La pandemia da Covid-19 ha colpito in modo disuguale: con il contagio, con i drammatici effetti sulla salute, con le conseguenze sociali e con quelle economiche. Le principali disuguaglianze si stanno determinando nelle vite delle persone più fragili e più vulnerabili. Per tutte le società occidentali la pandemia ha rappresentato un momento di crisi inattesa, caratterizzata da un improvviso vuoto di sicurezza e inaspettato rischio per la salute e per la vita, che ha evidenziato incertezze scientifiche e culturali ma soprattutto ha messo in luce le insicurezze dello stato sociale e le inadeguatezze delle opportunità di equità. Un’insicurezza generalizzata che è stata tanto più significativa per chi vive in condizioni di molteplici vulnerabilità come i migranti, i senza fissa dimora, persone in contesti di assoluta povertà. I migranti in Italia erano già esposti prima della pandemia a significative situazioni di disuguaglianza e forti limitazioni nell’accesso al diritto alla salute. Questa nuova crisi, economica e sociale, sfida le capacità della nostra società di essere equa ed inclusiva e di promuovere i processi di integrazione e di accesso ai diritti, per tutti.
Le pandemie sono un fenomeno ricorrente nella storia dell’uomo, anche contemporaneo, purtroppo anche a seguito dell’ampia diffusione su scala globale della biomedicina che tante ne ha evitate grazie all’uso delle vaccinazioni di massa e alle moderne strategie di sanità pubblica. Tuttavia, la pandemia in corso presenta delle caratteristiche peculiari del nostro tempo. È la prima nel ventunesimo secolo a colpire in modo così massiccio il ricco e sviluppato Occidente, che quasi distaccato dal resto del mondo sembrava vivere in una bolla di presunta e ostentata sicurezza. È stata una pandemia amplificata ed accelerata da dinamiche di contatto, locale, nazionale e transnazionale, caratteristiche della società globalizzata. La diffusione del virus è avvenuta in modo quasi simultaneo su tutto il globo, in ragione della rapidità e dell’intensità dei movimenti proprî del nostro tempo su tutti i livelli di scala territoriale.
La pandemia in corso oltre che costituire un fenomeno di emergenza sanitaria ha comportato indubbi cambiamenti di ordine sociale ed economico. In un’ottica di salute globale è importante considerare l’insieme di queste trasformazioni, cercando di comprendere l’impatto che hanno avuto e che stanno continuando ad avere sulla vita delle persone. La salute, intesa come stato bio-psico-sociale della persona, è influenzata dal ruolo dei determinanti sociali. È una salute multidimensionale in cui una circolarità di fattori influenzano e determinano il benessere delle persone. Nelle società occidentali i processi di integrazione sociale e sanitaria della popolazione immigrata si sono innestati ed evoluti in una cornice di marcate disuguaglianze socio-economiche. A queste si sommano ulteriori condizioni di svantaggio imputabili ad un’integrazione ancora parziale e frammentata, così da porre importanti sfide in termini di equità.
La crisi sociale ed economica che sta accompagnando la pandemia, come ogni evento in grado di determinare delle fratture storiche nel vivere sociale, non solo ha aumentato le pregresse disuguaglianze ma ha anche amplificato la vulnerabilità di gruppi già soggetti a condizioni di precarietà.
La trasformazione dei flussi migratori
In un quadro di generale ipertrofia della mobilità umana, le restrizioni messe in atto dagli Stati per rallentare la circolazione del virus hanno avuto un significativo impatto in termini di mobilità internazionale. La chiusura delle frontiere in entrata e in uscita, congiuntamente agli effetti economici e sociali dell’emergenza sanitaria, ha avuto conseguenze rilevanti sui movimenti migratori e sulle condizioni di vita dei migranti, anche in Italia.
Il più immediato impatto su scala globale è stato il blocco della mobilità internazionale, quando nella primavera del 2020 il virus aveva raggiunto altissimi livelli di diffusione in tutti i Paesi europei determinando una chiusura completa delle frontiere nazionali addirittura all’interno dello spazio Schengen. Molti migranti sono rimasti bloccati nei Paesi ospitanti ed altri in quelli di transito, con conseguenze a volte drammatiche, si pensi a chi è rimasto nei campi libici in attesa di poter attraversare il Mediterraneo. Su scala globale nel primo semestre del 2020 l’immigrazione non stagionale è scesa del 42%, nel trimestre aprile-giugno addirittura del 72%.
Nel contesto specifico del nostro Paese secondo le stime UNHCR nello scorso anno si sono ridotte quasi del 50% le richieste di asilo che si stima siano state di circa 26 mila. Si sono dimezzati anche i nuovi permessi concessi a cittadini non comunitari nel primo semestre dello stesso anno con una stima intorno alle 43 mila unità.
La chiusura completa delle frontiere, ha comportato anche, non senza determinare delle perplessità in termini di rispetto del diritto internazionale, la chiusura di quella che siamo abituati simbolicamente a pensare come la frontiera di ingresso delle migrazioni, i porti che affacciano sul Mediterraneo. I “porti sicuri” momentaneamente sospesi, circondati da “navi quarantena”, sono tornati con i primi caldi del 2020 ad essere la meta desiderata di imbarcazioni di fortuna con a bordo uomini, donne e bambini, che avevano atteso quel viaggio per mesi.
Nei perduranti ritardi della nostra società in termini di accoglienza e ancor più di integrazione, la popolazione immigrata continua a costituire un gruppo sociale esposto ad un maggiore rischio di vulnerabilità sociale e discriminazione. Così, come frequentemente accade nei momenti di crisi collettiva, gli immigrati sono stati presto individuati come “capro espiatorio”.
Nel 2020 la popolazione immigrata [1] in Europa costituiva il 12% della popolazione e di questa l’8% era costituita da persone originarie di un Paese esterno all’Unione Europea (questa percentuale esclude anche i nati nel Regno Unito). Inoltre, secondo i dati UNHCR vivono tra Europa e Regno Unito circa tre milioni di persone tra rifugiati e richiedenti asilo e si stima siano presenti circa 4 milioni di migranti “irregolari” (ECDC, 2021).
I flussi migratori verso i Paesi OCSE hanno complessivamente subìto un drammatico calo e l’impatto delle migrazioni sui Paesi di origine è diminuito a causa della riduzione delle rimesse. Numerosi migranti sono rimasti bloccati, più o meno volontariamente, nei Paesi ospitanti, spesso in congiunture economiche precarie aggravate dalle misure emergenziali, senza lavoro o con redditi decurtati. La precarietà si è acuita per lavoratori che erano già esposti a condizioni di maggiori vulnerabilità lavorativa rispetto ai nativi (OCSE, 2020).
Con la crisi innescatasi nel mercato del lavoro, sono aumentati gli spostamenti di ritorno verso i Paesi di origine. In molti hanno perso il lavoro e affrontato rischi di contagio superiori a causa di condizioni di vita più disagiate, così tra questi c’è stato chi ha preferito interrompere o sospendere la propria esperienza migratoria e “fare ritorno a casa”. In India – Paese di origine di un gran numero di migranti – dal 3 settembre 2020 sono rimpatriati oltre 1,3 milioni di lavoratori migranti in seguito alle chiusure determinate dalla pandemia da Covid-19 (CSER, 2021).
L’interruzione dei flussi in ingresso legali e le varie restrizioni ai movimenti transfrontalieri, hanno lasciato, come principale opportunità di movimento, i canali dell’attraversamento irregolare delle frontiere. Questa situazione sta probabilmente incrementando i “flussi misti” in cui migranti economici e migranti forzati tendono a confluire in unici flussi irregolari. In Italia al termine del 2020 erano arrivati via mare 34.154 migranti, per lo più concentrati nei mesi da luglio a novembre e con una riduzione drastica nei mesi di marzo e aprile. Nel 2021 sono arrivate via mare, al 31 di maggio, 14.692 persone (Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione, 2021).
L’impatto sociale e l’impatto economico
La pandemia da COVID-19 è arrivata in un momento cruciale e positivo della storia delle migrazioni internazionali contemporanee. Nell’ambito dei Paesi OCSE erano per certi aspetti progressivamente migliorati l’integrazione lavorativa e l’atteggiamento nei confronti dei migranti nella maggior parte dei Paesi così come l’integrazione scolastica e il successo educativo dei nati da genitori stranieri. L’insieme di questi progressi è stato messo a rischio dalla pandemia. Per questo è importante che la crisi sociale determinata dalla pandemia sia affrontata dalle istituzioni politiche e dalla società civile come un’opportunità trasformativa, in cui i gruppi più vulnerabili, come la popolazione immigrata, non siano lasciati indietro, al prezzo di una grave battuta di arresto dei processi di integrazione.
In Europa, in media, un lavoratore su quattro è nato all’estero. La pandemia, in questo senso ha messo in luce il contributo chiave dei migranti al funzionamento della macchina sociale [2]. Nonostante questa centralità nei gangli della collettività e dell’economia, i migranti fronteggiano attualmente una serie di vulnerabilità supplementari all’interno del mercato del lavoro che ne amplificano la fragilità economica rispetto ai nativi: sono tendenzialmente sovra-rappresentati tra gli assunti con contratti precari e in settori soggetti a ciclicità occupazionale; le condizioni giuridico-amministrative legate ai permessi possono scoraggiare i datori nell’assunzione di migranti. A queste criticità imputabili a meccanismi di mercato, si sommano quelle dovute al gap di integrazione, al razzismo e alla discriminazione, alla fragilità delle relazioni sociali e dei legami di solidarietà con le comunità ospitanti.
Nella media dei Paesi OCSE i migranti che vivono in condizioni di povertà relativa sono il 30% contro il 20% dei nativi, hanno inoltre maggiori possibilità di vivere in abitazioni al di sotto degli standard (il 23% contro il 19% dei nativi) e in contesti di sovraffollamento (17% contro l’8%). La povertà abitativa è un fattore da tenere in particolare considerazione in riferimento all’impatto della pandemia in quanto aumenta in tutta evidenza il rischio di infezione [3]. Inoltre, hanno avuto un minor accesso al telelavoro e sono stati spesso impiegati con condizioni di lavoro non sicure rispetto alle misure di contenimento del contagio.
Secondo i dati EUROSTAT, nel 2020 è aumentata la disoccupazione in tutti i Paesi europei, ma è aumentata maggiormente tra le persone nate all’estero. La perdita di lavoro per gli stranieri ha riguardato anche l’Italia. Un recente studio della Fondazione Moressa (2021) propone un identikit del lavoratore più penalizzato da Covid: «donna, d’origine straniera, precaria e impiegata tra commercio, alberghi e ristoranti». Sul totale dei posti di lavoro persi in Italia tra il 2019 ed il 2020 oltre il 35% è infatti da attribuirsi a lavoratori stranieri e il 24% circa a lavoratrici straniere, che sul totale dei posti di lavoro femminili persi nello scorso anno rappresentano ben il 44%. In tutti i settori gli stranieri hanno pagato la crisi più degli italiani, fa eccezione l’agricoltura (aumentati del 1,4%) che è in questo momento il settore con la maggiore incidenza straniera (18,4%) seguita dall’edilizia (17,1%). Anche per tipologia di contratto gli stranieri sono stati colpiti più degli italiani: tra i dipendenti a tempo determinato, si è registrato un calo del 12,4% tra gli italiani e del 14,6% tra gli stranieri; tra i dipendenti a tempo indeterminato, gli italiani sono aumentati (dell’1,1%), mentre i migranti sono diminuiti (del 3,4%); tra gli autonomi: 2,5% in meno per gli italiani, 9,2% in meno per gli stranieri.
La sproporzione di impatto rispetto alle popolazioni native, ha riguardato trasversalmente tutte le generazioni, compresi i minori. La chiusura delle strutture scolastiche e l’uso della didattica a distanza hanno costituito infatti fattori di svantaggio per i figli dei migranti, rispetto ai loro coetanei figli di cittadini degli Stati di riferimento. La insufficiente disponibilità di risorse economiche per l’accesso a dispositivi e postazioni idonee, le minori competenze specifiche utili al supporto nel lavoro scolastico, hanno determinato uno svantaggio nei periodi di chiusura delle strutture scolastiche, tanto più che circa il 40% dei bambini nati da genitori stranieri non parla la lingua del Paese in cui vive nel contesto domestico.
La pandemia ha ostacolato l’apprendimento della lingua del Paese ospitante e questo è valso anche per gli adulti. Le restrizioni hanno infatti interrotto i percorsi di apprendimento della lingua straniera, anche quando sono stati riavviati ne hanno fortemente rimodulato l’efficacia e la capacità di inclusione in termini quantitativi. Alcuni Paesi hanno introdotto nuove modalità, soprattutto digitali, ma anche l’apprendimento on-line ha dimostrato criticità, non solo rispetto al ruolo della relazione e della socializzazione ma anche in riferimento all’efficacia della didattica, soprattutto per le persone con un livello di istruzione più basso o per chi era appena all’inizio del percorso di apprendimento e di integrazione. L’impatto è stato quindi trasversale e ha riguardato molte sfere del vivere sociale e molteplici aspetti della quotidianità come dell’integrazione sociale, rallentando i processi di inclusione.
In Italia le disuguaglianze di impatto in riferimento al mercato del lavoro, si sono inserite in un quadro generale di disuguaglianze socio-economiche. Volendo sinteticamente descrivere la pregressa disuguaglianza socio-economica per le persone straniere nel nostro Paese, vale la pena segnalare che: i valori di incidenza per le famiglie in condizioni di povertà relativa ed assoluta sono più elevati che per le famiglie italiane, nelle famiglie con almeno un componente straniero e lo sono ancora di più per le famiglie composte da soli stranieri, la situazione si acuisce ulteriormente per le famiglie di stranieri con almeno un minore; per quanto riguarda l’incidenza della povertà assoluta tra gli individui, questa è di quasi cinque volte maggiore tra gli stranieri rispetto agli italiani. Tutti questi valori sono peggiorati nel primo anno di pandemia e le distanze tra italiani e stranieri si sono acuite (ISTAT, 2021). Ad essere aumentata è anche la distanza tra le occupazioni verso cui si indirizzano gli italiani e quelle destinate alla popolazione straniera, così come tra i livelli di accesso al lavoro in sicurezza.
Durante la prima ondata della pandemia è stata lanciata dal governo italiano una campagna di regolarizzazione straordinaria per lavoratori agricoli e domestici. La campagna ha trovato ampio spazio nel dibattito pubblico in ragione della drammaticità delle condizioni di lavoro di molti migranti che durante la fase di chiusura avevano su di sé il carico del lavoro collegato al rifornimento di cibo. Purtroppo, è stata un fallimento in termini di emersione del lavoro irregolare. Le domande pervenute sono state 200 mila a fronte di 621 mila lavoratori stranieri irregolari presenti sul territorio nazionale. La ragione di numeri così contenuti è da ricercarsi nell’impostazione della norma, incentrata sulla volontà del datore di lavoro, aspetto che ha escluso di fatto le fasce più sfruttate e vulnerabili dei lavoratori irregolari.
Si stima che i migranti sfruttati in agricoltura siano circa 450 mila unità. Durante l’emergenza Covid si è registrato un aumento del 15-20% di stranieri impiegati nelle campagne con un forte peggioramento delle condizioni lavorative e delle retribuzioni. Sul fronte del lavoro domestico è stato alto il prezzo pagato in termini di perdita del lavoro, nel settore sarebbero stati circa 13 mila i posti persi di cui circa 850 mila da parte di lavoratori immigrati (IDOS, 2020). Un settore che ha visto e sta continuando a vedere un massiccio impiego di lavoratori stranieri in condizioni di precarietà estrema e di frequente sfruttamento lavorativo è quello dei servizi di trasporto e consegna, dei corrieri e in particolar modo del food-delivery. Anche in questo ambito sarebbero necessarie azioni politiche più mirate in grado di contrastare consolidate dinamiche di sfruttamento oggi applicate a nuovi settori.
Razzismo, discriminazione e conflittualità sociale
Tra gli impatti indiretti della crisi sociale legata alla pandemia da Covid-19 si registra un aumento della conflittualità sociale e un peggioramento del benessere delle comunità, con conseguenti implicazioni per i processi di integrazione. Tra i fattori in grado di amplificare gli impatti negativi delle catastrofi sociali, come una pandemia, devono essere considerati anche la discriminazione ed il razzismo, che influenzano le dinamiche di interazione sociale e influiscono sulla quotidianità delle persone, in particolare di quelle più vulnerabili.
Dinamiche culturali ricorrenti nelle società che affrontano momenti di crisi, vedono le tensioni interne alle comunità focalizzarsi sistematicamente sui gruppi più deboli. Il clima di crisi socio-economica e il ruolo giocato dai flussi di mobilità internazionale soprattutto nell’iniziale diffusione della pandemia, hanno esercitato un impatto negativo sulla percezione degli immigrati da parte dell’opinione pubblica. Si sono registrati un inasprimento delle posizioni ideologiche e un frequente ricorso ad atteggiamenti razzisti e a fenomeni discriminatori. L’OMS ha documentato un aumento degli episodi di violenza razziale subiti da parte delle persone immigrate.
Nel caso dell’Italia la polarizzazione del dibattito sui temi migratori ha determinato l’ennesima strumentalizzazione animata da un demagogico intento di individuare un “capro espiatorio”. Così razzismo e discriminazione hanno ripreso a fare da sfondo alla politica. Si è riscontrata una necessità sociale, talvolta quasi politica, di costruire e promuovere la stigmatizzazione di chi all’interno del corpo sociale è più fragile e frequentemente nella posizione di non poter reagire al male che subisce perché titolare di minori diritti (IDOS, 2020). Un ruolo che nella nostra società risulta perfettamente calzante per lo straniero, interpretato da certa demagogia politica, rappresentato da molti mezzi di comunicazione, perseguito da una significativa fetta di popolazione. Così durante la pandemia i fenomeni di discriminazione sono aumentati ed hanno conosciuto diverse fasi in relazione ai trend comunicativi del momento.
La correttezza della comunicazione su questi temi è fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di integrazione. Il dibattito pubblico si è articolato attraverso focus di attenzione transitoria e spesso politicamente strumentalizzati; una comunicazione frequentemente orientata da pregiudizi e alimentata attraverso stereotipi. In riferimento ai temi dell’immigrazione, il fenomeno dell’anno 2020 è stato la stigmatizzazione dei migranti come veicolo di contagio del Covid-19. Nei primi mesi di irruzione del virus sulla scena mediatica, gli immigrati non erano più il tema “dominante” dell’informazione. La loro presenza sulle prime pagine dei quotidiani era crollata e con i porti chiusi se ne era parlato poco, qualche fake news circa una presunta immunità al virus (in particolare delle popolazioni di origine africana) corroborata dal mito d’oltreoceano della black immunity.
In tempi brevi però, quasi a cascata dopo la riapertura dei porti e l’inizio della stagione calda degli sbarchi, dalla più classica delle tradizioni culturali sullo straniero portatore di malattie, si è iniziato a parlare nuovamente di immigrati come focolaio di virus. I pregiudizi nei confronti dell’immigrato “untore” rientrano in un più ampio quadro di odio e xenofobia acuito non solo in Italia, ma in molti Paesi [4].
Già in passato l’allarme sanitario era entrato nelle narrazioni giornalistiche in associazione al fenomeno migratorio, ma nel 2020 il 13% dei titoli di stampa sui migranti era situato, soprattutto nei mesi estivi, in una cornice di allarme sanitario. Il pregiudizio, che inizialmente aveva colpito la comunità cinese, si è spostato sui migranti in arrivo via mare e poi esteso alle comunità straniere già presenti sul territorio nazionale. Indipendentemente dal loro status giuridico e dal loro livello di integrazione, tutti gli stranieri erano untori, con l’unica eccezione degli uomini bianchi, ricchi ed in movimento per ragioni di affari. Le principali categorie di stigmatizzazione dei migranti nella cornice di allarme sanitario sono state: il dubbio sull’origine del virus; il binomio immigrazione-malattie; le presunte regole differenziate per migranti; il costo economico dell’assistenza sanitaria ai migranti. Queste macro-categorie di stigmatizzazione erano costantemente associate a refrain ad effetto come “bomba sanitaria” in associazione a parole chiave come “contagio”, “infezione”, “rischio”, sempre in corrispondenza all’arrivo e all’accoglienza dei migranti (Carta di Roma, 2020).
Anche la narrazione pubblica e istituzionale, in un campo apparentemente neutro come quello della comunicazione dei dati, ha dato luogo a discriminazione (Lunaria, 2020). In alcuni portali istituzionali durante l’estate 2020 venivano indicate le nazionalità delle persone risultate positive ai test, nonostante le indicazioni fornite in merito da parte delle istituzioni internazionali per evitare qualsivoglia forma di discriminazione nel linguaggio (UNHCR, 2020) [5].
Nel loro insieme, strumentalizzazioni politiche e di stampa hanno prodotto fenomeni di “caccia all’untore” portando di nuovo alla ribalta il fenomeno migratorio attraverso lo spauracchio del contagio importato con gli sbarchi e il ritornello del “virus d’importazione”. Retoriche che non solo hanno fatto presa ma hanno continuato a diffondersi nonostante fossero puntualmente smentite dai dati. Nel caso dei contagi estivi, i bollettini settimanali dell’Istituto Superiore di Sanità dimostravano come la riattivazione della catena di contagi fosse imputabile alle persone di nazionalità italiana di ritorno dalle vacanze estive e come i tassi di diffusione del contagio tra gli stranieri residenti fossero perfettamente in linea con quelli della popolazione generale.
La situazione di crisi sanitaria e l’infodemia che l’ha accompagnata, hanno evidenziato, non solo in relazione ai temi della migrazione ma più in generale nel sistema sociale e scientifico dei media, la necessità di una comunicazione corretta, in primo luogo sulle cause e sugli effetti della pandemia e a seguire sulle dinamiche politiche e sociali da essi innestate. Tanto la circolazione della iniziale notizia di una presunta immunità al virus degli immigrati, tanto la spiacevole e protratta diffusione durante il periodo estivo di fake news e pericolose falsità politiche sugli stranieri “untori” portatori di coronavirus e responsabili della nuova crescita della curva epidemica, sono state puntualmente smentite dai fatti e dalla puntualità dei dati scientifici che li descrivono.
La necessità di una corretta comunicazione non ha riguardato soltanto l’Italia. Diversi contesti nazionali hanno affrontato con le proprie specificità la proliferazione di informazioni molto spesso scientificamente non fondate e che nonostante ciò hanno avuto una diffusione capillare in molti gruppi di popolazione. Pensando alla cattiva informazione che produce razzismo e discriminazione in nazioni e contesti sociali differenti tra loro, per restare in una dimensione culturalmente domestica si può citare l’esperienza dei nostri numerosi connazionali all’estero nelle settimane in cui l’Italia era il focolaio dell’Occidente.
Rispetto al nostro contesto nazionale gli immigrati vengono spesso rappresentati e considerati come un fenomeno socialmente pericoloso e destabilizzante le cui responsabilità sarebbero da attribuite agli immigrati stessi, ignorando, anzi talvolta oscurando, quei fattori strutturali che da oltre due decenni impediscono al Paese di muoversi con efficacia nella direzione di uno sviluppo integrale. Oggi più che mai, se vogliamo accogliere la sfida della pandemia come occasione trasformativa di miglioramento delle nostre società in una direzione sempre più orientata al bene comune e all’equità è necessario promuovere analisi problematiche della realtà sociale, in grado di descriverne le contraddizioni, di mettere in luce l’oggettività dei dati e di promuovere l’accesso ai diritti e il superamento delle disuguaglianze.
L’impatto in termini di salute
Dopo oltre un anno dall’inizio della pandemia i dati testimoniano che l’impatto a livello globale è stato disuguale e che molti casi di malattia e di morte sono dipesi da pregresse disuguaglianze di salute e persistenti disuguaglianze sociali, che potrebbero e dovrebbero essere prevenute. All’aumentare delle disuguaglianze sociali cresce il rischio di ammalarsi.
In ragione di una serie di vulnerabilità come la maggiore incidenza di povertà, le condizioni abitative sovraffollate in unità spesso precarie, l’impiego più frequente in lavori che non favoriscono il distanziamento sociale e un minore accesso a forme e modalità di lavoro in grado di garantire la sicurezza, i migranti sono soggetti ad un maggior rischio di infezione da COVID-19 rispetto ai nativi. I tassi di mortalità correlati a COVID-19 per i migranti e minoranze etniche sono stati maggiori, superando quelli della popolazione autoctona dei Paesi di accoglienza o della cosiddetta “etnia dominante” o maggioritaria. Chi era in condizioni di sofferenza sociale, di svantaggio economico e politico, in condizioni di deprivazione e maggiore vulnerabilità è stato colpito in modo drammatico dal contagio e dalle conseguenze della malattia.
Oltre ad un maggiore impatto di Covid-19, per questi gruppi si sono riscontrate evidenti disuguaglianze di accesso alla salute. Disuguaglianze complesse da valutare nel breve periodo, una valutazione completa del mancato soddisfacimento dei bisogni di salute richiede un arco temporale piuttosto ampio e inoltre l’accesso ai servizi sanitari da parte dei migranti ha delle dinamiche peculiari da cui conseguono difficoltà nella raccolta e sistematizzazione dei dati epidemiologici. Tuttavia, un’indagine OMS [6] registra una percezione di significative barriere di accesso all’assistenza sanitaria durante la pandemia e una maggiore tendenza alla rinuncia alle cure rispetto alla popolazione generale dei Paesi ospitanti.
Il tema dell’impatto e quello dell’accesso si sono interconnessi durante la pandemia. Le restrizioni delle attività sociali hanno comportato anche la chiusura o la limitazione di alcuni servizi socio-sanitari. Nei periodi di lockdown addirittura si sono verificate chiusure dei reparti ospedalieri e limitazioni di accesso anche ai servizi di emergenza. Le analisi disponibili, sia a livello europeo che nazionale, ci dicono che le ridotte possibilità di accesso ai servizi sanitari hanno contribuito ad un maggiore rischio di ammalarsi. Per quanto riguarda i rischi correlati a covid-19 nella popolazione generale, sappiamo che il rischio di esiti clinici gravi e morte per COVID-19 tende ad aumentare con l’età ed è significativamente maggiore per le persone sopra i 50 anni, con valori massimi nella fascia di età 80-89 anni [7]. I migranti sono tendenzialmente più giovani rispetto alla popolazione nativa [8] e dovrebbero quindi essere meno esposti a sintomi severi, tuttavia a causa delle condizioni di svantaggio più frequentemente soggetti ad ammalarsi di malattie croniche che aumentano il rischio di conseguenze gravi con COVID-19. Tra migranti e rifugiati in Europa si registra ad esempio una maggiore incidenza, prevalenza e mortalità per diabete, così come di altre patologie croniche che costituiscono fattore di rischio. Inoltre l’epidemiologia ci insegna che esiste un gradiente sociale nella distribuzione di uno spettro più ampio di malattie infettive, così come nelle principali patologie bersaglio dei virus influenzali, come ad esempio le malattie respiratorie.
Esiste infatti una relazione dinamica e complessa tra migrazione e salute. Non è necessariamente l’esperienza migratoria di per sé a costituire fattore di potenziale svantaggio per la salute, ma piuttosto la precarietà socio-economica e la marginalità a costituire criticità determinanti per la salute. La cosiddetta “transizione epidemiologica” caratterizzata da un costante aumento delle malattie croniche non trasmissibili, la cui genesi è molto spesso fortemente influenzata dagli “stili di vita” si è sviluppata in modo diseguale, colpendo maggiormente i gruppi sociali più svantaggiati (Marmot, 2016). In Italia, come in altri Paesi ad alto indice di sviluppo umano, la popolazione immigrata è maggiormente soggetta a sviluppare malattie croniche rispetto ai nativi.
Per alcuni gruppi esistono inoltre condizioni specifiche che aumentano ulteriormente sia il rischio di contagio che quello di malattia. I migranti privi di documenti ad esempio, hanno una maggiore difficoltà di accesso, minore facilità nel recarsi presso le strutture sanitarie e ad accedere alla diagnostica. Soprattutto chi si trova nel Paese ospite da minor tempo tende ad avere un accesso ridotto al welfare, incluso quello ai servizi sanitari. Inoltre, ridotte competenze linguistico-culturali e bassi livelli di integrazione possono determinare una minore fruibilità dei servizi. Queste limitazioni hanno giocato un ruolo fondamentale anche nell’accesso alle informazioni relative alla prevenzione di COVID-19, alle misure di contenimento del contagio [9], alle possibilità di diagnosi e all’adesione alla campagna vaccinale.
Nel contesto europeo, pur tenendo conto dell’eterogeneità dei gruppi, ci sono evidenze scientifiche di una sovra-rappresentazione di alcuni gruppi migranti e minoranze etniche, tra coloro che si ammalano con COVID-19, sia in termini di contagio che di ospedalizzazione e mortalità (ECDC, 2021). La disparità in termini di contagio ha riguardato molti Paesi. Si hanno evidenze molto puntuali e significative per la Norvegia in cui i migranti rappresentano il 42% di tutti i casi (al 27 aprile 2020), per la Danimarca il 26% (al 7 settembre 2020) e per la Svezia il 32% (al 7 maggio 2020). Gli studi condotti in Spagna come quelli condotti in Italia suggeriscono che i migranti hanno più probabilità di essere ricoverati rispetto alla popolazione residente (ISS, 2021). In Danimarca i migranti provenienti da Paesi a basso reddito rappresentavano il 18% dei contagiati, il doppio della loro presenza nella popolazione. In Portogallo il 24% dei casi registrati a Lisbona sarebbe stato riferibile ad immigrati (la maggioranza di origine africana) che rappresentano l’11% della popolazione della città (CSER, 2021).
In alcuni Paesi, in particolar modo in Grecia, ma anche in Germania e Francia, sono stati registrati e documentati focolai in centri di accoglienza e di detenzione per i migranti. Si sono riscontrate inoltre criticità complessive nell’accesso alla salute e alle campagne di vaccinazione. I dati attualmente disponibili per la regione europea indicano una copertura vaccinale bassa per alcuni gruppi di migranti e per alcune minoranze etniche. In particolare si hanno evidenze di un ridotto accesso alla vaccinazione per le minoranze etniche nel Regno Unito.
Nella penisola britannica, in cui una persona su sette ha un backgorund BAME [10] e il 14% della popolazione è nato fuori dalla penisola, si è riscontrato un impatto etnicamente disomogeneo sia per numero di contagi che per mortalità. I dati del Public Health England attestano un tasso di mortalità sproporzionato in aree economicamente svantaggiate dove le popolazioni BAME sono sovra-rappresentate.
L’etnicità è una costruzione sociale complessa che include il patrimonio genetico, l’identità sociale e culturale e i modelli comportamentali. Nei primi mesi della pandemia era stata avanzata l’ipotesi che la trasmissione e la gravità dell’affezione da COVID-19 potesse essere influenzata dall’etnicità, ma i fattori che si ritiene abbiamo inciso maggiormente sono la maggiore diffusione di alcune patologie croniche e i determinanti socio-economici. La disuguaglianza di impatto ha riguardato prevalentemente la popolazione nera e alcune etnie di origine asiatica come i bangladesi e i pakistani. Sicuramente hanno influito le pregresse patologie croniche, il diabete in particolare è stato riscontrato nel 43% dei certificati di morte relativi a persone asiatiche e nel 45% di quelli relativi a persone di etnia nera, a fronte di un valore generale del 21%.
In una visione di insieme, è comunque opportuno tener conto che le statistiche e i sistemi di registrazione nazionali hanno fonti molto diverse e che non tutti i Paesi registrano informazioni che permettono di risalire ad uno status di immigrazione [11] e che le rilevazioni ufficiali non tengono conto di coloro che sono esclusi dall’assistenza sanitaria. Si può ritenere che complessivamente i migranti abbiano pagato un prezzo maggiore, con un più elevato rischio di infezione e una maggiore mortalità, nonostante il vantaggio della più giovane età.
Anche nel caso specifico del nostro Paese, la pandemia ha avuto sui migranti un impatto in termini di salute, con caratteristiche in linea di massima simili a quelle già descritte a livello europeo ed in riferimento ad altri contesti nazionali. Vale però la pena riportare alcuni aspetti caratterizzanti l’integrazione sanitaria della popolazione immigrata in Italia.
Così come negli altri Paesi si riscontrano una molteplicità di condizioni sociali e politiche, alcune di carattere contingente e transitorio, altre di tipo strutturale, che rendono la salute dei migranti particolarmente fragile. Si tratta di una salute precaria proprio in ragione delle condizioni materiali da cui è frequentemente caratterizzata la vita di chi affronta un’esperienza migratoria o di chi da migrante vive in un Paese diverso da quello di origine. Tra i fattori che la influenzano vi è la capacità di accoglienza e di integrazione da parte della società ospitante, incluso il grado di accessibilità dei servizi sanitari e socio-assistenziali (Geraci, El Hamad, 2011). L’accessibilità dei servizi è il primo termometro del livello di integrazione sanitaria della popolazione immigrata se lo osserviamo dal punto di vista della sua “permeabilità”. Sono necessarie politiche in grado di facilitare l’integrazione e promuovere l’inclusione, nella consapevolezza che salute ed integrazione sono in una relazione di binaria reciprocità (Geraci, 2020).
Le difficoltà di accesso alla salute per i migranti in Italia sono di ordine molteplice: barriere di tipo amministrativo che limitano la fruizione del servizio, così come barriere di tipo linguistico e culturale e quelle di ordine materiale che li costringe a farsi carico della propria salute. Le barriere sono numerose, molte comuni a tutto il territorio europeo, altre caratteristiche del nostro Paese e a volte dovute ad una disomogeneità degli ordinamenti amministrativi regionali o dell’interpretazione e applicazione a livello regionale di norme nazionali. Certamente grazie ad un costante impegno di adeguamento legislativo, da quando l’immigrazione è divenuta un fenomeno strutturale nel nostro Paese, molte limitazioni di accesso almeno a livello normativo sono venute meno. Tuttavia resta significativo il lavoro da fare sia in termini di miglioramento legislativo che in termini di esigibilità. Il diritto garantito da un punto di vista formale, affinché sia reale, necessita di una concreta fruibilità e di un’efficacia operativa.
I dati finora disponibili per l’Italia evidenziano una sproporzione di impatto minore rispetto ad altri contesti nazionali. Potrebbero essere state proprio le caratteristiche del nostro sistema sanitario e una normativa fortemente inclusiva in termini di accesso alla salute per tutte le persone presenti a vario titolo sul territorio nazionale, ad aver in qualche modo contribuito a mitigare le potenziali disuguaglianze di impatto. Certamente ha permesso, almeno alla popolazione residente, di accedere, se pur con difficoltà, a misure di diagnosi, trattamento e cura per Covid-19 e compensare se pure parzialmente gli svantaggi dovuti ad una maggiore esposizione al contagio, a condizioni di vita più sfavorevoli e ad un maggiore rischio connesso alle condizioni lavorative. Tale potenziale effetto compensativo, non sembrerebbe però essere stato valido per gli irregolari, le cui possibilità di accesso alla salute sono, come abbiamo visto, più frammentate e hanno avuto significativi ostacoli nelle fasi soprattutto della diagnosi per Covid-19.
Rispetto all’impatto in termini di contagio e mortalità ci sono dati su scala nazionale riferibili prevalentemente alla popolazione residente, dell’Istituto Superiore di Sanità. I primi, resi pubblici nel mese di maggio 2020, riferivano che il 5,1% dei casi riscontrati in Italia riguardavano cittadini stranieri, un valore inferiore alla presenza percentuale di cittadini stranieri nel nostro Paese. Erano dati riferiti ad un periodo limitato di tempo ma tuttavia documentavano aspetti rilevanti come l’esposizione lavorativa al contagio nelle regioni ad altissima diffusione del virus. Si notava ad esempio in quel periodo un’altissima incidenza tra le persone di nazionalità peruviana, la cui comunità è fortemente rappresentata in Lombardia (il 44% delle persone peruviane presenti in Italia) ed è sovra-rappresentata tra gli operatori socio- sanitari e nelle professioni di cura [12]. Più in generale, dai dati disaggregati per nazionalità italiana/non italiana era osservabile un rischio di morte maggiore tra i non italiani provenienti da Paesi a basso indice di sviluppo umano, il ritardo nella diagnosi può spiegare gli esiti più gravi della malattia.
Un successivo e più completo studio [13] pubblicato sullo European Journal of Public Health e sempre a cura dei ricercatori ISS, include i dati rilevati dal Sistema di sorveglianza integrata per casi confermati istituito dal Ministero della Salute [14]. Il campione, di oltre 200 mila casi, include circa un 7,5% di casi non italiani. I dati confermano che le infezioni tra le persone non italiane sono state diagnosticate in modo meno tempestivo [15] quando la malattia era più avanzata e i sintomi più gravi. Si è osservato inoltre un aumento del rischio di morte nei pazienti provenienti da Paesi a basso indice di sviluppo umano rispetto a quelli italiani. È stato rilevato un gradiente inverso in base al quale il rischio di ospedalizzazione, ricovero in terapia intensiva e morte sono aumentati al diminuire dell’indice di sviluppo del Paese di origine. Tra le possibili cause di ritardo di diagnosi vengono annoverati: un mancato accesso alla diagnosi tramite il medico di base; ulteriori barriere di accesso di tipo culturale e linguistico e ritardi per timore di isolamento/quarantena e conseguenti restrizioni lavorative (Fabiani et al., 2021).
Per tutti coloro che, in differenti condizioni giuridico-amministrative godono di un’assistenza sanitaria parziale, vincolata, o che per barriere di natura sociale oltre che giuridica non vi accedono affatto (magari perché non hanno residenza né medico di base), c’è stato un problema di accesso davvero significativo. La pandemia ha enfatizzato la centralità dei temi della casa e della salute in relazione al fenomeno della homelessness e della tutela del benessere delle persone senza dimora. Non avere residenza anagrafica significa infatti non avere diritto ad un medico di base e anche chi ha il medico di base non sempre può essere agilmente raggiunto. Rispetto al tema dell’accesso alla salute e anche alla eventuale diagnosi per Covid-19, alcuni dati sono stati pubblicati in relazione alla Lombardia nella primavera del 2020, in particolare nella città di Milano.
In Lombardia, durante la primavera del 2020, la situazione è stata drammatica e quei pochi servizi rimasti aperti, così come nelle altre grandi città, sono stati un fondamentale presidio di garanzia di accesso al diritto alla salute. L’ospedale Naga accoglie immigrati privi di permesso che in Lombardia non possono accedere, salvo rare eccezioni, al Sistema Sanitario Nazionale, se non attraverso i Pronto Soccorso. Nei giorni dell’emergenza, di fatto, i PS erano chiusi così come erano chiusi per le visite ambulatoriali gli ospedali San Paolo e Niguarda, uniche strutture pubbliche di Milano che ammettono gli irregolari. Nel periodo compreso tra il 26 febbraio ed il 23 aprile 2020 tra coloro che sono stati visitati al Naga, c’è stato un aumento di pazienti con sintomi respiratori compatibili con un’infezione da Covid-19 del 16%, con un picco del 27% nell’ultima settimana di marzo. Come rilevato su tutto il territorio nazionale anche in una grande città come Milano tra gli irregolari erano numerose le persone che vivevano in strada (17% di coloro che hanno effettuato accesso presso il Poliambulatorio del Naga) e che quindi erano in difficoltà in relazione al mantenimento delle norme igieniche e nel rispetto della quarantena (Devillanova et al., 2020).
Un lavoro di ricerca, condotto sempre nella città di Milano, presso gli ambulatori dell’Opera San Francesco nel periodo febbraio-maggio 2020, testimonia invece fattori di rischio legati ad un accesso limitato all’assistenza sanitaria tra cui il timore di incorrere in problematiche legate al loro status giuridico e di esporsi a contagio nei servizi aperti (i pronto soccorso ad esempio quando sono rientrati in funzione). Inoltre sono stati registrati fattori di rischio particolarmente gravi in caso di infezione da Covid-19, come obesità, ipertensione arteriosa, diabete e disturbi cardiaci (Fiorini et al., 2020).
L’VIII Rapporto sulla Povertà Sanitaria [16)] riporta alcuni dati sulla povertà sanitaria nel nostro Paese riferiti anche ai primi sei mesi di pandemia [17] I dati di questo studio, vanno a sostegno dell’ipotesi di una ridotta possibilità di accesso alla salute e ai servizi socio-sanitari per i gruppi vulnerabili durante la pandemia. Confermano inoltre che, rispetto alla popolazione generale vi è stata una ridotta capacità di mettere in atto delle strategie compensative a causa delle ridotte opzioni di scelta (ulteriormente limitate da minori risorse economiche per accedere a servizi alternativi rispetto a quelli di cui solitamente si usufruisce) e di condizioni di vulnerabilità ed isolamento sociale più diffuse (OPS, 2020).
Un altro aspetto rilevante in termini di impatto di salute, così come negli altri Paesi europei particolarmente impegnati nell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo, è stato quello della prevenzione del contagio e della tutela della salute nei centri accoglienza. Abbiamo visto come in alcuni Paesi, in particolare in Grecia, si siano verificate situazioni drammatiche. Da parte delle istituzioni europee ci sono state indicazioni specifiche per la tutela dei gruppi considerati particolarmente vulnerabili in ragione di specifiche condizioni alloggiative, anche al fine di prevenire il rischio di sviluppo di focolai. In Italia però, il tema della sicurezza nei centri è entrato in ritardo nell’agenda politica. Durante i mesi di emergenza il Tavolo Nazionale Asilo ed il Tavolo Immigrazione e Salute hanno avviato uno studio istantaneo in duecento strutture di accoglienza distribuite su tutto il territorio nazionale (Geraci, Affronti, 2020).
Dallo studio sono emerse alcune significative criticità nella possibilità di gestione dell’accoglienza durante l’emergenza, legate all’assenza di protocolli specifici per la gestione dei centri [18] alla gestione degli ospiti e degli operatori, all’identificazione di spazi adeguati nelle proprie strutture, al reperimento di dispositivi di protezione individuale e infine a difficoltà di coordinamento con le istituzioni sanitarie. Un secondo monitoraggio da parte di TIS e TA, pubblicato a febbraio di quest’anno, ha rilevato una persistente incertezza sul piano istituzionale rispetto alla definizione di indicazioni chiare ed univoche. Nel complesso la gestione in sicurezza delle strutture di accoglienza ha costituito un fattore di forte criticità e continua ancora oggi ad essere resa complessa da modalità di accesso non pienamente inclusive ed efficaci alla campagna vaccinale. Fortunatamente rispetto ad altri Paesi europei non si sono registrati focolai significativi all’interno dei centri di accoglienza, ed uno studio condotto nei centri tra maggio e giugno del 2020 mostrava tassi di diffusione del contagio in linea con quelli della popolazione generale (INMP, 2020).
Nel complesso questa popolazione ha maggiormente sofferto in termini di impatto e di fruizione dei servizi sanitari in ragione di già pregresse condizioni di accesso ridotto e di un maggiore bisogno di offerta attiva di servizi e assistenza in risposta ai propri bisogni di salute. Questo in Italia come in Europa.
Le diseguaglianze rischiano di continuare ad aumentare in modo significativo con il protrarsi della crisi pandemica. La crescente povertà economica, sociale, educativa ed abitativa, interessa una fascia sempre più ampia della popolazione straniera e si sta dimostrando un ulteriore fattore di ostacolo per l’accesso al diritto alla salute. Nella persona immigrata si sovrappongono più vulnerabilità, che riducono enormemente le possibilità del singolo di godere di una esistenza piena ed adeguata in termini di benessere e di salute. Questa sofferenza individuale se inquadrata nel più ampio contesto delle dinamiche sociali si configura come una sofferenza socialmente strutturata in cui la violenza indiretta, socialmente e politicamente determinata, di una società iniqua finisce per ripercuotersi sul benessere e sulla salute del singolo.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Si includono in questo gruppo le persone nate in un Paese diverso da quello in cui risiedono.
[2] In molte attività essenziali, come quelle di assistenza e di circolazione di generi alimentari, e nei lavori “usuranti”, la forza lavoro straniera colma un vuoto occupazionale determinato dalla non attrattività di alcune posizioni occupazionali per i nativi (OCSE, 2020).
[3] Tra i migranti è più diffusa l’abitudine alla coabitazione di più nuclei familiari, ed è maggiore la tendenza a vivere in condomini ed edifici, così come quartieri, ad elevata densità abitativa.
[4] Già l’8 maggio 2020, il segretario generale ONU, Antonio Guterres, aveva lanciato uno specifico appello: «…la pandemia continua a scatenare uno tsunami di odio e xenofobia, colpevolizzazione e caccia alle streghe. Il sentimento di ostilità contro gli stranieri è cresciuto in rete e nelle strade. […] Migranti e rifugiati sono stati dileggiati come origine del virus, negando loro di conseguenza accesso alle cure mediche».
[5] La raccomandazione nei confronti dei soggetti pubblici era stata quella di non associare luoghi o gruppi nazionali alla malattia COVID-19 in particolare nelle espressioni utilizzate per fornire informazioni rispetto ai contagi.
[6] che ha coinvolto 30.000 rifugiati e migranti distribuiti in 170 Paesi e originari di 159 Paesi differenti.
[7] Inoltre è opportuno considerare che più della metà delle persone sopra i 65 anni convive con una o più malattie croniche che costituiscono fattore di rischio con COVID-19.
[8] Nei Paesi OCSE solo l’8% dei nati all’estero ha più di 75 anni, contro il 12% dei nativi.
[9] Molti Paesi hanno reso disponibili materiali in più, tuttavia raggiungere i gruppi più vulnerabili e rendere l’informazione concretamente accessibile, richiede sforzi organizzativi supplementari e strategie specifiche di disseminazione delle informazioni.
[10] Black, Asian and Minority Ethnic.
[11] In alcuni paesi il dato non è affatto registrato ed in altri, come il Regno Unito, si sovrappone con quello relativo alle minoranze etniche.
[12] I dati INPS del 2018 riportava la comunità peruviana come quella di riferimento per il 60% delle persone provenienti da paesi non UE impegnate in attività di lavoro domestico.
[13] “Epidemiological characteristics of COVID-19 cases in non-Italian nationals notified to the Italian surveillance system” (Aa.Vv., 2020).
[14] con periodo di riferimento esatto dal 20 febbraio al 19 luglio 2020.
[15] Lo studio ha confermato che Una diagnosi ritardata nei pazienti stranieri potrebbe spiegare la loro maggiore probabilità di presentare condizioni cliniche che richiedono ricovero, sia ordinario che in terapia intensiva, nonché la maggiore probabilità di morte osservata in quelli provenienti da Paesi a basso HDI.
[16] presentato da Banco Farmaceutico in collaborazione con AIFA.
[17] Lo studio include un gruppo di popolazione straniera equivalente a più del 50% del campione.
[18] Nel luglio 2020 è stato pubblicato dall’INMP il documento “Indicazioni operative ad interim per la gestione di strutture con persone ad elevata fragilità e marginalità socio-sanitaria nel quadro dell’epidemia di COVID-19″.
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Elisa Vischetti, laureata in Discipline Etno-Antropologiche con una tesi in antropologia medica presso La Sapienza Università di Roma, ha condotto una ricerca sul campo in Tigray (Etiopia). Ha conseguito presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata un Master di II livello in Ecomomia, Diritto ed Intercultura delle Migrazioni. Da alcuni anni si occupa di salute e migrazioni, ha collaborato con l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) ed attualmente collabora con l’Area Sanitaria della Caritas Diocesana di Roma.
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