il centro in periferia
di Salvatore Colazzo [*]
Nel Salento, prima che arrivasse la pandemia da Covid-19 s’abbatté un grande segno premonitore: la pandemia da Xylella che colpì (e continua a colpire) gli alberi d’ulivo segnalando quanto i tempi fossero guasti. Il fenomeno del disseccamento rapido degli olivi in provincia di Lecce apparve evidente nel 2013. Cominciò nella zona delle campagne prossime a Gallipoli: dapprima qualche albero manifestò segni di sofferenza, le punte delle cime più estreme cominciarono a ingiallirsi, poi quel sentore di morte si diffuse progressivamente per tutta la pianta fino a farla diventare un inerte troncone. E il morbo prese gli alberi accanto e poi quelli accanto ancora, con progressione geometrica, finché il verde e l’argenteo degli oliveti di alberi secolari, orgoglio di una terra che nell’olivo ha un segno identitario fortissimo, si tramutò in un cinerino triste, funereo, che invase l’intero Salento.
I contadini erano attoniti, le loro piante, che puntualmente avevano dato i loro frutti, alcuni anni più generosamente, altri meno, li abbandonavano. Oliveti ricevuti in eredità da genitori orgogliosi di lasciare in dote ai loro figli la preziosità d’una pianta in grado di fornire con costanza un alimento preziosissimo e amatissimo: condimento ideale e componente di tanti piatti della cucina povera salentina, in realtà ricca e resa saporita dalla sua immancabile presenza, stavano perendo sotto i loro occhi.
Una croce d’olio nei periodi bui della guerra aveva reso appetibili le decine e decine di erbe spontanee preparate come misticanza, che venivano regolarmente raccolte per sfamare, con l’accompagnamento di un tozzo di pane, intere famiglie, altrimenti destinate all’inedia. Ci voleva una sapienza per combinare in ponderate percentuali le piante da cuocere assieme: vi era da equilibrare il sapore dolce di talune con l’amarognolo o il piccante di talaltre. Il tocco finale era l’olio crudo. Se erano in abbondanza, la sera o il giorno dopo le si ripassava in olio con un po’ d’aglio (cfr. Accogli & Medagli 2014: 9-10).
Si comprende, da ciò, l’investimento simbolico delle comunità salentine sull’olivo e l’olio, peraltro fondamentali da tempi antichi per le loro economie. La Puglia esportava olio già a partire dal XIII-XV secolo: navi colme di olio partivano da Bari, Barletta, Brindisi, Otranto, Ma ben presto il porto più importante divenne Gallipoli, da cui si esportavano ingenti quantitativi di olio, prodotto soprattutto nel Capo di Leuca, in direzione di Venezia, Genova, la Dalmazia, Bisanzio e poi Trieste e Marsiglia (il più importante centro mondiale di produzione del sapone) e, in epoca più recente (nel Settecento), i porti del Mare del Nord e del Baltico. Per lungo tempo l’olio prodotto nel Regno di Napoli costituì, com’ebbe a dire Giuseppe Palmieri (1721-1793), grande economista rappresentante dell’Illuminismo napoletano, membro del Supremo Consiglio delle Finanze, la gran parte della ricchezza nazionale (Durante 2005).
Vincenzo Ciardo (1894-1970), a cui io e il mio gruppo di ricerca abbiamo dedicato un lavoro di indagine (Manfreda 2019), un pittore paesaggista di buon talento ed eccellente mestiere, tanto dall’aver insegnato all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, dove arrivò anche a ricoprire il ruolo di direttore, non solo ritrasse mirabilmente e ripetutamente olivi e oliveti, ma ne offrì la motivazione: essere nato nell’estremo Salento – scriveva – significa aver percepito «la straordinaria luminosità del cielo, il malinconico silenzio delle campagne deserte, le pianeggianti distese di ulivi secolari, il grigio delle sassaie affioranti nel rosso terreno dei campi» e quindi il volerle «scoprire e rivelare in termini di valida pittura» (Ciardo 1990: 136). Magari cogliendo le straordinarie potenzialità per il pittore dell’«incanto di un plenilunio estivo», «con quegli ulivi che si stagliano solenni contro il cielo stellato» (Ciardo 1990: 139).
Verificata la portata del fenomeno, si cercò di capire a cosa fosse dovuto: si attivarono l’Osservatorio fitosanitario della Regione Puglia, il Dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti dell’Università di Bari e l’Unità di virologia vegetale del CNR. Nacquero, come sempre succede in casi come questi – lo abbiamo verificato anche per il Covid-19 –, tesi complottiste: diffusione volontaria d’un qualche patogeno per sostituire la coltivazione degli oliveti da parte dei tradizionali piccoli produttori con processi intensivi grazie all’impianto di alberi resistenti al batterio. L’opinione pubblica si divise in fazioni, appoggiandosi ad evidenze scientifiche o semplicemente a credenze. Ad un certo punto interverrà anche la Magistratura, ma di questo faremo cenno più avanti. Gli studi comunque sembrarono convergere nel riconoscere l’azione di un batterio, Xylella fastidiosa, veicolato da alcuni insetti (i cosiddetti vettori, tra questi la sputacchina). Una buona ricostruzione di ciò che successe tra il 2013 e il 2016 ci è stata offerta dall’Accademia dei Lincei ed è facilmente reperibile in rete (Accademia dei Lincei 2016). Approfondimenti ulteriori hanno portato gli studiosi a parlare di una sorta di sindrome, si tratta del Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo (CoDiRO), nel senso che, pur riconoscendo al batterio gram-negativo Xylella fastidiosa un ruolo rilevante, si è messo in luce il concorso di ulteriori agenti, come quelli rappresentati, ad esempio, da alcune specie fungine e altri parassiti, ect. (Bugiani sd)
La strategia di contenimento individuata è stata l’abbattimento degli alberi infetti, la creazione di zone di sicurezza, l’effettuazione di interventi fitosanitari per il controllo dei vettori e sulle piante ospiti. Tuttavia, la società civile, attraverso una serie di organizzazioni ambientaliste, si oppose fermamente a misure così drastiche, tanto da sollecitare l’intervento della Magistratura, trovando sponda nell’allora procuratore capo Cataldo Motta, il quale riteneva che la scelta dell’eradicazione fosse avvenuta su una base conoscitiva incompleta del problema. Sollecitava ulteriore confronto scientifico, contestando ai responsabili della gestione del problema una serie di reati, come diffusione colposa della malattia delle piante, falso ideologico e materiale in atto pubblico, inquinamento ambientale e deturpamento delle bellezze naturali (Spagnolo 2015).
Il dibattito che ne è scaturito è stato utile poiché ha fatto emergere una serie di significative considerazioni. Ad esempio, ha fatto scaturire una considerazione di questo tipo: oggi il Salento trova nell’olivo un elemento identitario irrinunciabile, ma forse ci si dimentica che si tratta di una vera e propria monocoltura. In passato il paesaggio salentino era piuttosto differente. Oggi appare quasi del tutto privo di boschi e quei pochi che ci sono appaiono fortemente intrecciati col paesaggio agricolo. In realtà. in passato le superfici boschive erano ben estese e articolate ospitando una grande varietà di alberi, arbusti di vario tipo e natura, funghi. Spiccava il Bosco Belvedere che ancora nel Settecento si estendeva per un perimetro di venti miglia; una mappa del 1808 rappresenta il Bosco Belvedere come una foresta plurimillenaria di 7.000 ettari suddivisa fra 16 comuni a metà strada fra lo Ionio e l’Adriatico; e il litorale adriatico da Otranto a Brindisi aveva dei boschi di larghezza di circa 5 km (Mainardi 1989).
Tutto cambia a partire da fine Ottocento-inizi Novecento: si verificano lavori di disboscamento che erodono le fasce boschive costiere e riducono gli altri boschi a residui insignificanti. Come si può leggere in un articolo di Luigi Melissano, «l’eccessivo carico antropico sulla risorsa bosco, per il prelievo di legno, la caccia di frodo e il pascolo abusivo, l’industria del carbone, la fame di terra finirono per creare grandi plaghe malariche sulle coste, ma anche all’interno una pericolosa perdita di suoli per erosione idrica e eolica» (Melissano 2005: 32).
E qui siamo alla sostituzione (almeno in parte) dei boschi con gli oliveti, siamo ad un paesaggio agrario in cui l’olivo diventa l’elemento sovrano, si erge – così diceva il poeta Comi (1890-1968), che fonda la rivista “L’Albero” scegliendo come logo un olivo –, come “deità casalinga del Salento”. Con una grande perdita di biodiversità. Però le selve di olivi ad un certo punto si rivelano fragili e cominciano a disseccarsi e morire [1]. Ci si interroga, ci si chiede, si comincia un lavoro di riflessione, emerge la cattiva coscienza.
Durante i decenni passati, nel Salento, si è fatto un largo uso di fitofarmaci, poiché spesso gli oliveti ricevuti in eredità dai genitori contadini, sono andati nelle mani di figli, che sistemati nella pubblica amministrazione, hanno condotto quei fondi con superficialità: non avendo il tempo, la voglia o la cultura per adottare le antiche pratiche agrotecniche, hanno preso la scorciatoia della chimica. D’altro canto, l’Accademia dei Lincei ha sottolineato quest’aspetto: «Le cattive pratiche agrotecniche, come errori di potatura o potature troppo radicali, delle lavorazioni, dei trattamenti, degli erbicidi e in particolare l’uso del glifosate – un erbicida – predispongono la pianta alla malattia, se addirittura non la fanno ammalare. Contaminazioni da polveri industriali, da cemento, da concimi ottenuti dalle ceneri e l’eccesso d’uso dell’acqua di falde inquinate, renderebbero, inoltre, meno efficaci le agrotecniche in uso» (Accademia dei Lincei 2016).
Il problema della Xylella può dunque essere visto da una prospettiva sistemica. L’abbandono di alcune pratiche agronomiche basilari (lavorazione del terreno, potature, gestione delle malattie fungine), sostituite dal ricorso a fitofarmaci capaci di incidere in modo rovinoso sull’ecosistema del suolo, rendono estremamente più vulnerabili le piante esponendole all’insulto della Xylella. Risultato: la desertificazione del suolo. La rottura dei delicati equilibri ecosistemi, la prevalenza di alcuni batteri su altri. Il riduzionismo della chimica applicata all’agricoltura ha compiuto un abbattimento della complessità della vita, con gravi conseguenze sulla salute umana: aumenti di tumori al colon, tiroiditi e altre malattie endocrine, incremento delle malattie infiammatorie e autoimmuni.
Il suolo è un organismo vivente complesso e dinamico, costituisce un’importante riserva di biodiversità. Centinaia e centinaia di esseri viventi organizzati in microhabitat convivono e interagiscono fra loro formando il cosiddetto “bioma del suolo”. Tali interazioni sono essenziali poiché a loro volta forniscono servizi ecosistemici alle piante e, attraverso queste, a tutti i viventi. Suoli sani sono d’importanza cruciale per il sano mantenimento della vegetazione (Russell 2019). Alterare l’equilibrio del bioma del suolo significa alterare il più ampio ecosistema, di cui fa parte pure l’uomo. La riduzione della biodiversità del suolo comporta pure la riduzione della biodiversità del bioma intestinale, sia per l’azione degli agenti chimici che passano nel cibo sia per la riduzione della possibilità di entrare in contatto con il vivente che costituisce il bioma del suolo.
Un’alterazione del biota intestinale umano comporta alterazioni a livello dei grandi sistemi del corpo umano: immunitario, endocrino e neurologico. Il nostro intestino è abitato da un numero elevatissimo di batteri, lieviti, parassiti e virus. Essi svolgono importanti funzioni che interagiscono con il network dei sistemi endocrino, neurologico, immunitario, contribuendo a determinare lo stato di salute del soggetto, sia fisica sia psichica. Quando le comunità che costituiscono il microbiota vivono in equilibrio vi è una condizione di eubiosi; quando l’equilibrio si rompe, si creano scompensi più o meno gravi, con conseguenze sullo stato complessivo di salute del soggetto. Oggi si attribuisce una grande importanza al mantenimento del microbiota in stato di eubiosi, ma soprattutto si comincia a comprendere come fare per mantenerlo in tale stato o ripristinarlo quando venga compromesso (MyNewGut 2013-2018).
Suoli sani, cibi sani, bioma intestinale sano assicurano benessere, salute e lunga vita. Sulla base di queste premesse, mi viene spontaneo chiedermi: che fare di fronte al disastro del disseccamento degli olivi. La linea scelta a livello regionale, per cui si incentiva il reimpianto, sostituendo le varietà locali con altre ritenute più resistenti al patogeno, è proprio la scelta più oculata? In genere il reimpianto avviene ricorrendo alla Fs-17, nota come “favolosa”. La quale ha bisogno di una notevole quantità di acqua per essere portata a frutto e dare una buona resa.
Quello che una volta era detto il siccitoso Salento, in realtà poggia su una piattaforma di acqua, in ragione della singolare geomorfologia del territorio. Da quando lo si è compreso, si è verificato un ipersfruttamento della falda acquifera sotterranea, tanto che nei posti più prossimi alla costa i pozzi artesiani sono divenuti inutilizzabili, pescando ormai acqua salata. L’impianto della Fs-17 porterà ad ulteriore emungimento della falda acquifera, con aggravamento dei problemi già in essere.
Credo, dunque, che la preoccupazione sia legittima: come far diventare la Xylella, con le sue conseguenze, un’opportunità. Vi sono associazioni che puntano a liberarsi dalla monocoltura dell’ulivo: bisogna piantare querce, frassini, aceri, alberi da frutta (recuperando le antiche varietà): probabilmente anche gli ulivi consociati con queste essenze trarrebbero benefici. Ma soprattutto passare a un’agricoltura che, bandendo i diserbanti, si proponga di ricostituire un ecosistema sano e un suolo fertile. Si tratta di tentare di ricreare ciò che un secolo fa era la norma: coesistenza di specie boschive, frutteti e macchia mediterranea. Oggi abbiamo anche le opportunità che ci vengono dall’Agricoltura 4.0, un’agricoltura di precisione, basata sulla raccolta di dati, che consentono sulla base delle caratteristiche fisiche e biochimiche del suolo, di ottenere prodotti di altissima qualità secondo rigorosi criteri di sostenibilità, grazie all’utilizzo di tecnologie elettroniche, di droni, ecc.
Su questi temi si innesta la possibilità di un impegno civico volto ad affermare la necessità di reintrodurre quelle piante e specie arboree autoctone che negli ultimi 150 anni sono state eliminate per dare spazio alla monocoltura dell’ulivo. L’ampliamento degli uliveti in Salento, arrivati a contare complessivamente 22 milioni di piante, è avvenuto a spese dei boschi e dei pascoli, ma anche di alcune cultivar tradizionali, come mandorlo, fico e vite.
Tanta concentrazione di uliveti, contigui l’uno all’altro, ha reso probabilmente più vulnerabile il territorio all’azione del batterio, consentendo un rapido propagarsi del patogeno. E dunque va fatta un’ampia azione educativa, va fatta comprendere l’importanza della biodiversità che preserva e nutre il suolo, la indispensabilità del bosco, che un tempo – ce ne siamo dimenticati – caratterizzava il paesaggio salentino, fino ad ospitare qualche banda di briganti, mentre oggi ci appare come qualcosa di esotico, di estraneo alla nostra cultura.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
[*] L’articolo riproduce il testo della relazione tenuta al Convegno organizzato dalla Asl di Frosinone, nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile ASVIS 2021, dal titolo “Rigenerare il desiderio di salute di comunità” (6 ottobre 2021).
Note
[1] Ci piace illustrare quest’articolo con due video: il primo è una Cartolina Sonora di Luigi Mengoli, un sound artist, il quale, all’interno di un progetto di acustemologia, che vuole proporre il suono come strumento di conoscenza ed approfondimento della realtà, ha voluto dedicare un’intensa riflessione estetica alla pandemia degli olivi. Per accedere al video: https://www.youtube.com/watch?v=GSW10-wengc. Il secondo video utilizza alcune immagini dal progetto “Idrusa formare lo sguardo”, i cui esiti sono parzialmente rifluiti nel testo curato da Ada Manfreda, Formare lo sguardo. Valorizzazione del paesaggio e sviluppo del territorio. IDRUSA: un progetto di ricerca, Pensa MultiMedia, Lecce 2019. Il volume è uno degli output del progetto di ricerca denominato ‘IDRUSA’, condotto tra il 2017 e il 2019, volto a ricostruire l’oggetto culturale ‘paesaggio’ dell’area del Salento sud-orientale, a partire dallo sguardo di tre artisti, Paolo Emilio Stasi, Giuseppe Casciaro e Vincenzo Ciardo, che hanno intessuto un fitto dialogo con questa terra, ritraendone molti suoi scorci tra la fine dell’ottocento e la metà del novecento del secolo scorso.
Riferimenti bibliografici
Accademia dei Lincei (2016), Rapporto Xylella, all’indirizzo:
https://www.lincei.it/sites/default/files/documenti/Articles/Rapporto_xylella_20160622.pdf
Accogli R. & Medagli P. (2014), Erbe spontanee salentine, Grifo, Lecce.
Bugiani (sd), Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo, Servizio Fitosanitario della Regione Emilia Romagna, all’indirizzo:
https://www.fitosanitario.pr.it/files/9614/8231/1219/Complesso_del_Disseccamento_Rapido_dellOlivo.pdf
Ciardo V. (1990), Il mio paesaggio, Capone, Cavallino di Lecce.
Durante R. (2005), L’oro del Salento. Per una storia sociale dell’olio d’oliva in Terra d’Otranto dalle origini alla Dop, Besa, Nardò.
Mainardi M. (1989), a cura di, I boschi nel Salento: spazi e storia, Garofano Verde, Lecce.
Manfreda A., a cura di, (2019), Formare lo sguardo. Valorizzazione del paesaggio e sviluppo del territorio. “Idrusa”: un progetto di ricerca, Pensa Multimedia, Lecce.
Melissano L. (2005), Il Salento, “Alberi e Territorio”, n. 12, Speciale Puglia: 29-32.
Mengoli L. (2021), Tabula rasa, “Cartoline sonore”, https://www.youtube.com/watch?v=GSW10-wengc&t=5s
MyNewGut (2013-2018), Il ruolo del microbio intestinale nella nostra salute e nel nostro benessere diventa sempre più chiaro, https://cordis.europa.eu/article/id/268013-the-role-of-our-gut-biome-in-our-health-and-wellbeing-keeps-unfolding/it
Spagnolo C. (2015), Xylella, il procuratore di Lecce accusa: “Europa ingannata, lucrano sull’emergenza”, “La Repubblica”, 19 dicembre.
Russell D. (2019), Il suolo: un tesoro vivente sotto i nostri piedi, in internet all’indirizzo: https://www.eea.europa.eu/it/segnali/segnali-2019/articoli/intervista-2013-il-suolo-un
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Salvatore Colazzo, professore ordinario di Pedagogia sperimentale all’Università del Salento, ove insegna oltre alle canoniche materie afferenti al settore, Pedagogia e didattica musicale al DAMS. Fino al 2000 è stato docente di ruolo di Storia della Musica per didattica al Conservatorio di Musica ‘N. Piccinni’ di Bari. Si occupa dei nessi interdisciplinari che legano la pedagogia a discipline quali la medicina, la storia, la geografia e l’antropologia. Ha svolto intensa attività giornalistica. Ultime pubblicazioni: (con F. Bearzi) New Web Quest. Apprendimento cooperativo, comunità creative di ricerca e complex learning nella scuola di oggi (con P. G. Ellerani) Service learning tra didattica e terza missione.
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