per la cittadinanza
di Franco Pittau
Sono state diverse, nel corso delle legislature susseguitesi dal 1992, le proposte di legge per modificare la legge sulla cittadinanza, in particolare per facilitarne l’accesso ad essa dei minori. Nella legislatura scorsa si arrivò all’approvazione di un testo, che però non fu sottoposto all’approvazione definitiva della Camera dei deputati.
Sono 5 milioni di stranieri residenti in Italia e tra di essi bisogna distinguere tra i cittadini comunitari (poco più di un quarto del totale) e quelli che non vengono da Paesi facenti parti dell’Unione Europea. Per i cittadini comunitari, in particolare per i numerosi romeni, polacchi e altri di quell’area, la questione della cittadinanza si pone in una maniera specifica rispetto a quelli originari degli altri Paesi dell’Est Europa, che hanno una rilevante incidenza sulla presenza immigrata totale. Prima che questi immigrati acquisissero lo status di cittadini UE la tendenza a ottenere la cittadinanza italiana era molto più accentuata. A giustificare tale comportamento era l’apprezzamento della cittadinanza (acquisita inizialmente per matrimonio e per anzianità di residenza) come mezzo efficace per garantire la stabilità della permanenza in Italia e anche per superare l’assoggettamento a discriminazioni di vario tipo, praticate nei confronti degli stranieri. Con l’ingresso nell’UE i numerosi immigrati dell’Est Europa si sentono ampiamente protetti dalle norme comunitarie e non considerano più l’acquisizione della cittadinanza un percorso obbligato. Attualmente, questa scelta è da loro compiuta solo per ragioni culturali e affettive, come ad esempio a seguito di matrimonio con un partner italiano.
Diverso è l’atteggiamento degli immigrati che vengono da Paesi dell’Est Europa non facente parte dell’UE o da altri Paesi comunitari. Nell’ambito della questione generale sulla cittadinanza le disposizioni da approvare, per facilitarne l’attribuzione ai minori, acquistano una peculiare rilevanza, specialmente quando essi sono nati in Italia ma anche quando seguono un intero ciclo scolastico in Italia, perché se la cittadinanza è l’espressione di un percorso di effettivo inserimento nella società italiana, certamente questo è riscontrabile in chi nasce o comunque compie la sua socializzazione in Italia.
Se questi, ridotti all’essenziale, sono i termini del problema, è invece molto complicata la determinazione delle disposizioni che dovranno caratterizzare la riforma della legge attuale. Come risaputo, sull’immigrazione sussistono orientamenti differenti, e così anche sulla cittadinanza. È possibile venire a capo della questione ricorrendo alla mediazione (ieri, come oggi, intrinseca alla politica specialmente su una questione così delicata) e tenere conto che ai grandi obiettivi si arriva più facilmente se non si trascurano le tappe intermedie. Queste riflessioni, maturate a seguito di un lungo impegno in immigrazione, specialmente con molteplici iniziative di sensibilizzazione conoscitiva, non sono scritte con il dito puntato ma invitano sommessamente tutti a una riconsiderazione critica della questione, facendo anche riferimento al nostro passato storico di stranieri in altri Paesi.
Una questione giuridica, culturale e storica
Una premessa è necessaria per conferire la massima importanza a questa materia. La cittadinanza è non solo una questione giuridica, ma anche qualcosa di più e, se la si richiede solo per i benefici concreti che ne derivano, rischia di favorire la nascita di “cittadini estranei”. Naturalmente, l’inclusione giuridica senza quella culturale può riguardare anche gli italiani e proprio per questa ragione dispiace che “l’educazione civica” non sia un impegno generalizzato e profondo rispetto a quanto attualmente avviene.
Diventare italiani è una legittima aspirazione di molti immigrati presenti nel nostro Paese, ma quest’aspirazione da lungo tempo (e ancora oggi) si scontra con difficoltà di natura legislativa e amministrativa, come è stato evidenziato all’applicazione trentennale della legge n. 91992. Questa modificò la precedente legge del 1912 e non tenne conto che nel mentre l’Italia risultava profondamente cambiata ed era diventata anche un Paese di immigrazione, oltre a continuare a essere la patria di milioni di emigrati italiani residenti all’estero.
Nel dibattito su una maggiore apertura della cittadinanza ai cittadini stranieri la posta in gioco non si esaurisce solo nella determinazione degli anni necessari per ottenerla e, pur essendo condivisibile il proposito di diminuirli constatata la tendenza dell’immigrazione alla stabilità, si richiede anche il supporto di un approccio culturale più maturo, sia tra gli italiani che tra gli immigrati. La legge sulla cittadinanza del 1992 fu approvata per risolvere vecchie questioni dell’emigrazione degli italiani, che andati all’estero l’avevano perduta e non avevano potuto trasmetterla ai loro discendenti.
Se si pensa ai sacrifici affrontati da questi eroi ignoti della mobilità di massa e ai vantaggi da essi procurati alla loro patria, tale attenzione era doverosa, ma sarebbe stato auspicabile comporla con le esigenze poste dal nuovo fenomeno dell’immigrazione estera, preso in considerazione dalle leggi n. 943 del 1986 e n. 30 del 1990, rispettivamente per quanto riguarda il lavoro e il soggiorno. Invece nel 1991 furono raddoppiati gli anni necessari per la naturalizzazione, portandoli da cinque a dieci.
La cittadinanza è indubbiamente legata alla stabilità della permanenza, della quale però in quel periodo non si poteva prevedere tutta la portata, poi palesatasi in tutta la sua evidenza, atteso che in trent’anni la popolazione straniera è aumentata di ben dieci volte. Oggi questo innesto permanente non può sfuggire all’attenzione del legislatore, mentre negli ultimi e tormentati anni della “prima Repubblica” mancò quella lungimiranza che la classe politica seppe in precedenza dimostrare con l’approvazione delle leggi sull’immigrazione nel 1986 e nel 1990.
Due gli orientamenti, diversamente caratterizzati
Sul tema della cittadinanza sono in sintesi due (con diverse sfumature all’interno di ciascuno di essi) gli orientamenti di pensiero: per farne cogliere le differenze è funzionale una certa accentuazione delle loro caratteristiche.
Vi sono quelli che considerano la cittadinanza come “l’ultimo fortino” da difendere strenuamente per salvaguardare il carattere distintivo del nostro Paese, la sua ricchezza culturale, sociale e religiosa e, secondo certe posizioni, anche per tutelare la sua purezza etnica. Pertanto, le regole rigide del 1992, tra le più restrittive in Europa, devono essere mantenute in vigore, e semmai rafforzate (come è in effetti è stato fatto, seppure temporaneamente a seguito di un’ulteriore modifica) con il prolungamento del periodo necessario per l’elaborazione di una pratica di cittadinanza. Si tratta dei cosiddetti “decreti sicurezza” proposti alla fine del 2019 e della loro modifica nell’anno successivo.
Secondo i difensori di questo orientamento bastano, insomma, le disposizioni della legge del 1992, in base alle quali hanno già acquisito la cittadinanza italiana circa un milione e mezzo di stranieri. All’inizio degli anni ’90 i casi erano solo 4 mila l’anno. Nel 2016, invece, si raggiunse l’apice con oltre 200 mila, poi attestatisi ultimamente sui 100 mila casi l’anno. In Italia il tasso di acquisizione della cittadinanza è superiore alla media europea e, prevedibilmente, la tendenza alla stabilità non mancherà di incrementare il numero dei nuovi cittadini.
In aggiunta a queste considerazioni imperniate sulle norme che regolano la naturalizzazione per anni di residenza non si manca di evidenziare che i casi di acquisizione di cittadinanza da parte di chi è nato in Italia, permanendo nel territorio nazionale fino ai 18 anni, sono stati agevolati dal legislatore a seguito dell’obbligo, imposto ai sindaci, di avvisare previamente i minori registrati nelle anagrafi comunali, e ciò allo scopo che ad essi non sfugga l’opportunità di ottenere la cittadinanza al raggiungimento della maggiore età, rispettando il termine fissato.
Si pone anche in risalto che i minori stranieri, a prescindere dal fatto che siano nati in Italia o siano arrivati successivamente, diventano cittadini italiani perché questo status è loro trasmesso, senza condizioni di sorta, dai genitori che acquisiscono la cittadinanza per naturalizzazione.
I sostenitori del secondo orientamento in materia di cittadinanza sono propensi a considerarla, prevalentemente o comunque, un mezzo per favorire l’integrazione. Essi dedicano una particolare attenzione ai minori e ritengono che gli anni vissuti in Italia nel periodo della formazione equivalgono a un efficace cammino d’inserimento, agevolato e rimodulato dal continuo contatto con i coetanei: un percorso che prepara e richiede l’attribuzione della cittadinanza con la funzione di formalizzare giuridicamente la sintonia realizzatasi con il contesto italiano. Su questi aspetti sono state scritte riflessioni molto bene argomentate e stimolanti e basta qui avervi fatto cenno. In generale, il fatto di essere considerati pari nei diritti e nei doveri, in un Paese che ha la sua storia e le sue tradizioni, induce di per sé, secondo le diverse capacità dei singoli, a modellarsi come parte viva del Paese di accoglienza, mentre la diversità di cittadinanza genera un senso di estraneità.
Nel dibattito sulla cittadinanza i minori stranieri meritano qualche considerazione aggiuntiva ai pochi riferimenti prima esposti. In effetti, devono essere presi in considerazione anche altri aspetti. Essi, come prima accennato, anche se nati in Italia, e a meno che non abbiano ricevuto la cittadinanza per trasmissione da parte dei genitori (diventati a loro volta cittadini italiani), devono aspettare fino al compimento del 18° anno di età, un periodo di attesa ritenuto troppo lungo rispetto alle loro attese, sentendosi molto prima uguali ai loro compagni italiani.
Non mancano le ragioni socio-culturali portate a sostegno. Bisogna partire dalla considerazione che chi è nato in Italia, e qui ha vissuto la sua socializzazione, esistenzialmente non si sente estraneo alla società italiana. Tuttavia, il periodo di attesa per il superamento di questa situazione (trattamento disuguale riservato ai figli degli immigrati che si trovano in situazioni uguali a quelle dei coetanei italiani) risulta essere quasi doppio rispetto a quello richiesto per la naturalizzazione dei loro genitori, sicuramente meno “italianizzati” di loro.
Argomentazioni simili, anche se non del tutto identiche, sono introdotte a favore dei minori che, arrivati da piccoli o da adolescenti in Italia, hanno compiuto qui un ciclo completo di scuola, da considerare un periodo fortemente significativo sia per la durata che per l’impegno implicati, quindi in grado di garantire un solido inserimento socioculturale nella realtà locale. È stato ampiamente posto in evidenza che, protraendo per troppi anni il conseguimento della cittadinanza, si determinano, nei giovani, scoramenti di natura psicologica e si crea una certa disaffezione nei confronti dell’Italia.
Cittadinanza “giuridica” e cittadinanza “sociale”
Se è vero che la titolarità della cittadinanza è la base per un’eguaglianza giuridica totale (anche per quanto riguarda il voto politico), è anche vero che, escluso il diritto al voto, la “cittadinanza sociale” dovrebbe essere garantita previamente da altri strumenti, attivabili già in base alla normativa vigente e a prescindere da una futura riforma della legge del 1992.
È opportuno ricordare che, per il superamento delle discriminazioni in ordine all’inserimento sociale, è in vigore dal 1975 in Italia l’apposita convenzione di New York, varata nell’ambito delle Nazioni Unite. Nel 1981 stata ratificata la convenzione OIL n. 143/1975 per la parificazione dei diritti in ambito socio-lavorativo. Dalla fine degli anni ’90 sono entrati in vigore la legge Turco-Napolitano e il Testo Unico sull’immigrazione, che sanciscono l’equiparazione degli immigrati agli italiani nella fruizione di molteplici diritti (studio, integrazione sociale e pari opportunità). Negli anni 2000 è stata recepita nell’ordinamento italiano la Direttiva Europea (2003/009/CE) sui titolari permessi di soggiorno di lunga durata. La Direttiva si configura come uno strumento giuridico di eccezionale importanza per gli immigrati non comunitari, presi in considerazione nell’ottica di una sostanziale equiparazione agli autoctoni, anche per quanto riguarda l’accesso ai posti pubblici, esclusi quelli che comportano l’esercizio dell’autorità dello Stato o abbiano attinenza alla sicurezza pubblica.
Queste prospettive incidono sostanzialmente sull’accesso alla “cittadinanza sociale” e cioè sull’inserimento effettivo nella società anche ai livelli più elevati. In questo modo il trattamento degli stranieri è assimilato sempre più a quello degli autoctoni, seppure con qualche residua limitazione superabile solo con la cittadinanza italiana tout court. Non farsi carico di una sistematica applicazione di questa tappa intermedia non va a vantaggio degli interessati e non ne facilita l’inserimento in profondità. Lascia veramente perplessi la constatazione che questo campo d’azione stenti a essere individuato come campo d’azione indispensabile per una “saldatura” tra autoctoni e immigrati. Difettano al riguardo le concrete campagne di sensibilizzazione fatte di approfondimenti, comunicazioni sui media, azioni giudiziarie di principio, segnalazione di casi esemplari e così via. Questa “distrazione” lascia perplessi e si constata che, trascurando una normativa vigente, si finisce col concentrare l’attenzione (esclusivamente o quasi) su una riforma della legge sulla cittadinanza a favore dei minori, quasi che la cittadinanza giuridica poco abbia a che fare con quella sociale e, in un certo senso, vi sia una forte continuità tra i due livelli. Sotto diversi aspetti questa deve essere considerata una strategia deficitaria, non perché debba venire meno l’attenzione ai minori, bensì perché l’apertura necessaria deve includere anche i loro genitori e, riuscendo a conseguire per loro miglioramenti qualificanti, si incentiverebbe un atteggiamento più favorevole anche alle modifiche legislative riguardanti i loro figli.
Tra l’altro, dei benefici giuridici prima menzionati a favore dei soggiornanti a tempo indeterminato, i minori stranieri a carico possono fruire anche prima di ottenere la cittadinanza italiana. Il discorso del superamento delle discriminazioni, della pratica dell’uguaglianza, dell’offerta delle pari opportunità, delle sanzioni in caso di comportamenti difformi, non dovrebbe essere trascurato nell’attesa di una modifica della legge sulla cittadinanza, perché le tappe intermedie – conviene ribadirlo – non allontanano dalla meta finale ma ne agevolano il conseguimento.
Le difficoltà. che impediscono di fare concreti passi in avanti dipendono da una situazione ambivalente. Infatti, in Italia è in vigore un’articolata normativa sulle pari opportunità da garantire agli immigrati; d’altra parte la sua applicazione non ha favorito l’auspicato cambiamento di mentalità e dalla maggior parte della cittadinanza continua a essere giustificato l’assunto “Prima gli italiani”, che è in contrasto nella maggior parte dei casi con gli impegni internazionali assunti dall’Italia.
Più funzionale una strategia inclusiva dei minori e dei loro genitori
Vi è un altro aspetto, di natura più ampia, che è di pregiudizio agli adulti immigrati e determina conseguenze negative anche ai loro figli. Si tratta della preoccupante scomparsa dal vocabolario politico e di uso corrente del concetto di “integrazione”, mentre per la maggior parte degli immigrati si conferma la prospettiva di un inserimento stabile in Italia.
L’integrazione è una materia che rientra nelle competenze delle regioni, alle quali i fondi sono erogati dal governo centrale, senza che esista più uno specifico fondo per l’immigrazione, essendo state unificate tutte le risorse disponibili destinate per le politiche sociali. La scelta di una gestione unificata fu dettata dalla preoccupazione di inserire i bisogni degli immigrati inserendoli nelle politiche generali, senza farne una categoria separata. Col tempo, però, si è creata una certa disattenzione a seguito dei cambiamenti intervenuti tra gli schieramenti politici e degli atteggiamenti meno disponibili della popolazione, così è andata scemando l’attenzione ai problemi dell’inserimento degli immigrati e si è diventati più riluttanti nell’assegnazione dei fondi necessari. A livello nazionale, poi, raramente è stato organizzato qualcosa di specifico sull’immigrazione, come conferenze, convegni e ricerche: nel passato fu molto attivo al riguardo l’Organismo Nazionale di coordinamento dei problemi dell’integrazione degli immigrati, con rapporti annuali sugli indici di inserimento dei cittadini stranieri nei diversi contesti territoriali. È venuto anche meno il sostegno alle associazioni degli immigrati, un ambito nevralgico per tanti aspetti e, in particolare, per formare i leader immigrati.
Non sono state effettuate ricerche sull’applicazione della Direttiva UE che ha dischiuso l’accesso ai posti pubblici. Che questi inserimenti siano pressoché inesistenti deve considerarsi un risultato scontato anche perché nei bandi di concorso si continua a richiedere per la partecipazione il possesso della cittadinanza italiana o comunitaria, mentre non si menziona la titolarità di un permesso di soggiorno UE di lunga durata.
Stando così le cose, non desta sorpresa che non si stia formando una significativa élite di origine straniera, conosciuta a livello nazionale e attiva nei media. Di loro, dei loro problemi, delle loro attese, dei loro punti di vista parlano solo quasi unicamente gli italiani. È inoltre quanto mai problematica la questione della progettazione sociale sia a livello europeo che nazionale e regionale. Questa progettazione è diventata sempre più burocratizzata, e non è non adatta a rispondere in maniera adeguata alle concrete esistenze della base immigrata, per lo più tagliata dalla possibilità di presentare i suoi progetti, non potendo soddisfare le condizioni richieste, come invece fanno agevolmente le strutture più consolidate (italiane o dipendenze italiane di agenzie multinazionali).
Come risultato di questa situazione si riscontra che i genitori dei minori, che si vorrebbero agevolare con la riforma della legge sulla cittadinanza, sono emarginati, portando in qualche modo a ritenere che anche l’obiettivo della cittadinanza ai minori rischia di rivelarsi una conquista formale, come per diversi aspetti è stato il principio di pari opportunità per i loro genitori.
Nessuna contrapposizione tra stranieri in Italia e italiani all’estero
Non è necessario, quando si propone la modifica della legge sulla cittadinanza, prendere l’avvio da una radicale critica delle attuali norme, indubbiamente a favore degli oriundi. Può darsi che alcune disposizioni debbano essere modificate, ma non è giustificabile una posizione radicalmente abolizionista senza preoccuparsi di coinvolgere previamente i rappresentanti della presenza italiana all’estero (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero) e politico (parlamentari eletti nella Circoscrizione Esteri). Un intervento a gamba tesa, si direbbe nel gergo calcisticamente!
Alcuni si sono anche chiesti che cosa abbiano a che fare con l’Italia questi oriundi, che spesso neppure hanno messo piede in Italia, conoscendola solo per sentito dire. Va sottolineato che, per sostenere le fondate aspettative degli immigrati, è sbagliato mettere in cattiva luce gli italiani all’estero. Con l’Italia odierna hanno a che fare senz’altro i pionieri dell’emigrazione, i cui sacrifici furono di grande aiuto anche allo sviluppo del Paese con l’invio delle le rimesse. Anche le successive generazioni hanno contribuito a far conoscere il nostro Paese, a fare apprezzare la tenacia lavorativa dei suoi cittadini, a incrementare i flussi dei turisti in visita delle sue bellezze. Questi aspetti continuano a essere importanti. Anche se è trascorso un secolo e mezzo dall’inizio dell’emigrazione di massa, è tutt’altro che trascurabile, in un mondo globalizzato, la presenza italiana all’estero: ai 5,5 milioni, che hanno conservato la cittadinanza, si aggiungono tra i 60 e i 70 milioni di oriundi: questa diffusa realtà a che fare con l’Italia!
Invece la strategia, finalizzata a colpevolizzare i discendenti degli emigrati italiani, ritenendo che essi siano ormai una realtà estranea, non è fondata né, creando divisioni, è d’aiuto per riuscire a far passare la riforma della legge sulla cittadinanza.
Necessaria una visione d’insieme della realtà migrante
Il rispetto della presenza italiana all’estero non è di pregiudizio alla giusta preoccupazione alle proposte di riforma della legge sulla cittadinanza, per il cui conseguimento bisogna, invece, interrogarsi sul percorso da seguire.
Va ribadito che dal punto di vista sociale non è stato fruttuoso parlare dei figli, dimenticando i loro genitori, confinati in una zona d’ombra e spesso di emarginazione, tollerati più che apprezzati, Questo atteggiamento manca di credibilità, perché è la famiglia immigrata nel suo complesso che deve essere integrata nella realtà del Paese.
Come si è detto, l’impegno per il loro inserimento è stato deficitario e ciò rischia di dare al dibattito sulla cittadinanza un’impostazione formalistica, così come è avvenuto per i genitori: per loro il diritto al soggiorno stabile non ha trainato un impegno adeguato per quanto riguarda la lingua, l’accesso a tutti i posti, l’apertura del settore pubblico e così via. Se a questo livello si fosse prestata maggiore attenzione, ne avrebbe tratto giovamento anche alla proposta di una cittadinanza agevolata ai minori stranieri.
Sull’approvazione di questa modifica, dal forte impatto sociale influisce indubbiamente l’atteggiamento degli italiani. Tra di essi si sarebbe creata una maggiore apertura al cambiamento se avessero avuto modo di conoscere e apprezzare i loro genitori: maturata l’apertura agli adulti, sarebbe stata spianata la disponibilità alle seconde generazioni. Serve, quindi, una visione d’insieme, che è mancata e ha frenato il processo riformatore.
Ricorso alla mediazione e a un approccio “bipartisan”
Nell’attuale fase i politici e l’opinione pubblica sono presi maggiormente dal dibattito sugli sbarchi e sull’asilo politico, si è persa, come prima lamentato, l’abitudine di parlare dell’integrazione, sia degli immigrati che dei loro figli. Dal punto di vista legislativo-politico desta una forte impressione l’incapacità di mediazione tra centro-destra e centro-sinistra. Anche in queste ultime fasi della vita politica italiana, in cui i contrasti tra i due schieramenti sono risultati accentuati (e continuando a essere tali) per principio si deve credere che i moderati più aperti e i riformisti più equilibrati siano le ali in grado di favorire una soluzione più soddisfacente: una mediazione deve considerarsi accettabile dai due schieramenti e, anche se non la più perfetta secondo i rispettivi punti, costituisce un passo in avanti reale. La pratica della mediazione ha fatto sì, ad esempio, che la politica multiculturale, introdotta in Canada dagli anni ’70, non sia mai più stata messa in discussione nonostante l’alternanza degli schieramenti al governo. Significativi sono anche i casi della Svizzera e della Germania che, dopo un lungo periodo imperniato sulla temporaneità del soggiorno degli immigrati, hanno avviato un deciso percorso d’integrazione e, per concordarne le sue regole, hanno utilizzato il tempo necessario per pervenire a un approccio “bipartisan” destinato a permanere, assicurando tutti i vantaggi propri della continuità. Questi ultimi esempi portano a chiedersi che cosa si debba pensare del caso italiano confrontato con gli altri Paesi dell’Unione Europea.
In Italia, da una parte i requisiti previsti sono tra i più rigidi e, dall’altra, le politiche per l’integrazione sono meno soddisfacenti. I diversi rilievi critici qui proposti non devono, comunque, allontanare dal proposito di riuscire a far approvare una soddisfacente riforma della legge sulla cittadinanza, ma devono portare solo a convincersi che va cambiato il modo di procedere.
Ancora oggi la riforma è possibile, anche se le condizioni sono più difficoltose rispetto al passato e si rimane sotto la psicosi degli sbarchi, un problema sul quale è auspicabile che intervenga l’Unione Europea, con il suo peso politico, per regolare i rapporti tra gli Stati membri e quelli con i Paesi di origine. Bisogna poi insistere a livello nazionale, perché i problemi dell’integrazione degli immigrati adulti e delle seconde generazioni, sono obiettivi di fondamentale importanza per il Paese e non solo per uno schieramento politico. I minori immigrati, che con minori italiani rappresentano il futuro dell’Italia, meritano questo sforzo comune interpartitico. In precedenza, prima che intervenisse la riforma del 1992, passarono ben 80 anni!: si può anche dire che non si è in ritardo, ma che non bisogna più indugiare.
La cittadinanza italiana, acquisita con consapevolezza da chi è originario di altri Paesi, ci dovrebbe riempire d’orgoglio e di speranza. I demografi hanno spiegato che l’Italia avrà bisogno degli immigrati per rimediare in qualche modo alla diminuzione e all’invecchiamento della popolazione, già in atto di diversi anni. Con una normativa aperta sulla cittadinanza e un maggiore impegno sull’integrazione, si potrà forse essere un po’ più ottimisti sul futuro dell’Italia.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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Franco Pittau, dottore in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ’70, quando è stato anche impegnato sul campo in Belgio e in Germania. Ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario del genere realizzato in Italia). Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Intercultura presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specializzate su emigrazione e immigrazione.
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