di Sergio Todesco
Notizia riferitami negli anni ’70 da Alfonso M. Di Nola. Durante una discussione a margine di un convegno (Questione meridionale, religione e classi subalterne, tenutosi a Messina) questo straordinario storico delle religioni, uno dei pochi di spessore europeo che il nostro Paese possa vantare, mi ricordò ciò che Benedetto Croce gli aveva una volta detto, che per comprendere appieno il senso dell’illuminazione di Buddha fosse indispensabile conoscere il prezzo del grano a Benares nel giorno in cui il Gautama aveva vissuto la sua esperienza. Con ciò Croce gli aveva voluto significare che i fatti spirituali non vanno mai avulsi dai contesti socio-economici all’interno dei quali essi hanno avuto luogo.
Un’antropologia storica matura potrebbe oggi andare oltre tale affermazione giungendo a sostenere che le condizioni materiali dell’esistenza, i fatti fisiologici e le determinazioni sociali non invalidano in alcun modo il significato spirituale della vita.
Nella Messina del Settecento, poco più di tre secoli or sono, una statua in cera del Bambino Gesù iniziò a lacrimare, e continuò a farlo – in diverse occasioni – per oltre dieci anni. A partire da tale fatto, cui una sentenza del Tribunale ecclesiastico riconobbe il titolo di miracolo, si venne ancor più incrementando nella città una straordinaria devozione a Gesù Bambino che alcuni religiosi, e fra questi in primo luogo Padre Domenico Fabris, Cappellano della Chiesa di San Gioacchino, già da tempo promuovevano presso la comunità locale attraverso la predicazione e l’organizzazione di svariate pratiche di religiosità popolare. Tra queste, una funzione in onore di Gesù Bambino che – a partire dal 1702 – veniva mensilmente celebrata nella chiesa di San Luca.
Dieci anni più tardi Padre Fabris aveva deciso, per incrementare ancor più tale devozione, di costruire un oratorio e un presepe. Non essendo stata ancora realizzata dal plasticatore messinese Giovanni Rossello (autore di un pregevole presepe oggi custodito al Museo Regionale di Messina) la statuetta in cera del Bambin Gesù commissionatagli, per l’allestimento del presepe il sacerdote decise di utilizzarne una da lui posseduta, donatagli dal sacerdote Antonio Rizzo, realizzata cinquant’anni prima dal ceroplasta palermitano Matteo Durante, considerato il maestro del più famoso ceroplasta siciliano del XVII secolo, l’abate Gaetano Giulio Zummo (Siracusa 1656- Parigi 1701).
La lacrimazione della statua in cera, che ebbe luogo il 23 febbraio 1712, due giorni prima della consueta celebrazione mensile, stranamente non avvenne alla presenza di Padre Fabris ma di alcuni sacerdoti e laici, in particolare il Canonico Rizzo il quale, accortosi che le lacrime sgorganti dagli occhi della statua, ancorché da lui asciugate, continuavano a fuoriuscire, corse a informare del fenomeno Padre Fabris. Dopo la prima lacrimazione, altre ne seguirono, alla presenza di numerosi osservatori tra i quali Giovanni Rossello, e grande impulso si determinò in città alla devozione verso il Bambino.
Fin qui la cronaca. Per cercare di dar senso, a distanza di trecento anni, a un evento che si è sempre mantenuto in bilico tra l’accezione folkloristica, cui una pubblicistica deteriore si è ostinata a ricondurla, e un malinteso spirito illuministico che continua a leggerlo come espressione superstiziosa e arcaica di fede, occorre forse dispiegare lo sguardo ampio sotteso alla frase di Croce citata in apertura.
Nel 1674 Messina si era ribellata alla Spagna, con l’appoggio del re francese Luigi XIV, e per quattro anni era riuscita a mantenersi indipendente dall’impero spagnolo. Nel 1678, con la pace di Nimega tra Francia e Spagna, era venuto meno l’appoggio francese e la città dovette subire la crudele riconquista degli Spagnoli. Dichiarata morta civilmente e privata di tutti i privilegi storici fino ad allora goduti, la città si avviò rapidamente verso una crisi profonda, ancor più peggiorata dalle diverse dominazioni che si succedettero nel corso del XVIII secolo, Savoia, Spagnoli, Austriaci e Borboni, nonché nel 1743 da una terribile peste e nel 1783 da un violento terremoto, che infersero ulteriori durissimi colpi tanto al tessuto urbano che a quello demografico.
In tali eventi, le classi popolari furono certamente quelle sulle quali maggiormente si abbatterono gli effetti della crisi. Le giovani generazioni falcidiate dal micidiale prelievo della leva, gli adulti oppressi dagli spietati rapporti di subalternità lavorativa tanto nel sottoproletariato urbano quanto nel ceto contadino: un corpo sociale, insomma, aduso a vivere le proprie giornate storiche tra rassegnazione disperata e palingenetiche speranze di riscatto e liberazione.
Che senso acquistano, in tale contesto, le epifanie di un dio che si manifesta attraverso le lacrime? Occorre rammentare che tale fenomeno, inaugurato dal Bambinello in cera di Padre Fabris, si è successivamente ripetuto più volte in Sicilia, come del resto – in determinati contesti storici – in altre parti d’Italia. Per rimanere al secolo scorso, basti ricordare la lacrimazione di un quadretto della Madonna a Siracusa nel 1953, a partire dal quale si sviluppò un imponente fenomeno devozionale destinato a travalicare i confini nazionali, e la lacrimazione del Volto di Gesù a Giampilieri Marina nel 1989 (poi divenuta lacrimazione di sangue nel tempo pasquale dell’anno successivo), anch’essa – benché in misura certamente inferiore – causa di rinnovato incremento di una fede assai spesso messa alla prova dal peso del negativo quotidiano e da una modernità ormai rassegnata a non levare più gli occhi verso il cielo. Molti altri episodi dello stesso genere potrebbero esser menzionati a tale riguardo. Per rimanere in ambito messinese, si rammenta lo scalpore destato alcuni anni or sono dalla presunta lacrimazione di una statua di Padre Pio collocata di fronte al santuario cappuccino di Pompei.
Il problema mi pare dunque essere non tanto quello di dare la “santità” o il “miracolo” come realtà scontate, date per veritiere o viceversa a priori negate, quanto quello di assumerle come dati culturali fluidi, magmatici, plasmabili in relazione ai contesti nei quali esse siano ancora in grado di fornire orizzonti di senso, di dischiudere aggiustamenti alle proprie modalità di stare nel mondo.
Tali fenomeni, che in gran parte hanno luogo presso dimore di privati cittadini per lo più appartenenti a fasce sociali medio-basse, sortiscono guarigioni, conversioni, meccanismi di devozione collettiva che “fanno star meglio” le persone che di essi sono partecipi. Di fatto, le lacrime e le lacrimazioni si rivelano in questi casi forme specifiche, particolari e speciali di comunicazione, non già tra il qui e l’altrove ma tra persone desiderose di tornare a sillabare linguaggi condivisi. Mi pare di poter qui cogliere i motivi di verità contenuti nella definizione marxiana della religione come “via indiretta e allungata” (La questione ebraica), una via rivelatasi l’unica possibile in contesti storici determinati a che gli uomini potessero sperimentare un qualche riconoscimento del proprio valore.
È interessante notare come in alcuni di tali eventi “epifanici” rivesta sempre una grande importanza il corpo. Nel momento della sua irruzione, che non fa parte del tempo ordinario ma pertiene alla dimensione mitica e metastorica, Dio parla attraverso il proprio corpo di cera, di terracotta o di bronzo, e invita ad appropriarsi dei segni della propria presenza attraverso la raccolta delle lacrime o del sangue in batuffoli di cotone che perpetueranno tale presenza nel tempo storico, nell’esistenza quotidiana.
Occorre forse dedicare attenzione al peculiare statuto delle immagini sacre quali immagini responsabili, immagini in grado di fornire responsa in quanto simboleggianti un soggetto o un’entità; su tale tematica Georges Didi-Huberman, sul quale ha offerto dense riflessioni Francesco Faeta, ha elaborato la categoria da lui definita della “transustanziazione”. Secondo tale prospettiva ermeneutica, le immagini sacre, nonché essere mere riproduzioni di un referente (l’immagine di un santo riproduce quel santo) tendono, in contesti di fruizione ancora permeati da una cultura di tipo tradizionale, a confondersi con esso, partecipando in pari grado dell’essenza che lo connota. L’immagine della divinità si trasformerebbe così in una sorta di reliquia di essa. E tale invero pare essere l’uso che si è storicamente fatto delle immagini o prodotti plastici dei santi, di Gesù o della Madonna, veri e propri dispositivi volti a presentificare e rendere partecipe della storia umana l’ente numinoso nei più svariati contesti della vita quotidiana, sì che l’esistenza degli uomini possa dispiegarsi per entro un sistema garante dell’integrità della persona, al contempo utile a rassicurare l’utente di tale dispositivo sulla congruità e coerenza dei propri orizzonti, tanto al livello del tempo strutturato che a quello del tempo vissuto.
Al pari del sangue, il “sugo della vita” (Piero Camporesi), le lacrime si fanno elementi di un linguaggio che consente di gettare ponti tra al di qua e al di là. Attraverso la lacrimazione pubblicamente palesata si determina la legittimazione e il riconoscimento sociale del sacro. Le lacrime così fondano un nuovo spazio di comunicazione tra l’umano e il divino. Ancora più pregnante appare il rapporto che intercorre tra divinità, lacrime e cera. Sotto tale profilo, quest’ultima è un materiale esemplare. Appare infatti sin dagli albori della civiltà occidentale come un materiale altamente caricato di valori simbolici. La circostanza che la cera venga prodotta dalle api, animali che dispiegano il proprio ciclo biologico passando dallo stato larvale a un’esistenza piena, ha fatto sì che essa (come, per altro verso, il miele) assurgesse a simbolo del “mutamento di stato”, della resurrezione e quindi dell’immortalità. Sin dall’inizio della sua scoperta, la cera è stata utilizzata per fini liturgici. In particolare, per rimanere in ambito cattolico, la sua plasmabilità e la sua capacità di alimentare la fiamma a lenta consumazione l’hanno resa segno, per un verso, del cristiano, “cera molle” tra le dita del suo Creatore, per altro verso della virtù – alludente alla Parola – di alimentare la luce divina.
Sorprendente resa mimetica, malleabilità e facilità di lavorazione, colorabilità e capacità di accogliere prodotti organici come peli, capelli, denti, unghie; la cera ci sorprende e quasi ci impaurisce per la sua attitudine a riprodurre alla perfezione la corporeità umana, tanto il derma che la sarx. Come afferma Ernst H. Gombrich la cera «spesso ci mette a disagio col suo esorbitare dai limiti della rappresentazione simbolica». La cera del Bambinello di Padre Fabris si presenta pertanto come materia particolarmente idonea a farsi luogo di una epifania lacrimatoria.
Cera, sangue, lacrime. Tali “materiali”, organici quanti altri mai, è pur possibile che si costituiscano come media privilegiati attraverso i quali un Dio che voglia, ogni tanto, visitare la storia degli uomini decida di farsi presente ad essi. La notizia che il Vaticano (la Congregazione delle Cause dei Santi) avesse dato il via libera per il processo di beatificazione di Natuzza Evolo non è stata una sorpresa per quanti ne avevano seguito le vicende terrene. Questa mistica di Paravati infatti, scomparsa nel 2009, ha declinato lungo l’intero corso della sua esistenza tutte le beatitudini evangeliche. Considerata uno dei casi più interessanti in seno alla religiosità popolare meridionale, Natuzza è stata studiata da medici, psichiatri, antropologi (Luigi M. Lombardi Satriani), tutti stupefatti della sua capacità di coniugare lo straordinario e il quotidiano, accompagnando alla presenza di segni indubbiamente portentosi e carichi di mistero una vita trascorsa nell’umiltà e dedicata al servizio del prossimo.
Nel corso di un’infanzia assai povera e travagliata, già da bambina Natuzza inizia ad avere visioni, accompagnate da singolari fenomeni mistici. Nel piccolo centro del Vibonese questi fatti destano grande scalpore, e come spesso accade un gran numero di persone accorre presso l’abitazione della piccola mistica credendo di trovare in lei una nuova santona. Niente invece di tutto questo. Natuzza si limita a raccontare le sue visioni, i messaggi che le provengono dall’al di là, senza mai dar mostra di voler trarre profitto da tale sua esperienza, affatto intima e personale, della quale rende partecipi gli altri solo se interpellata e sempre nella veste di testimone oculare, di persona informata sui fatti come si direbbe in gergo giudiziario.
Naturalmente la società tutt’intorno vuole vederci chiaro. Mentre le autorità ecclesiastiche invitano alla prudenza, Natuzza viene anche sottoposta a un ricovero psichiatrico, perché ne vengano accertate le eventuali turbe. Ma turbe non ce ne stanno, ci sono solo fenomeni inspiegabili. Ancorché analfabeta, Natuzza mostra sul proprio corpo, sulla propria pelle segni sacri e frasi in latino, aramaico e altre lingue a lei sconosciute. Inoltre rivela attitudini che appaiono fuori dell’ordinario. Vede Gesù, la Madonna, i santi, le anime dei defunti, parla con l’Angelo custode, riceve le stimmate, ha il dono della bilocazione, all’approssimarsi della Settimana Santa rivive sul proprio corpo la Passione del Signore. Nonostante gli impegni familiari (intanto si è sposata e ha partorito cinque figli) accetta con umiltà tale suo straordinario carisma e non si nega mai alle folle che sempre più numerose si recano a trovarla. Per tutti ha una parola di conforto, a tutti assicura le sue preghiere, in tutti l’esperienza con la sua persona sortisce “guarigioni”, a volte di ordine somatico, a volte sotto forma di radicali revisioni di vita. E Natuzza vive e attraversa tutto ciò con una disarmante umiltà e in assoluta sintonia e obbedienza verso la Chiesa e le sue gerarchie, che pure non cessano di guardare con sospetto a tale realtà. Non si pone di fatto, come avviene in genere nei casi di “religiosità effervescente” presso le culture popolari del nostro Mezzogiorno, in uno stato di contrapposizione con la struttura ecclesiastica che nel suo contesto sociale sovrintende alla gestione del sacro. Viceversa percepisce la propria singolare condizione alla stregua di un mandato che la induce a donarsi agli altri, a rendere partecipi quanti l’avvicinano di tale suo misterioso potere di far da tramite fra i due mondi, quello visibile e quello invisibile.
In tale modalità di palesare sul proprio corpo la presenza di un altrove, il sangue riveste un ruolo particolarmente pregnante. Nella cultura calabrese e meridionale in genere, d’altronde, il linguaggio ematico ha da tempo assunto la veste di canale privilegiato ai fini di una comunicazione tra mondo dei vivi e mondo dei morti, tra corpi di carne ed entità numinose con le quali essi in qualche modo intendono relazionarsi, come risulta dagli studi esemplari di Luigi M. Lombardi Satriani e di Francesco Faeta.
L’avvio del processo di beatificazione indica come ormai tutte le riserve a lungo espresse dalla Chiesa siano cadute. A me preme piuttosto svolgere alcune considerazioni di ordine antropologico su Natuzza. Questa donna analfabeta, mite e umile di cuore, si è fatta, senza averne consapevolezza e probabilmente non per propria volontà, sciamana della sua comunità. Una sciamana benefica, che tiene aperta la porta tra mondo di qua e mondo di là, che di quel mondo ai più sconosciuto diventa capace di decriptare i messaggi e tradurli a beneficio dei suoi simili. Che vive le sofferenze impresse nel proprio corpo come una caparra offerta in vista delle gioie che l’attendono nel Paradiso verso cui è proiettata.
Ma, soprattutto, Natuzza è una donna in sommo grado capace, e disposta, a caricarsi delle sofferenze degli altri, di tutti quegli altri che le si accostano, e in questo farsi carico svolge una funzione protettiva e rassicuratrice, in ultima analisi squisitamente terapeutica. Non si contano, o si contano nell’ordine delle migliaia, le persone “guarite” da Natuzza, che si sono sentite risanate nel corpo o nello spirito dal semplice esser venute in contatto con lei e aver ascoltato le sue parole.
In un mondo assai poco attento ai bisogni del prossimo, agli altrui disagi e alle altrui sofferenze, non è già questo un miracolo? Come più volte ci ha ricordato, nel corso del suo alto magistero antropologico e umano, Antonino Buttitta, l’uomo è un animale produttore e consumatore di simboli, e costituirebbe imperdonabile errore di cecità pseudo-illuministica ritenere che i simboli, per il loro non esser veicolati da supporti materici, non posseggano l’efficacia che viceversa hanno sempre, in tutti i tempi e sotto tutte le latitudini, manifestato. Un’efficacia in grado di interferire con i più sottili meccanismi psico-fisiologici e dunque valevole a «suscitare nel sofferente profonde emozioni e, attraverso queste, produrre nell’organismo reazioni capaci di condurre alla guarigione» (A. Lupo).
In conclusione, mi pare che tanto la vicenda del Bambino lacrimante quanto quella della mistica di Paravati costituiscano due occasioni esemplari per riflettere sulla funzionalità di logiche simboliche atte a meglio assicurare la gestione di situazioni storiche rispetto alle quali la logica razionale non trova risposte adeguate.
La vicenda esistenziale di Natuzza Evolo, attraverso i meccanismi che ne hanno caratterizzato lo svolgimento, testimonia in qualche modo come il fine da perseguire, nella nostra come in qualunque società, non sia tanto quello di non soffrire quanto quello di fornire orizzonti alla propria sofferenza. In ciò rimane per sempre rischiarata la prassi codificata presso i ceti popolari di giustificare l’ineluttabilità della sofferenza attraverso costanti esercizi di conferimento di senso, facendo defluire quella che de Martino chiamava «l’enorme potenza del negativo quotidiano» per entro un sistema di condivisione comunitaria del patire, che si rivela nell’ideologia tradizionale la strategia per eccellenza dell’azione terapeutica.
La nostra povera e alquanto distratta modernità avrebbe, in questa triste contingenza pandemica, trovato forse maggior giovamento dalle parole analfabetizzate di Natuzza anziché dalle molteplici e contraddittorie narrazioni della scienza ufficiale.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020.
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