Tutto è fiaba
Per entrare nello spirito che anima questo volume si dovrebbe iniziare dal capitolo A Castropignano. Fotografie di Marco Magni (2005). Nelle splendide immagini in bianco e nero (una delle quali riprodotta in copertina), si vedono i due autori, Alberto Mario Cirese e Pietro Clemente, in affettuoso dialogo. La cornice di quell’incontro è una casa della memoria che si apre su un paesaggio incantato. La fiaba c’è già tutta. E c’è lo spirito con cui ci si addentra in questo tema, affascinante e sfuggente, attraverso le sfumature di una pluralità di piani e voci nel trascorrere del tempo.
Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021) è un’opera monumentale per più ragioni. Riunisce finalmente i tanti e cospicui scritti di varia natura (saggi, articoli, introduzioni e recensioni ad altri libri, inediti) di Alberto Mario Cirese, il maestro, e di Pietro Clemente, l’allievo che, a sua volta, forma un’altra generazione di allievi. Dal primo scritto di Cirese all’ultimo di Clemente trascorrono circa 60 anni (dal 1955 al 2014), ma i riferimenti e i rimandi sono tanti e tali che si ripercorre la storia degli studi demo-antropologici, e non solo, dal XIX secolo per arrivare fino ai nostri giorni. La pubblicazione viene tra l’altro a celebrare il centenario della nascita del Maestro, nato nel 1921 ad Avezzano e scomparso a Roma nel 2011.
Inoltre, non ci sono solo i due studiosi sulla scena: si intravede piuttosto una vera comunità scientifica all’opera, che il Maestro sa coinvolgere e consolidare, in un clima di costante dialogo e confronto, anche in altri campi di indagine oltre alla fiabistica. Ricorrono a più riprese i nomi di Chiarella Rapallo, Enrica Delitala, Carla Bianco, Paola Tabet, Aurora Milillo. E, non ultima, Liliana Serafini, moglie di Cirese e solidissima presenza nei suoi studi. Tutte figure di studiose che hanno continuato a collaborare con Cirese, pur sviluppando un proprio autonomo percorso di ricerca (si veda a questo proposito lo scritto che Pietro Clemente dedica alla collega Aurora Milillo).
Oltre a questa comunità, ci sono poi i riferimenti che rimandano a contesti storici e culturali nei quali i due studiosi si trovano ad operare: c’è un clima favorevole negli anni Sessanta che consente lo sviluppo di questi studi in modo sistematico e organico, come chiedeva Cirese. È il caso della prima indagine di rilevamento nazionale sulle “Tradizioni orali non cantate” condotta tra il 1968 e il 1972 grazie al supporto della Discoteca di Stato, dove Vittorio Santoli, componente della commissione, gli disse a mo’ di augurio e di esortazione: «la nostra è stata la generazione del canto popolare; la vostra sarà quella della fiaba». Per Cirese, inoltre, come non ricordare i colleghi Ernesto De Martino, Roberto Leydi, Diego Carpitella, Clara Gallini, una intera generazione che ha contribuito in modo fondamentale all’avvio delle discipline antropologiche in Italia. Mentre in altri periodi, e in particolare negli anni Duemila, il professore, collocato in pensione, ma non per questo meno attivo e intraprendente, si ritrova pressoché isolato: «Ora l’invito dei Cahiers mi giunge come una consolazione (estera) per la quasi totale solitudine (italiana), e mi dice che temi di ricerca che hanno tradizione secolare, in Italia spentisi per gioiosa stupidità, altrove sono ancora ben vivi e degni di rispetto» (cap. “Il catalogo dei cataloghi delle fiabe italiane”).
Così anche per Pietro Clemente emergono, attraverso questi suoi saggi (che tra l’altro ci vengono proposti in ordine cronologico), le coordinate storico-culturali all’interno delle quali si muove la sua azione di antropologo, dagli anni di studente a Cagliari con Cirese, fino alla docenza tra Siena, Firenze e Roma. Si legge l’esigenza di interlocuzioni internazionali, da una parte, e di radicamento nelle comunità locali, dall’altra. Si legge in filigrana l’epoca dei movimenti studenteschi e dell’attenzione a caratteri della cultura contadina in opposizione ai nuovi modelli del consumismo. E si attraversa, infine, quell’epoca volta alla decostruzione di modelli forti, postmoderno e pensiero debole secondo cui: «le grandi narrazioni sarebbero cominciate quando quelle piccole – le fiabe – erano già finite. Se fosse così saremmo davvero senza speranza essendo oggi finite sia le grandi narrazioni, come il marxismo, il liberalismo, il pensiero sociale cristiano, sia le piccole narrazioni come la ‘fiaba’» (cap. “Contami unu Contu. Ascoltare per tramandare”).
Infine, tra i riferimenti c’è un nome che non ricorre spesso in questo volume e che tuttavia lega insieme Cirese e Clemente, sia nel loro rapporto di maestro-allievo, sia nell’autonomo sviluppo dei loro percorsi, ed è quello di Antonio Gramsci: le sue idee sul folklore e sul “senso comune”, il suo paradigma sui dislivelli di cultura e il rapporto tra classe egemone, classi subalterne e intellettuali, sono tutti concetti che ritroviamo, in un modo o nell’altro, negli scritti dei due studiosi. Nell’introduzione Maria Federico ricorda che il manuale di Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, edito in versione definitiva nel 1973, nel 2006 è giunto alla ventesima ristampa ed è tutt’ora in catalogo.
Per i due antropologi la fiabistica non costituisce oggetto di studio preponderante, si occupano di tanti altri temi, sia Cirese che Clemente, tracciando percorsi originali per le scienze antropologiche tra la metà del Novecento fino ai nostri giorni, con contributi fondamentali per le nuove generazioni di ricercatori, sia nella metodologia che nell’indagine sul campo, la raccolta, la restituzione. Ma come un fiume carsico, la fiaba e la narrazione riemergono periodicamente al centro delle loro indagini e forse anche da questa derivano concetti e metodologie che si riverberano su altri oggetti d’indagine contigui. Mi riferisco, ad esempio, al concetto formulato da Cirese, proprio lavorando sulle fonti orali, riguardo i “beni volatili”, definizione alla quale poi si preferirà, sia a livello accademico che istituzionale, quella di “beni immateriali”, che confluisce oggi nella definizione internazionale dell’Unesco “intangible heritage”. Beni volatili sono quei documenti del folklore che per loro natura si mantengono in vita solo attraverso la loro ripetizione, la performance.
Per ritrovare uno strumento d’indagine sulla fiaba così ricco e corposo in ambito italiano bisogna andare indietro al 1980, anno di pubblicazione degli Atti del Convegno Internazionale di studi di Parma “Tutto è Fiaba”, a cura dello stesso Cirese e Giorgio Cusatelli, un vero spartiacque e riferimento d’obbligo anche in questo volume, che non a caso colloca in apertura lo scritto di Cirese per quel convegno “Qualcosa è fiaba: ma cosa? Spezzoni di un discorso”.
Non troveremo tuttavia una successione cronologica negli interventi di Cirese pubblicati in questo volume: si segue un ordine che egli stesso aveva già indicato in vista di una futura pubblicazione, dove si riuniscono in tre capitoli gli scritti di varia natura ed occasione dedicati alla fiabistica. Un ritorno a più riprese sul tema, sollecitato a volte dalla pubblicazione di opere fondamentali (le traduzioni italiane di V. Propp e di S. Thompson), altre volte coinvolto in convegni pluridisciplinari o per introdurre e analizzare il risultato delle sue indagini e repertori.
Le fiabe non sono vere
La prima sezione, “A. Fiabe, ossia racconti di fonte non scritta su mondi non veri”, riecheggia il titolo della campagna d’indagine svolta per la Discoteca di Stato tra il 1968 e il 1972 su “Tradizioni orali non cantate”. Come se la fiaba, entità tanto familiare quanto complessa, sfuggisse ad una definizione “positiva” e non la si potesse circoscrivere se non attraverso ciò che non è. Il saggio che apre il volume “Fiabe, oralità, forme” espone in modo chiaro tutta la complessità del tema ed è indicativo del metodo a cui Cirese sempre si richiama: la disciplina demo-etno-antropologica (termine da lui coniato ai tempi dell’insegnamento nell’Università di Cagliari) si fonda su princìpi e metodi rigorosi, e su questo egli basa sia il suo percorso che il suo giudizio su altri studiosi. Ecco perché ritorna a più riprese il problema della definizione dell’oggetto d’indagine, che rimane tema-chiave e in divenire, a considerare anche i più recenti saggi di Clemente che qui si confrontano, quasi in modo speculare, con quelli di Cirese: dal “Tutto è fiaba” del convegno di Parma, si passa alla definizione di Cirese “Racconti di fonte non scritta su mondi non veri” per arrivare alla sentenza di Clemente “Le fiabe non esistono”.
Cirese è del tutto consapevole della complessità di codici e riconosce la difficoltà oggettiva a delimitare il campo quando si tratta di “fiabe”: «Questa multiplanarità della narrazione orale, in situazione di compresenza e in interazione con i destinatari-riceventi arricchisce enormemente il discorso rispetto alla espressività concepita o colta nella unidimensionalità dello scritto (o anche del puramente trascritto): anzi forse, ma non saprei dire come, ne cambia i termini» e ancora «Ogni operazione di narrazione vocale in situazione è un unicum irripetibile … Che faremo di fronte alla sterminata serie delle unicità irripetibili?» (cap. “Qualcosa è fiaba: ma cosa?”). Egli, perciò, non intraprende la strada della pluralità di piani, pur riconoscendola, e si affida a due strumenti conoscitivi che si basano essenzialmente sulla fiaba come testo: il metodo dell’analisi comparativa e quello dell’analisi formale strutturale, a cui sono dedicate rispettivamente le sezioni “B. Tipi e motivi: la fiabistica comparata” e “C. Morfologia, strutture, analisi strutturali».
L’excursus temporale abbracciato nel volume consente di mettere in luce un approccio non rigido nelle certezze acquisite, ma in continuo divenire, e si dà conto di cambiamenti nel parere espresso dall’antropologo riguardo alcuni studi fondamentali, come ben spiega nella sua introduzione Maria Federico (alla quale va il merito della cura del volume insieme a Pietro Clemente): per esempio riguardo l’opera di Anti Aarne e Stith Thompson, dei quali Cirese in un primo momento non condivide l’impostazione comparativa e il metodo storico-geografico. In un secondo momento rivaluta questo giudizio, utilizzando i due repertori dei Tipi e dei Motivi per la classificazione del catalogo di “Tradizioni orali non cantate” della Discoteca di Stato. È questo il contenuto della seconda sezione di testi intitolata “B. Tipi e Motivi: la fiabistica comparata”
Nella capacità di modificare i propri assunti, non v’è debolezza teorica, al contrario è un altro aspetto non secondario della personalità di Cirese, il quale mantiene intatto, nella sua lunga carriera, l’interesse alla scoperta continua, alla rilettura, all’apporto anche in termini euristici dei nuovi mezzi tecnologici come il computer e i database. Una mente disposta sempre a riaprire le proprie considerazioni, ma non a compromessi riguardo il rigore, «che al vero non si giunge se non sulla base del certo. Pensiero forte a fronte delle debolezze di pensiero cui la fiaba potrebbe eventualmente invogliare, se assunta come facile oggetto di saccheggio» (Cap. “Parlare a Napoli di fiabe”). In questa sezione, si riuniscono, appunto, molti dei testi che hanno accompagnato le campagne di ricerca (v. cap. “Indicazioni generali per la registrazione di fiabe…” e cap. “Norme per le operazioni di registrazione e sistemazione dei dati ..”), tutti documenti che testimoniano la grande meticolosità nella pianificazione dell’indagine, prima, e poi nell’analisi, sistemazione e catalogazione dei dati.
Cirese sarà anche l’antropologo che introduce nell’ambito accademico italiano, secondo lui in ritardo rispetto alla scena internazionale, le analisi funzionali di Propp e lo strutturalismo di Lévi-Strauss. Per Cirese il metodo formale inaugurato da Propp, una vera rivoluzione copernicana per le scienze umane, è congeniale alla sua propensione per i processi di astrazione e la creazione di metalinguaggi. Si pensi al suo Ragioni metriche. Versificazione e tradizioni orali (Sellerio, 1988), raccolta di analisi altamente formalizzate, in quel caso applicate alla poesia popolare.
Nel dibattito che si aprirà tra la morfologia di Propp e lo strutturalismo di Lévi-Strauss, Cirese si muove con la consueta capacità critica, sondando i diversi modelli e scrivendo saggi memorabili che contribuiranno ad introdurre i nuovi strumenti di analisi nelle discipline demo-antropologiche e, più in generale, nel panorama accademico italiano. Il modello strutturalista, come si sa, diventerà egemone nella seconda parte del Novecento per le scienze umane, lo studio delle strutture di parentela come quello delle fiabe non ne può prescindere. Cirese applica il metodo già ai tempi della sua docenza all’Università di Cagliari, i suoi studenti imparano a decostruire in modelli astratti le strutture narrative sia orali che scritte, e in questo volume si riproducono le analisi stesse di Cirese (cap. “Di alcune semilogiche operazioni semiologiche: le funzioni di Propp e i gruppi di trasformazione di Lévi-Strauss” e cap. “Dal Decameron: la novella di Lisabetta e i piani del racconto”).
Non solo, ma ritroviamo traccia del dibattito intorno all’altra opera di Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, il cui tema ci rinvia alla terza parte dedicata agli scritti di Cirese, “D. Da Re Bove a Italo Calvino”. Una sezione che si muove tra leggende e fiabe locali, la fiaba di Pinocchio, e infine la grande opera delle Fiabe italiane di Calvino pubblicata nel 1956. Rileggere queste pagine è ancora una volta la prova della chiarezza di Cirese come storico degli studi: si ripercorre la genesi di quell’opera, la temperie culturale che ne aveva favorito la nascita, per soffermarsi infine sulle qualità di studioso di Calvino, del quale l’antropologo apprezza la metodologia e poi la capacità di integrare la spiegazione del metodo all’interno di una riuscita operazione letteraria. Concorda inoltre con Calvino che i due grandi strumenti di analisi sviluppati dalla scuola comparativa di Aarne e Thompson, da una parte, e dalla scuola formalista e poi strutturalista, non si escludono a vicenda, ma possono contribuire alla comprensione di un oggetto “multiplanare” come quello della fiaba e della narrazione orale.
Il Maestro continua fino agli ultimi anni con la vitalità di sempre i suoi studi, lo occupano molto le indagini sul calendario Maya, ad esempio, e le nuove possibilità offerte dallo sviluppo dei mezzi informatici. Non abbandona le fiabe: è del 2004 il progetto per un grande catalogo nazionale (Repertorio informatico delle fiabe italiane) che rimane incompiuto. Sia il metodo comparativo che quello strutturalista lo portano ad indagare, più che le differenze, le invarianze: «dar conto del variato variare delle culture che nello spazio e nel tempo s’è sviluppato sulle invarianze, e individuare per altro verso ciò che d’invariato, nel tempo e nello spazio, soggiace al variare», questo è il compito dell’antropologo. È un passaggio che ci porta al suo ultimo libro, Altri sé. Antropologia delle invarianze (Sellerio, 2010), vero e proprio testamento, in cui Cirese giunge alla conclusione che la mente umana sia una e identica ad ogni latitudine. «L’Altro” non è un “altro da me”, ma un “altro me”. L’unità della mente e dell’esperienza umane sono considerate non solo in quanto fondate su dati biologici, ma soprattutto in quanto comprovabili con dati culturali».
Le Fiabe non esistono
Nella sezione dedicata agli scritti di Pietro Clemente si segue invece un ordine cronologico e si può quindi leggere in modo lineare l’evoluzione dell’approccio al tema, sia dal punto di vista dell’antropologo che da quello sentimentale, potremmo dire, e la parola in questo caso non è fuori registro. I due piani sono sempre presenti nella sua riflessione, un processo continuo di auto-analisi e autocritica, a volte davvero troppo severa, riguardo ad esempio il problema della restituzione alla comunità di quanto prodotto dalle indagini sul campo.
Clemente ripercorre il centro dei suoi interessi: «Il mio modello era orientato ad integrare gli ‘oggetti demologici’ nella interpretazione della società locale, e così ho lavorato soprattutto sulla cultura del mondo contadino mezzadrile, sulla memoria e sui residui di essa, su quella cultura contadina che a partire dagli anni ‘60 del Novecento, era ‘franata e dislocata’» (cap. L’arte del raccontare).
C’è il dialogo continuo con il Maestro, ma in un rapporto dialettico, anche di frattura:
«da qui in poi non lo seguo più (…) la direzione che seguo, in sintonia con il nuovo movimento di raccolta delle fonti orali e di studio dei narratori, è quella da un lato della ‘decostruzione’ del mito delle fiabe dei Grimm e della fiaba classica vista come residuo arcaico, dall’altro della valorizzazione del racconto orale nella sua ampia varietà, dalle barzellette alle storie di vita».
C’è da dire che Cirese seguiva con interesse, e anzi erano per lui motivo di vanto, i percorsi intrapresi dai suoi allievi, anche in discontinuità con il suo pensiero. La decostruzione, e forse anche il desiderio di alleggerire il peso, è evidente in quel titolo perentorio con cui si apre la sezione dedicata agli scritti di Clemente: “Le fiabe non esistono”, che per il mondo della fiabistica equivale al “Dio è morto” per il mondo della filosofia. Nella necessità di porre una discontinuità, Clemente prima di tutto costruisce un argine rispetto a tutti quegli studi che affrontano il tema senza i necessari presupposti scientifici: oltre un certo limite non possiamo sapere, non abbiamo elementi di riscontro: «Mi domando che senso abbia per uno studioso dire che le fiabe fanno parte di un mondo figurale archetipico, o che le fiabe sono tracce di antichi riti preistorici. Sono entrambe cose dicibili ma non dimostrabili» (cap. “L’arte del raccontare”). Altro aspetto che Clemente non include nei suoi interessi fin da subito è l’approccio logico-matematico di certo strutturalismo, che tende a scomporre i testi e gli enunciati in formule algebriche.
Ciò che per Pietro Clemente (e per la sua generazione) costituisce oggetto d’indagine è il raccontare, l’atto della performance in situazione, addirittura sperimentando direttamente, nel suo ruolo di padre e poi di nonno, la lettura e poi la narrazione orale. Gli aspetti che Clemente predilige, e non solo per quanto riguarda la fiabistica, sono quelli che lo portano a contestualizzare, in un territorio fatto di concretezza, oggetti materiali, situazioni, voci. Da qui, l’esigenza di un approccio sempre multidisciplinare che lo conduce ad intersezioni con altri studiosi non accademici, con le esperienze della scuola, del teatro sociale e delle arti performative.
Così, dalla prima sezione con i saggi di Cirese alla seconda con gli scritti di Clemente, la temperatura emotiva cambia, cambiano gli scenari, cambia l’inquadratura: si passa da una panoramica nazionale e dalle formule astratte dei cataloghi e delle analisi formali ad un ritorno alle raccolte regionali, anzi locali (la provincia di Lucca, anzi la Garfagnana; il Grossetano; la Maremma…); emerge in primo piano la figura dell’informatore, in questo caso narratori e soprattutto narratrici. «Nella ricerca demo-etno-antropologica degli ultimi decenni si fa sempre più evidente il peso, il corpo, il timbro, il calore delle voci» (cap. “Il tempo delle voci”). Non si tratta più di isolare dei testi, ma di lasciare il microfono aperto a catturare la relazione dialogica che si intesse tra chi narra e chi ascolta, in una ricerca dove è difficile dire che cosa sia fiaba e leggenda, termini che non appartengono ai narratori popolari. Si tratta ora di allargare il campo, raccogliere testimonianze, storie di vita, storie collettive (la Resistenza, la guerra …) e storie individuali, quelle che sembrano non avere nessuna importanza.
C’è una partecipazione empatica negli scritti di Clemente che va via via amplificandosi negli anni. Il necessario distacco dello scienziato, monito costante di Cirese ai suoi allievi, l’autocontrollo rispetto a ricerche sul campo, che comportavano necessariamente momenti di condivisione con la comunità osservata, si stemperano di fronte alla narrazione di storie di vita, che hanno il peso di un lascito: «Tengo con una certa venerazione la videocassetta in cui Dina Mugnaini, ex contadina mezzadra di San Gimignano, racconta la storia della morte del suo primo figlio, e il sogno ricorrente che fa e che ci dice ancora quarant’anni dopo quell’evento, riaprendo la cicatrice che c’è nella sua anima. Racconto che uscendo dall’angoscia solitaria del dolore e comunicandosi a noi, a me, si è fatto possibile storia pubblica» (cap. “Ascoltare la vita”).
È mutato il ruolo dell’antropologo, con la fine delle Grandi Narrazioni e la dispersione delle piccole narrazioni, la loro “decostruzione” come “tradizione inventata” a cui Clemente si applica con metodo, sia per la fiaba (cap. “Documento del racconto e racconto del documento”) che per la leggenda (cap. “Leggendarie Leggende”). Alla fine, più che i testi restano le relazioni che quei testi erano capaci di stabilire e mantenere, i legami tra le persone di una comunità e le loro modalità di comunicare, interagire, trasmettere alle altre generazioni. È su questo vuoto che si concentrano via via con il passare degli anni, l’interesse e l’azione di Pietro Clemente, in un personalissimo intreccio tra studi accademici, esperienze nel territorio e vita familiare. Sono del tutto pertinenti, a questo proposito, le esperienze di Clemente narratore in famiglia, prima con le figlie e poi con i nipoti. Emergono nel suo percorso non solo i ritratti dei narratori, ma anche quelli dei ricercatori, in particolare in questa raccolta di saggi spiccano tre personalità, che si intersecano tra loro: Aurora Milillo, Roberto Ferretti, Gastone Venturelli, ai quali Clemente dedica pagine di forte intensità affettiva, oltre a metterne in luce le qualità di studiosi e l’importante apporto alla costituzione del patrimonio culturale dei loro territori.
È interessante comparare i progetti che i due studiosi considerano conclusivi, o almeno intendono chiudere un ciclo dei lunghi anni di analisi sulla “fiabistica”. Il progetto di Cirese era ancora una grande catalogo nazionale delle narrazioni, Repertorio informatico delle fiabe italiane – RIdFI, che potesse comprendere tutte le raccolte regionali e andasse a perfezionarsi grazie ai nuovi apporti tecnologici, quali database sempre più sofisticati.
Pietro Clemente, dopo tutte le esperienze sul campo e le riflessioni teoriche di cui questo volume dà conto, disegna una idea ancora di intersezione tra antropologia e comunità locali, illuminata non da certezze teoriche, ma da una poesia che ritorna come un refrain in vari momenti della sua riflessione: Parca Villaggio di Mario Luzi : «L’ho citata varie volte. Forse l’ho prediletta perché per me è diventata – con il suo linguaggio mitico ed evocativo ma insieme quotidiano – emblematica del trasmettersi della vita e della esperienza attraverso le generazioni” (cap. “L’arte del raccontare”)
…
Io vecchia donna in questa vecchia casa
cucio il passato con il presente, intesso
la tua infanzia con quella di tuo figlio
che traversa la piazza con le rondini.
…
Allora, dice Clemente, è giunto il momento di «intessere infanzie» tra le generazioni. E il suo progetto “La storia a memoria” va in questa direzione: si tratta di creare nei Comuni uno sportello di ascolto delle storie di vita che le persone avranno voglia di raccontare. Alla base, spiega Clemente, c’è il riconoscimento del diritto alla testimonianza come diritto della persona: «Il diritto alla testimonianza ha un valore sociale perché costituisce la ‘memoria del territorio’ e diventando ‘patrimonio’ fa sì che sia l’ente pubblico a curare la valorizzazione e la trasmissione». È un modo di ricostruire ciò che è stato sradicato e di colmare il vuoto nella trasmissione di conoscenza ed esperienza tra le generazioni, che l’antropologo rileva come il problema sostanziale del nostro tempo. È significativo che in questa prospettiva Clemente riconosca il ruolo centrale di due istituzioni pubbliche, da un lato quella dei Comuni, degli enti locali, dall’altra quella della Scuola: «L’istituzione-scuola, nel suo connettere generazioni, costruisce le reti, riallaccia i fili attraverso pratiche formative di individui, fa memoria, diventa il luogo degli antenati trascurati nelle relazioni della vita privata. Così non è affatto strano che le istituzioni della prima infanzia si facciano esse luogo di supplenza istituzionale dei fili intergenerazionali perduti nei contesti privati». Così, nel discorso di Clemente non c’è solo la necessità di rigenerare la comunicazione tra le generazioni, ma anche quella di ricreare i legami di un territorio, tutte cose che stanno dentro la narrazione orale.
Tra i pregi non secondari del volume, vi è la bibliografia che lo accompagna, strumento di scoperta e ulteriore approfondimento: oltre a riunire i testi fondamentali sull’argomento, ci sono altri studi forse non molto frequentati e meritevoli di essere riconsiderati (per es. gli scritti di Aurora Milillo); ci sono inoltre riferimenti a raccolte e studi locali, finora poco noti e che la lettura di questo volume illumina con grande efficacia: come resistere al desiderio di conoscere le storie di nonna Gemma raccolte da Gastone Venturelli in Lucchesia, o che cosa si cela dietro il titolo Mazzasprunigliola nei racconti del Chianti senese? E non vogliamo ora programmare una visita alla ex Discoteca di Stato a Roma (ora compresa nell’Istituto Centrale dei Beni Sonori e Audiovisivi), dove passare intere giornate ad ascoltare la collezione di “Tradizioni orali non cantate” della nostra regione? Anche questa parte bibliografica suggerisce, come auspica Clemente, le modalità per continuare a dare voce ai narratori che hanno donato le loro storie, non solo quelle collettive, ma anche quelle personali, anche quelle di dolore profondo. Ascoltare quelle voci e tramandarle sarà un modo, dopo aver letto questo libro carico di tenerezza, di ridare voce a chi non l’ha mai avuta, a chi non la può più avere.
Nel suo incedere lento, riflessivo, autocritico, Pietro Clemente non è meno rigoroso e nitido del suo maestro. Un passo dopo l’altro nel progredire degli anni, ci fa capire che non bastano i paradigmi teorici, non bastano i mezzi, la trascrizione, i nastri magnetici, i CD, non basta neanche lo spettacolo, la performance, a restituire la voce. «Se il racconto si allontana dalle serate della veglia contadina, dalla trasmissione dei nonni verso i nipoti, dai monumenti e dai giuramenti, e si fa palcoscenico forse si perderà il dialogo che ha con la vita e con la morte» (cap. “Ascoltare la vita”).
Un libro che ricorda Cirese a 100 anni dalla nascita e a 10 dalla scomparsa fa parte a suo modo dei racconti che hanno a che fare con la vita e con la morte. Oggi, nell’aprile 2021 segnato dalla pandemia, si potrebbe ben dire che non c’è più tempo, se non raccogliere l’invito contenuto nel titolo e andare ad ascoltare le storie di chi ci sta accanto, che questo tempo (e la lettura di questo libro) ha reso ancora più preziose.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
___________________________________________________________________________
Enedina Sanna, è nata e risiede in Sardegna. Dopo la laurea in Linguistica teorica all’Università di Perugia, ha insegnato Lingua e Letteratura Francese nei licei. Nel 1990 ha fondato ad Alghero l’Associazione Archivi del Sud, con cui ha portato avanti ricerche sugli archivi sonori (digitalizzazione e catalogazione) e organizzato festival e seminari sull’arte della narrazione orale. Nel 2002 ha tradotto per Sellerio il saggio Poetica della Fiaba della studiosa francese Nicole Belmont. Ha realizzato diverse trasmissioni radiofoniche per Rai Radio Sardegna, alcune in sardo, sempre sui temi della narrazione orale. Ora è narratrice, e oltre al repertorio di racconti della tradizione orale della sua Isola, ha creato spettacoli originali, intrecciando insieme storie di provenienza diversa e utilizzando varie tecniche di “storytelling”.
_______________________________________________________________
a,