica? Un oltretomba e un oltrevita che si affianca alla vita, che materializza i ricordi e i fantasmi? Nagoro è diventata oggetto di interesse turistico, ma senza perdere forza simbolica [9].
Piccoli paesi del mondo. In queste pagine tornano molte voci che raccontano i vissuti locali, in specie la voce della comunità di Fiamignano che ringraziamo della sua costante e tenace presenza testimoniata anche nelle nostre pagine. Viene segnalata la mancanza di uguaglianza tra i cittadini a causa della marginalità geografica. Denuncia un sistema di votazione on line destinato in partenza a far perdere le piccole realtà locali. Ne Il centro in periferia, da alcuni numeri stiamo ospitando scritti sul turismo dei piccoli centri e sul valore della Convenzione di Faro nelle esperienze locali. Su quest’ultimo fronte c’è l’esperienza della sindaca Sabrina Ciancone, di Fontecchio, comune di 350 abitanti nell’Aquilano. L’intervista di Maria Rosaria La Morgia mostra le coordinate di una esperienza esemplare, in cui la convenzione di Faro è stata principio ispiratore prima ancora che il Parlamento italiano la riconoscesse. E per il turismo delle aree interne proponiamo il contiguo studio di Flavio Lorenzoni sul Parco nazionale (Abruzzo, Lazio e Molise), con al centro Civitella Alfedena, paese di 300 abitanti dove il tema del lupo e del selvatico fa parte delle strategie di difesa e di offerta del territorio. Lo studio di Giulia Rieti su Rio Marina nell’Isola del Giglio è ricco di interviste che ci mostrano i vissuti della popolazione relativamente al turismo e al restare nei contesti di spopolamento.
Questi testi di ricerca locale dialogano con alcuni scritti di più ampia cornice come la lettura di Giuseppe Sorce del volume di Alberto Magnaghi Il principio territoriale, forse il principale contributo a una lettura sistematica di una alternativa di sviluppo basata su una diversa idea di bio-regione, di modo di abitare, di rapporto città-campagna e montagna. Lo accompagna la lettura fatta da Gaetano Sabato del volume speciale della rivista Scienza del territorio: Abitare il territorio al tempo del COVID [10] e una recensione di Nicola Grato del libro Aree interne e Covid. Queste letture contribuiscono a tenere lo spazio de Il centro in periferia nel cuore di un dibattito e di una ricerca in cui sarebbe insensato prendere posizione a favore o contro, ma è cosa preziosa ascoltarne le voci. Anche quando è presente una voce forte e intensa di discussione come il testo di Letizia Bindi sullo scenario generale dello sviluppo mondiale nel rapporto col territorio. Un testo di frontiera per le nostre riflessioni.
Abbiamo avviato una raccolta di testimonianze sulla vita delle persone morte di COVID in questo nostro drammatico, e sottovalutato, scenario di morte e di dimenticanza. Usando una espressione di Ernesto De Martino, lo abbiamo chiamato ‘umane dimenticate istorie’, ma a leggere i contributi verrebbe da dire ‘umane indimenticabili istorie’. I racconti di memoria si aprono con un ricordo di Gad Lerner (grazie Gad di avere condiviso questo impegno) dedicato a Lidia Menapace e con uno di Monica Tozzi e Andrea Fantacci su Aristeo Biancolini, entrambi partigiani e ricordati con una loro testimonianza nel volume di Gad Lerner e Laura Gnocchi Noi partigiani. Un memoriale della resistenza (Feltrinelli 2020). Si tratta di un testo di straordinaria polifonia, prezioso riferimento del valore di coloro che il Covid ci porta via come un fiume in piena. Aristeo Biancolini è stato anche un mio caro amico e un maestro di storia vissuta per tanti, di tutte le età. Ma anche il carabiniere partigiano morto a Pistoia (raccontato da A. Senatore) è figura davvero unica, così come anche il cavaliere socialista raccontato da Mario Sarica, del quale compare una passione museale che me lo fa sentire ancora più vicino. Michele Fratino ha voluto raccontare una storia complessa e plurale ambientata nell’Ospedale di Campobasso che investe l’assistenza ospedaliera e l’umanità del commiato. Ha dato voce alla storia di Michele Mancini, tramite la testimonianza del figlio che mostra il conflitto sulla gestione della sanità. Un’altra voce, la figlia di un altro ricoverato morto in quell’Ospedale racconta il distacco e l’assenza attraverso i videomessaggi e i whatsapp del padre, ponti virtuali tra mondi separati. Un aspetto presente in entrambi i casi è quello della comunicazione a distanza, degli smartphone, imprevisti testimoni di messaggi ultimi, di commiati altrimenti impossibili. Grazie infine a Maria Scarsella, di averci proposto una sorta di poesia che ricorda gli antichi pianti di dolore, dedicata a Adriano Perrotti, anche lui tra le nostre umane indimenticabili istorie.
È morto pochi giorni fa Alberto Sobrero, antropologo culturale dell’Università di Roma La Sapienza [11]. Come tanti antropologi aveva vissuto dell’incontro con piccoli paesi, i suoi erano stati soprattutto quelli dell’Arcipelago di Capoverde, nell’Africa occidentale, dove aveva fatto lavoro di cooperazione e ricerca nel 1985/86. Il ricordo di quei paesi sono rimasti nel suo libro critico e riflessivo, ma insieme narrativo e plurale, Hora de baj. Antropologia e letteratura delle isole di Capo Verde (1996). Voglio ricordare Alberto in alcuni frammenti di memoria dei nostri stages didattici di ricerca sul campo in alcuni piccoli paesi d’Italia, dove cercavamo di formare gli studenti alla ricerca diretta. Ricordo Alberto nello stage che facemmo all’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, piccolo paese dell’Aretino distrutto dal cannoneggiamento tedesco, e rinato, un po’ come nell’isola di Nagoro, con una popolazione di diari e di autobiografie che vengono depositate nell’Archivio: storie di vita e vite di storia che hanno superato il numero degli abitanti. Era forse lo stage più congeniale ad Alberto per la sua passione critica verso la scrittura. I giovani in quei giorni vivevano doppiamente: in un paese della Val Tiberina, e dentro un mondo di memorie scritte. Nei loro ‘diari di campo’ annotavano la pronuncia locale, i cibi, l’organizzazione dell’Archivio, e nelle storie che leggevano trovavano il racconto delle stragi naziste, delle migrazioni, delle violenze sulle donne, delle persecuzioni degli ebrei. Noi docenti giravamo per il paese, guardavamo ‘dietro le spalle’ dei giovani le loro scritture, parlavamo del senso del nostro modo di fare conoscenza. Era questo soprattutto che interessava Alberto in queste situazioni.
Ma lo ricordo soprattutto ad Armungia, ‘il paese di Emilio Lussu’, nel nostro principale stage di ricerca romano, che si svolse per tre anni consecutivi (1998-2000). Gli piaceva molto quel territorio aspro, di una Sardegna interna meno nota. Un po’ perplesso su quel mondo di giovani studenti alla ricerca di storie lontane e di esperienze vicine, guardava le case in pietra, lo stile del vecchio modo di abitare e ne commentava la bellezza. “Bello per voi”, disse una signora del posto che aveva sentito i nostri discorsi, “non per noi che ci abbiamo vissuto dentro, non avete idea di che fatica era. Il pavimento di terra e strame da rifare spesso, la pulizia difficile, la mancanza di elettrodomestici, il riscaldamento solo col camino”. Nacque anche tra noi una discussione. Le donne di Armungia, come ovunque uomini e donne contadine, hanno maledetto la propria storia, la miseria e la marginalità, e quando hanno avuto accesso alla modernità e conquistato una dimensione di uguaglianza che prima mancava loro la hanno abbracciata fortemente, ed hanno associato ogni aspetto della loro vita precedente alla vergogna storica per la loro condizione legata al passato. Le case che vanno di moda nei piccoli paesi sardi sono quelle che si trovano anche forse nella periferia di Gallarate [12].
Aveva ragione Alberto o la signora del posto? Io credo che negli anni 70 avrei dato ragione a lei. Oggi credo di dovere dare ragione a lui. “Bella” voleva dire portatrice di uno stile locale, legato alla risorse del luogo, al dialogo tra abitare e produrre, che resta un modello anche ecologico. Questa diversità delle case tradizionali va riletta anche dentro la modernità. È una risorsa. Forse una nuova generazione di donne di Armungia la vedrà così. Intanto questa riflessione – assai pertinente a Il centro in periferia – mi aiuta a ricordare un amico, uno studioso di valore, ambientandone il ricordo in un paese sardo che mi è caro, nella luce di un maggio di una ventina di anni fa.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Anche L’utopia sostenibile (Laterza 2018) e il ruolo nella Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile.
[2] https://www.editorialedomani.it/ 13 febbraio.
[3] Lo è stato Ettore Guatelli, maestro-contadino e fondatore del Museo che oggi chiamiamo Museo Guatelli, di Ozzano Taro (www.museoguatelli.it). La Lettura ha tratto da questo museo la foto che accompagna le pagine sull’agricoltura e che qui riproponiamo in una altra versione.
[4] Come è noto molti lo legano all’uscita del libro Cultura primitiva di E. B. Tylor, che è del 1871, quindi festeggia proprio nel 2021 i 150 anni.
[5] P. Grimaldi, Le pietre della magia, in Marsico G., Grimaldi P., La pietra, Omega, 1981 e P. Grimaldi, L. Nattino, (a cura), Le divinità del vino. Pietre e magia contadina, Museo Regionale di Scienze Naturali, 2009; a proposito dell’orso cfr. D. Porporato, Sperimentare la tradizione: nei panni del selvatico, in D. Porporato e G. Fassino, Sentieri della memoria. Studi offerti a Piercarlo Grimaldi in occasione del suo LXX compleanno, Slow food editore, 2015.
[6] Si può rileggere in questa chiave la lettura di Marx che A.M.Cirese fece in Condizione contadina tradizionale, nostalgia, partecipazione, in Id., Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Einaudi, 1977.
[7] A. Broccolini, Le “comunità di eredità” come democrazie del fare, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 33, settembre 2018.
[8] P. Descola, Oltre natura e cultura, Cortina, 2014, ma penso anche a uno studio di T. Seppilli sul vissuto magico delle campagne contadine mezzadrili (biblio).
[9] https://www.zibaldoneweb.it/curiosita-sul-giappone-nagoro-la-citta-giapponese-delle-bambole/
[10] https://oajournals.fupress.net/index.php/sdt/index
[11] Roma 1949 – 2021, professore ordinario di Antropologia culturale, in pensione dal 2019, ha scritto molti lavori teorici sull’antropologia in rapporto alla filosofia, alle neuroscienze, alla letteratura; ricordo qui Il cristallo e la fiamma. Antropologia tra scienza e letteratura, Carocci, 2009, ristampato nel 2015. Siamo stati colleghi, amici, complementari nella didattica e nella ricerca per i dieci anni del mio insegnamento a Roma 1991-2001.
[12] Uso questo modo di dire, sulla suggestione di un racconto di Gianni Rodari, che cercava di costruire fiabe a partire dalla banalità della vita quotidiana, un suo racconto cominciava così: Il geometra di Gallarate….”.
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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