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La misura del vento. Un dialogo mediterraneo partendo da Camus

Albert Camus

Albert Camus

di Nicola Martellozzo

O pensiero meridiano, la guerra di Troia viene combattuta lontano dai campi di battaglia! (Camus 2003: 109)

Il pensiero meridiano

Nei secoli il Mediterraneo è stato chiamato in molti modi: il grande mare (ἡ μεγάλη ϑάλασσα), Mare Nostrum, mare bianco di mezzo (al-Baḥr al-Abyaḍ al-Mutawassiṭ), ma il nome che si è imposto riguarda la sua particolare posizione geografica. Ma il mediterraneus, quel mare che sta “in mezzo alle terre”, negli ultimi anni si è guadagnato anche l’appellativo di “cimitero blu” per le migliaia di migranti affogati durante la traversata dalle sponde del Maghreb alle coste dell’Unione europea.

Il fenomeno migratorio non è cessato durante il Covid, anche se lo stato d’emergenza e la chiusura delle frontiere – interne ed esterne – ne ha parzialmente cambiato le dinamiche. Nonostante il dirottamento dei flussi lungo le “rotte balcaniche”, e a dispetto dell’inasprimento delle pratiche di sorveglianza e respingimento, il Mediterraneo continua ad essere un confine poroso, uno spazio attraversabile e attraversato quotidianamente da persone, merci, idee. È un mare che non solo è in mezzo alle terre d’Africa, d’Asia e d’Europa, ma è anche il mezzo di collegamento tra di esse.

Uno dei nomi usati nel mondo greco è proprio póntos (πόντος), con il significato originario di “via di passaggio”, spazio omogeneo all’interno del quale la navigazione umana consente di tracciare diversi percorsi (poroi) (Detienne & Vernant 1978; Cassano 2003: 21-50). Come spesso accade nel pensiero greco, l’ordine culturale si esprime nel definire limiti e agendo con misura, evitando l’eccesso dell’hybris ma al tempo stesso aprendo all’incontro/scontro tra posizioni contrastanti.

Sono questi i caratteri che ritroviamo al cuore del pensée de midi di Albert Camus, un “pensiero meridiano” nato intorno alle riflessioni del filosofo e scrittore francese sul Mediterraneo e i popoli che ne abitano le sponde (Camus 2002; Castoro 2015; Colasuonno 2015). Ne troviamo anticipazioni e risonanze nelle opere del poeta Paul Valéry, dello scrittore Jean Grenier, e del catalano Eugenio d’Ors (Guarracino 2007: 13-14); molto più vicino a noi, Franco Cassano si ispira a tematiche e valori del pensée de midi per proporre una rivalutazione del (o dei) Sud, che non scada nell’apologia per partito preso ma punti invece al recupero di una dignità negata (Cassano 2003). Tornando a Camus, la formulazione più sistematica di queste riflessioni è quella espressa nel 1937 durante una conferenza alla “Casa delle cultura” di Algeri, un’istituzione che lui stesso ha contribuito a creare:

«Non il gusto del ragionamento e dell’astrazione rivendichiamo nel Mediterraneo, ma la sua vita – i cortili, i cipressi, le corone di peperoncino – Eschilo non Euripide – gli Apolli dorici e non le copie del Vaticano. È la Spagna, la sua forza e il suo pessimismo, e non le spacconate di Roma – i paesaggi annichiliti di sole e non le scene da teatro in cui un dittatore s’inebria della propria voce e soggioga le folle. Quello che noi vogliamo non è la menzogna che trionfa in Etiopia, ma la verità che si assassina in Spagna» (Camus 2003: 141).

Ci sono pochi brani che restituiscono come questo il forte posizionamento politico e ideologico di Camus, mostrandoci tre importanti punti di rottura del pensée de midi con una certa temperie culturale francese ed europea degli anni Trenta: il rifiuto della latinità, in favore del retaggio greco; il rifiuto del colonialismo, in favore della convivenza; il rifiuto del fascismo, in favore dell’esperienza socialista spagnola. Per comprendere queste posizioni bisogna tenere conto della complessa genesi del pensiero meridiano di Camus, avvenuta all’interno di una più ampia tradizione di riflessione sul mondo mediterraneo che corre parallela rispetto alla lettura coloniale egemone di inizio Novecento.

Una sua prima concretizzazione è la “Scuola algerina” (Talbayev 2007), che dagli anni Trenta riassume e rielabora influenze di scrittori e pensatori del calibro di Saint-Simon in una matrice culturale fortemente “meticciata”; l’origine stessa di questi scrittori, discendenti di immigrati provenienti da tutto il Mediterraneo, li porta ad assumere una postura critica nei confronti delle istanze coloniali e delle rivendicazioni fasciste in Africa, facendosi portavoce di una “mitizzazione alternativa” del Mediterraneo che unisce una vocazione transnazionale a valori utopici. Le riflessioni della Scuola algerina trovano spazio nei Cahiers du Sud, rivista marsigliese che tra il 1925 e il 1969 ospiterà – mettendoli in contatto – Albert Camus e il poeta Gabriel Audisio. Quest’ultimo si oppone decisamente alla visione conservatrice e riduttiva del Mediterraneo nel contesto letterario e ideologico francese, inserendosi in quella corrente utopica degli anni Trenta già presente nel contesto di Algeri (Temime 2000). Nonostante la seconda guerra mondiale, prima, e il difficile processo di decolonizzazione, poi, abbiamo fortemente intaccato questa dimensione utopica – come del resto lo stesso ottimismo di Camus – non per questo essa scompare del tutto (Temime 2000: 60).

img-2Ma come definire questo spirito o atteggiamento mediterraneo comune? Maurice Plagnol prova a descriverlo con la somma dei molteplici caratteri dei popoli che abitano le sue sponde: «Il est celui des Grecs de Socrate et Périclès, des Égyptiens socialistes bien avant Marx et Proudhon, des Latins clairs et pratiques, des Italiens religieux et réalistes, des Algériens violents et résignes, des Espagnols hautains et misérables, des Provençaux sobres et chaleureux» (Plagnol 1953: 101). Viene spontaneo associare questa enumerazione ad un’altra, la risalita degli “Alì dagli occhi azzurri” immortalati nel meraviglioso componimento di Pasolini:

«Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. / Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, / a milioni, vestiti di stracci / asiatici, e di camicie americane. / Subito i Calabresi diranno, / come da malandrini a malandrini: / “Ecco i vecchi fratelli, / coi figli e il pane e formaggio!” / Da Crotone o Palmi saliranno / a Napoli, e da lì a Barcellona, / a Salonicco e a Marsiglia, / nelle Città della Malavita» (Pasolini 1989).

Le inevitabili difficoltà, e per certi versi l’ambiguità, nel tracciare i confini di questo “spirito comune” espongono ovviamente al rischio di presumere un’identità mediterranea inesistente, finendo per proiettare – reificandoli – certi tratti culturali su comunità e popolazioni fortemente diverse tra loro, come già in quel “Oriente” esaminato da Edward Said. Si potrebbe classificare il pensiero meridiano come «esotismo privilegiato, embrione di integrismo o apologia della marginalità» (Cassano 2003: 7), o addirittura come un nazionalismo mediterraneo, un’obiezione che Camus anticipa già nel 1937:

«Servire la causa di un regionalismo mediterraneo, può sembrare, infatti, restaurare un tradizionalismo vano e senza futuro, o ancora esaltare la superiorità di una cultura nei confronti di un’altra e, per esempio, riproponendo il fascismo alla rovescia, opporre i popoli latini ai popoli nordici. Esiste su questo un continuo malinteso. […] L’errore deriva dal fatto che si confonde Mediterraneo e latinità e che si colloca a Roma ciò che ha avuto inizio ad Atene. Per noi è evidente, non si può trattare di una specie di nazionalismo del sole» (Camus 2003: 137).

Un altro aspetto che caratterizza il pensiero meridiano di Camus è la negazione della necessità storica – della “fatalità” se si preferisce – del superamento del Mediterraneo da parte dell’Occidente, quest’ultimo inteso come incontro di continente ed oceano. La «rivoluzione spaziale planetaria» tratteggiata da Schmitt (2002: 66), corrispondente all’avvicendamento della fase talassica con quella oceanica, per Camus non corrisponde necessariamente ad un progresso, anzi. L’oceano è uno spazio realmente sconfinato, in cui il mare perde la propria misura (Cassano 2003: 48). Al contrario, nel Mediterraneo c’è un costante riecheggiare tra l’ambiente esterno e l’interiorità umana (Guidantoni 2020), in cui il paesaggio viene modellato dal lavoro secolare degli uomini, e al contempo il carattere dei popoli è segnato dal sole, dal sale e dai profumi della vegetazione.

Va però fatta una distinzione: se per Heidegger, il filosofo delle nebbie e delle Foresta nera, abitare (Baum) significa «essere sulla terra come mortale», nel mar Mediterraneo esiste invece sempre e solo “l’attraversare”. Le peregrinazioni di Camus tra l’Algeria, la Provenza, la Toscana e la Grecia – per citare solo alcuni dei viaggi mediterranei dello scrittore (Plagnol 1953) – sono tappe di un continuo attraversamento, «una peregrinazione dall’isola all’altra» (Camus 2003: 178) come i peripli del mondo antico o i nostoi dell’epica greca. E proprio nei Greci Camus trova un principio attorno a cui saldare le sue riflessioni sul Mediterraneo:

«Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa han preso le armi. È la prima differenza, ma risale molto addietro. Il pensiero greco si è sempre trincerato nell’idea di limite. Non ha spinto nulla all’estremo, né il sacro né la ragione. Ha tenuto conto di tutto, equilibrando l’ombra con la luce. Invece la nostra Europa, lanciata alla conquista della totalità, è figlia della dismisura. […] Nella sua follia, essa allontana i limiti eterni e, nello stesso istante, oscure Erinni le si avventano sopra e la straziano. Vecchia Nemesi, dea della misura, non della vendetta» (Camus 2003: 105).

Il pensiero meridiano di Camus è anzitutto un elogio alla misura e alla ricerca di coordinate in uno spazio mutevole, un invito a tracciare nuovi poroi in un póntos che unisce e divide. Il Mediterraneo del resto è caratterizzato da questa capacità di assorbire e meticciare costantemente persone, idee e valori: perfino il fascismo italiano «non ha la stessa faccia» del nazismo tedesco (Camus 2002: 140). Come osserva Fabre:

«Camus, avec la pensée de midi, dessine un cap et ouvre un horizon pour le XXIe siècle, au croisement des civilisations de Méditerranée et d’Europe. Sa pensée de midi n’est pas plus un slogan qu’une idéologie, c’est un appel à ne pas subir la démesure et à rechercher sans cesse la mesure» (Fabre 2010: 116).

Anche Cassano riconosce la matrice del mondo culturale greco dietro il pensée de midi «nato proprio nel Mediterraneo, sulle coste della Grecia, con l’apertura della cultura greca ai discorsi in contrasto, ai dissoì logoi. All’inizio non c’è mai l’uno, ma il due o i più. Non si può ricomporre il due in uno: nessun universalismo potrà mai riuscirci» (Cassano 2003: 6). Già in Socrate abbiamo un primo esempio di come la filosofia greca si confronti con discorsi irriducibili: l’aporia, il raggiungimento di una condizione priva di sbocchi (poroi), è una fase cruciale nella dialettica del filosofo ateniese, un momento che rende possibile il vero e proprio dialogo maieutico.

Per Camus stabilire dei “dialoghi mediterranei” significa perciò stabilire relazioni tra questi dissoì logoi; la ricerca continua di un equilibrio fatto di tensione tra poli contrapposti e (talvolta) contraddittori (Fabre 2010: 113). Dalla stessa esigenza di poter parlare attraverso il Mediterraneo, superando l’eterogeneità di popoli e culture, viene l’invenzione del sabir – o lingua franca – che per cinque secoli ha permesso di intendersi “in mezzo alle terre”.

Chiesa di Santa Cruz presso Oran. Sullo sfondo il porto della città algerina

Chiesa di Santa Cruz presso Oran. Sullo sfondo il porto della città algerina

Di venti e portolani

Il sabir nasce come vernacolo di “necessità” per gli scambi commerciali, una lingua nata per comunicare tra le sponde del Mare Nostrum. Non è una parlata ordinata e raffinata, con una letteratura “nobile” alle spalle, ma un gergo sbocciato tra i porti caotici e i rumorosi bazar che costellano le rive del Mediterraneo: «la lingua franca, infatti, raccoglie e innesta elementi provenienti dai diversi idiomi del Mare Nostrum, restituendo un perfetto sincretismo linguistico, espressione a sua volta di un sincretismo anche e soprattutto culturale» (Scaglione 2018).

È significativo che il più antico portolano del Mediterraneo, il Compasso da Navigare, sia stato redatto da un anonimo italiano usando il sabir. Questo testo prezioso, composto verosimilmente attorno alla metà del Duecento, fornisce sia informazioni per il cabotaggio costiero e le rotte in mare aperto, sia una carta nautica del Mediterraneo centrale. Il documento originale – conservato a Berlino – è stato distrutto durante la seconda guerra mondiale, e suona come una beffa che la perdita del più antico portolano d’Europa sia avvenuta durante il naufragio del Continente. Il sabir continua ad essere utilizzato in numerose carte portolaniche, come la famosa Carta pisana. Redatta probabilmente in Italia nella seconda metà del Duecento, rappresenta in modo piuttosto preciso le coste tirreniche e adriatiche, facendo largo uso di dialetti per quanto riguarda la toponomastica dei porti e delle città costiere. L’aspetto linguistico non è però l’unica particolarità di questa carta; anche la composizione cartografica, secondo Simonetta Conti è piuttosto singolare:

«I due centri di costruzione del reticolato li troviamo uno al largo della Sardegna, mentre il secondo è nel Mediterraneo orientale. Questa considerazione la fa apparire come un’anomalia nel restante panorama della cartografia piana a rombi di vento, ove normalmente si incontra un solo punto centrale di costruzione. Questa particolarità sta forse a dimostrare che la Pisana è sicuramente uno dei primi esemplari dell’assemblaggio in una carta unica delle due parti distinte del bacino del Mediterraneo, l’orientale e l’occidentale che presentavano problemi notevolmente differenti per ciò che riguardava la navigazione» (Conti 2005: 75).

Sia il Compasso da Navigare che la Carta Pisana sono lungi dal fornire una rappresentazione accurata della topografia mediterranea; ciò è dovuto al fatto che nei portolani mediterranei medievali manca un sistema di proiezione cartografica vero e proprio. Già alla fine dell’Ottocento il cartografo Matteo Fiorini riconobbe nelle rose dei venti la chiave per comprendere la configurazione delle carte portolaniche, finendo però per irrigidirle in un sistema cartografico troppo simile a quelli basati sulle linee magnetiche o sulla correlazione di longitudine e latitudine. Tuttavia proprio queste rose, e le linee che da esse si dipartono, sono necessarie per comprendere la funzione dei portolani antichi: non si tratta di elementi accessori o estetici, ma di un tracciato pensato sulla base delle esigenze dei naviganti e dell’esperienza degli stessi. La configurazione “standard” prevede una rosa centrale attorniata in modo diseguale da altre 16 rose minori, meno frequenti (perché meno utili) nella zona atlantica e più concentrate nel tratto tra la costa africana e quella tirrenica. Le intersezioni dei raggi delle rose formano i cosiddetti “rombi di vento”.

Portolano del Mediterraneo centrale, redatto da Grazioso Benincasa, XVI secolo

Portolano del Mediterraneo centrale, redatto da Grazioso Benincasa, XVI secolo

Prendiamo come esempio un portolano del Mediterraneo orientale (Egerton MS 2855, f.4r), redatto da Grazioso Benincasa, tra i membri di spicco della Scuola cartografica anconitana. In questa carta del XVI secolo notiamo anzitutto le 16 rose dei venti ai margini della mappa, i cui raggi si incontrano in un punto poco al largo dell’isola di Cefalonia. Sulle rose sono segnate solo 22 delle 32 direzioni totali, sufficienti perché i rombi di vento coprano l’intera superficie del Mediterraneo. Oltre ai nomi delle città (in rosso) sono segnati anche più di un centinaio di porti minori (in nero) che specie nella costa africana tradiscono il meticciamento linguistico.

Guardando la mappa nel dettaglio è possibile riconoscere la grande perizia di Benincasa: non tanto nell’accuratezza del profilo topografico delle coste, quanto nelle indicazioni circa la presenza di fondali sabbiosi, scogli e promontori, accortezze che testimoniano la lunga esperienza di navigatore del cartografo anconitano. Per quanto la loro redazione sia legata a esigenze commerciali, agli interessi economici e politici delle città marinare italiane e dei grandi porti di Spagna e del Nord Africa, queste carte portolaniche rimangono estremamente “decentrate”.

Possiamo dire che è proprio il Mediterraneo a rimanere costantemente al centro dell’attenzione e dell’interesse dei navigatori antichi, uno spazio che difatti nelle carte nautiche medievali e rinascimentali non ha ancora assunto la fisionomia moderna data dalla cartografia scientifica, ma mantiene una dimensione ambigua e relativa, perfino capricciosa, come i venti che lo attraversano.

«Al qual proposito si hanno testimonianze esplicite di idrografi del ‘500 e del ‘600, come il Nonio (De arte atque ratione navigandi, Coimbra 1573, p. 12) e il Coronelli (Specchio del mare, Venezia 1693, cap. III). Quest’ultimo dice, fra altro: “[…] essere più a proposito fare le carte del detto Mediterraneo con la positura dei loro rombi”. E Bartolomeo Crescenzio (Naut. medit., p. 189) dice chiaramente: “ad altro fine non sono fatte le linee o venti che in quella si veggono, salvo a sapere quali sono le vie che da un luogo all’altro i vascelli conducono”, e soggiunge che i venti venivano tracciati dopo il disegno» (www.treccani.it).

Sono i venti a dettare la misura del viaggio e ad essere misura della navigazione: «Le distanze marine dell’Egeo e del Mediterraneo aprono alla possibilità di un rapporto, di un contatto, anche se esso può essere feroce e terribile» (Cassano 2003: 23). Per mediare questa relazione rischiosa i navigatori medievali applicano, in modo empirico e intuitivo, la geometria euclidea al problema che già Raimondo Lullo aveva posto alla fine del Duecento: come misurare la strada percorsa in mare? Nel corso del Trecento venne adottato un nuovo metodo, o meglio una “ragione” (raxon del marteloio) che abbinata ad uno strumento fisico (toleta del marteloio) permise di migliorare l’affidabilità dei portolani adattandoli alle condizioni meteorologiche contingenti. Sia il già citato Grazioso Benincasa che il cartografo veneziano Andrea Bianco conoscono questi ausili alla navigazione, consistenti in una serie di tavole numeriche basate su un rudimentale calcolo trigonometrico, seguendo il quale era possibile effettuare correzioni di rotta atte a compensare l’eccesso di vento favorevole o il ritardo dovuto a venti contrari. Sia la raxon che la toleta del marteloio «sono il prodotto di una lenta evoluzione, costruita sull’esperienza collettiva di più uomini e di più culture. […] La pratica, l’esperienza e la necessità hanno giocato un ruolo fondamentale nella sua evoluzione, facendo anche perdere il senso più profondo delle procedure messe in atto» (Valerio 2007: 158).

C’è una netta differenza tra questi strumenti di navigazione, che permettono di tracciare o seguire vecchi e nuovi poroi attraverso il Mediterraneo, e le grandi conquiste tecniche che hanno permesso di affrontare l’oceano: «fece la sua comparsa intorno al 1595 un nuovo tipo di imbarcazione, un battello a vela quadra che […] riusciva a sfruttare il vento in modo completamente diverso rispetto alla vela tradizionale. […] Qui risiede l’autentica svolta nella storia del rapporto tra terra e mare» (Schmitt 2002: 38-39). Inizia così il perfezionamento tecnico che porterà, infine, alla conquista britannica del mare (ivi: 88).

 Carl Schmitt

Carl Schmitt

Quest’ultimo fenomeno, avvenuto sotto il segno del progresso occidentale, dell’«impero futuro della ragione», ha il proprio motore e il proprio coronamento nella Storia. In un volume di pochi anni fa, Salvatore D’Onofrio ricordava come lo stesso Lévi-Strauss caratterizzasse la nostra società occidentale proprio per la sua scelta di interiorizzare la Storia «come motore del cambiamento, ma allo stesso tempo come fattore di squilibrio che deve essere controllato in permanenza» (D’Onofrio 2018: 60). Il travalicamento del limite, anche in questo caso, è il segno di quell’hybris alla radice delle grandi catastrofi del Novecento, cui si aggiunge oggi la crisi climatica. Tuttavia, per D’Onofrio come per Camus, è «inutile voler rovesciare la tecnica. L’era del fuso non è più, e il sogno di una società artigianale è vano» (Camus 2012: 322).

Conclusioni sul limite

Il rapporto tra terra e mare, tra continenti ed oceani, muta profondamente nel corso dei conflitti mondiali del Novecento:

«Non vi è dubbio che il vecchio nomos stia venendo meno, e con esso un intero sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati. Non per questo, tuttavia, ciò che è venturo è solo assenza di misura, ovvero un nulla ostile al nomos. Anche nella lotta più accanita tra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate» (Schmitt 2002: 110).

La «tragicità delle nebbie» che anima il nazismo infligge un duro colpo all’ottimismo di Camus. In un’intervista del 1948, tornando sul pensiero meridiano, afferma che «i Greci sapevano che c’è una parte d’ombra e una parte di luce. Oggi, noi non vediamo che ombra, e il compito di coloro che non vogliono disperare è di richiamare la luce, meriggio della vita. […] In ogni caso, ciò a cui bisogna tendere non è la perfezione, ma l’equilibrio e il dominio di sé» (Camus 1961: 49). Un equilibrio che non va confuso con la quiete o con l’accettazione né del calcolo politico amorale né delle «ciance umanitarie» (Camus 2012: 324), che come virtù priva di realismo sono altrettanto pericolose. Al contrario, il dominio di sé si esprime in un moto di rivolta fondato sull’uomo e su una forte assunzione di responsabilità. La perdita dei valori religiosi (Dio) e mondani (la Società) non giustifica per Camus l’adozione di un nichilismo cinico e tralignante, presente in tutti i totalitarismi novecenteschi. Si può tracciare un parallelo tra il nichilismo della rivoluzione che dimentica il limite umano (Camus 2012: 321-329), e l’hybris tecnica dello sradicamento oceanico nelle riflessioni sul Mediterraneo, che Cassano riassume magistralmente:

«Non miriamo ad un’apologia del mare. Se è vero infatti che il mare sfuggendo, nella sua spinta libertaria, ad ogni appropriazione indebolisce ogni radice, è anche vero che quando esso perde i propri confini finisce per trasformare quell’indebolimento in sradicamento planetario: esattamente di fronte a quello della terra sta il fondamentalismo del mare che spinge verso il nichilismo e lo scatenarsi incontrollabile della tecnica» (Cassano 2003: 23).

albert-camus-actuelles-cronache-1939-1958-bompiani-1972-copertinaL’oceano porta all’estremo quella mancanza di confini e riferimenti presente nel póntos greco. Il Mediterraneo non fa eccezione: anch’esso è stato profondamente trasformato e inserito in un nuovo quadro globale, rappresentato come spazio indefinito e neutrale quando in realtà è costantemente percorso da interessi, tensioni e violenze. Lo abbiamo visto in modo plateale con l’incagliamento della nave Ever Given nel canale di Suez, lungo il quale passa quasi il 12% delle merci globali, e che ha causato una “perdita” di 9,6 miliardi di dollari al giorno. Lo percepiamo anche – in modo sempre più distaccato – con gli sbarchi dei migranti sulle coste europee, e con le migliaia di corpi che punteggiano i fondali.

Oggi immaginiamo le coste come frontiere assediate dal mare e da coloro che dal mare arrivano, da quei «milioni, vestiti di stracci asiatici e di camicie americane»; rivolgiamo lettere ad un mare chiuso (Guidantoni 2016) che è sempre meno via di collegamento e sempre più barriera liquida “in mezzo alle terre”. Ma il pensée de midi è un pensiero del limite, non del limes, e che rifiuta il retaggio politico e ideologico che Camus identifica con lo spostamento storico dell’orizzonte dei valori:

«Viviamo nella loro Europa, l’Europa che loro [Hegel, Marx e Nietzsche] hanno fatto. Quando saremo arrivati al punto estremo della loro logica, ci ricorderemo che esiste un’altra tradizione: quella che non ha mai negato ciò che fa la grandezza dell’uomo. C’è, per fortuna, una luce che, noi mediterranei, abbiamo saputo non perdere mai. Se l’Europa rinuncerà decisamente ad alcuni valori del mondo mediterraneo – la misura, per esempio, quella vera, che non ha niente a che vedere con certe “misure” di comodo – immaginiamo i risultati di un simile abbandono?» (Camus 2003: 187).

Ci sarebbe molto da dire sulle “misure di comodo” adottate in materia di migrazione, ma non è questa la sede e non sono mie le competenze per farlo. È importante però ricordare che ogni margine mantiene una certa ambiguità, ricca sia di promesse che di minacce (Cassano 2003: 55; Martellozzo 2020). Occorre perciò restituire al Mediterraneo una misura, che nel pensiero meridiano di Camus è già misura etica: «Vivre dans la lumière méditerranéenne, ouvrir son coeur à l’amitié, défendre le dialogue et la communication universelle des hommes entre eux, combattre la peur et le silence, c’est la règle de Camus dans les temps humiliants que nous vivons» (Plagnol 1953: 110). In altre parole, rimediare allo sradicamento oceanico del Mare Nostrum – cioè ripristinare un nomos, per Schmitt – significa necessariamente ripensare il nostro rapporto umano con le “altre sponde”, come attraversatori di un mare comune in dialogo tra loro.

Seguendo e assecondando il vento, i navigatori antichi hanno elaborato tecniche e saperi specifici per tracciare nuovi passaggi nel Mediterraneo; portolani, raxon del marteloio e carte nautiche sono tutte testimonianze di questo continuo compromesso tra le necessità umane e l’imprevedibilità dei venti. Riconoscere il limite, senza affannarsi nel superarlo, senza quella volontà di dominio espressa tanto nei nostri rapporti con la natura, quanto in quelli con i nostri simili: questa è una lezione che possiamo imparare, come novelli “cartografi” di relazioni e di dialoghi mediterranei. Come ritornare, dunque, a fare “nostro” questo mare? Camus ci ha lasciato alcuni appunti: «Ammettere l’ignoranza, rifiutare il fanatismo, por limiti al mondo e all’uomo, il viso amato, la bellezza insomma» (Camus 2003: 109); e, aggiungiamo noi, seguendo la misura dei venti che lo percorrono. 

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).

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