Cittadinanza e aree interne
Nonostante sia la quinta Regione italiana per PIL, il Piemonte ha sperimentato un lungo processo di spopolamento storico delle proprie aree montane, che comprendono più del 40% del suo territorio; una percentuale destinata a crescere se consideriamo anche quelle “montagne di mezzo” (Varotto 2020) che condividono così tanti aspetti con le vallate alpine di quota. Una delle più recenti iniziative per contrastare questo abbandono della montagna, favorendo un nuovo popolamento “per scelta”, è il bando per la promozione della residenzialità presentato il 1 settembre di quest’anno [1].
Partecipando ad esso è possibile ricevere contributi finanziari per trasferirsi nei Comuni montani del Piemonte, con una popolazione residente inferiore ai 5000 abitanti. Tuttavia, la Regione ha riservato il bando ai soli cittadini UE, escludendo dai beneficiari tutti quegli stranieri che già abitano in quei Comuni; una misura che contrasta di fatto la stabilizzazione di rifugiati e migranti economici nel proprio territorio, e che per questo ha attirato le critiche dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione).
Il caso della Regione Piemonte rinnova la domanda che ormai da un decennio antropologi, geografi e territorialisti si pongono con insistenza: a chi appartengono le montagne? (Varotto & Castiglioni 2012). Più in generale, cosa significa oggi essere cittadini in e di territori marginali(zzati)? Come cambia la cittadinanza quando si abitano quelle aree che, come la montagna, sono considerate “interne”? E infine, come riconoscere e valorizzare la presenza di quelle migliaia di persone straniere che vivono e lavorano in questi territori, e che come in Piemonte svolgono un’importante funzione di presidio?
Il tema delle aree interne vanta ormai una ricca letteratura scientifica e centinaia di casi studio [2] (De Rossi 2018; Teti 2017), su cui probabilmente qui è superfluo tornare salvo per rilevare aspetti precipui. Anzitutto, la definizione e l’individuazione delle aree interne si basa sul criterio di “perifericità” (Barbero 2015: 36-39), ossia sulla distanza progressiva dai grandi centri urbani della Penisola. Più della metà dei Comuni italiani (53%) rientra in questa condizione di perifericità, che riguarda gli stessi abitanti di queste terre, il 23% della popolazione nazionale. La presenza di residenti stranieri introduce un ulteriore elemento di complessità nelle politiche territoriali dedicate a queste aree (Bergamasco, Membretti & Molinari 2021; Russo Kraus & Matarazzo 2020; Corrado & D’Agostino 2016; Osti & Venturi 2012), ma è altresì fondamentale ricordare che:
«Da un punto di vista demografico, l’insediarsi dei migranti stranieri rappresenta il principale fattore di contrasto allo spopolamento, al calo del tasso di natalità e all’aumento dell’età media nelle terre alte, con un impatto ben più rilevante in termini numerici rispetto al fenomeno dei “nuovi montanari” [...]. Il loro contributo alle economie montane ha inoltre spesso permesso la sopravvivenza, e in alcuni casi anche la crescita, di interi sistemi produttivi, [...] ma anche il mantenimento in loco di servizi che altrimenti sarebbero stati chiusi o drasticamente ridimensionati per mancanza di utenti» (Bergamasco, Membretti & Molinari 2021: 69).
A dispetto del decremento demografico e del lento spopolamento delle aree interne, in particolare quelle montane, ciò ha fatto sì che «over the past fifteenth years or so the population at large has begun to grow, at first along the axes of the Aosta and Adige valleys, in peri-urban municipalities closer to the plain, in the main ski centers, but also in some ‘inner areas’» (Membretti & Viazzo 2017: 2). Questo trend non riguarda solo le vallate alpine, bensì anche le regioni appenniniche e del Meridione, come dimostrano ricerche mirate su Calabria e Campania (Russo Kraus & Matarazzo 2020; Corrado & D’Agostino 2016). I fenomeni di ripopolamento delle aree interne chiamano in causa complessi processi economici e sociali, in cui la questione della cittadinanza assume un ruolo cruciale. L’arrivo di neo-montanari nella comunità non si limita mai a un’integrazione passiva, ad una mera presa d’atto da parte dei residenti, bensì innesca un momento di ri-articolazione comunitario che può essere occasione di tensioni, scontri e trasformazioni; più in generale, il ripopolamento delle aree interne obbliga abitanti e ricercatori a riflettere sul senso di “essere comunità” e di “essere cittadini”. Come osserva giustamente Filippo Barbera, abitare un territorio non significa necessariamente essere cittadino di quel territorio, e viceversa (Barbera 2015).
Roberta Zanini utilizza la metafora dell’approfittare del vuoto per descrivere le opportunità insite negli spazi lasciati dallo spopolamento delle aree interne, come occasioni di recupero, reinvenzione e creatività culturale (Zanini 2017: 77-78). Proprio per l’estrema variabilità di condizioni e situazioni dei territori, questi nuovi abitanti non possono essere considerati a priori come una risorsa o una minaccia. Ciò rende ancora più importante considerare i fenomeni di neo-popolamento ragionando rispetto al contesto locale, secondo una logica place-based (Membretti & Viazzo 2017: 6; Barbera 2015: 36-37), che ritroviamo in nuce anche in strumenti più istituzionali come la SNAI (vedi oltre).
Ai migranti economici, che già da decenni sono presenti nelle aree interne italiane come parte integrante di certe filiere produttive o attività industriali, si sono aggiunti più recentemente i cosiddetti “montanari per forza”, che abitano il territorio in modo più o meno stabile a seconda del loro cambiamento di status giuridico (Dematteis & Membretti 2017: 59; Dematteis, Di Gioia & Membretti 2018). Se finora questi flussi migratori hanno riguardato principalmente persone fuggite da contesti di guerra, devastazione o altre condizioni disastrose, nel prossimo futuro diventerà cruciale la questione dei migranti ambientali. Va da sé che, a differenza dei “classici” migranti economici, questi nuovi abitatori forzati non sono immediatamente inquadrabili nel settore turistico e dei servizi, su cui molte comunità basano la propria economia. In questo senso Dematteis e Membretti hanno ragione nel sottolineare la problematicità di integrare l’economia turistica con un’economia dell’accoglienza per rifugiati (Dematteis & Membretti 2017: 60).
Certo, non mancano gli esempi di “buone pratiche” con ricadute positive sul turismo locale, come i casi di Pettinengo (Alpi biellesi) e Chiusa di Pesio (Alpi Marittime) analizzate dai due studiosi. Rimane però un problema di fondo, ossia rendere questi residenti temporanei dei cittadini permanenti. In fin dei conti, turisti, migranti economici e rifugiati sono casi diversi di abitanti della montagna accomunati dal vincolo della stagionalità, ovvero di una permanenza temporanea dettata di volta in volta dai tempi della natura, del lavoro o dai tempi degli iter giudiziari e legislativi.
Un esito interessante del ripopolamento nelle aree interne è la formazione di cosiddetti “spazi di etnicizzazione”; la creazione, in altre parole, di sotto-gruppi comunitari con una forte connotazione identitaria legati a particolari attività economiche o sociali. Membretti e Viazzo elencano ad esempio la comunità cinese nella Val Pellice, quella romena nella “valle olimpica” di Torino o il gruppo macedone nella Val di Cembra legato all’estrazione del porfido (Membretti & Viazzo 2017: 7); tutti esempi di come i migranti stranieri riescano ad “approfittare dei vuoti” grazie alla creazione di reti famigliari e di solidarietà sociale. Le resistenze a questi processi non provengono necessariamente da “chiusure” da parte delle comunità locali, ma possono assumere forme più istituzionali, come nel caso della Regione Piemonte.
Di converso, già a partire dal Novecento il panorama italiano è stato caratterizzato da una profonda riflessione sulle modalità, vecchie e nuove, di abitare le aree interne, nel difficile tentativo di coniugare il diritto alla cittadinanza con le specificità dei territori. Uno dei primi e più importanti documenti di questo genere è la Dichiarazione di Chivasso, redatta come il più famoso Manifesto di Ventotene durante la Seconda guerra mondiale. Quel «noi che nel documento è riferito alle popolazioni delle vallate alpine è in realtà espressione di una schiera di intellettuali che intendeva costruire una nuova alleanza tra popolazioni di montagna e amministrazioni politiche centrali» (Varotto 2020: 163). Al netto del mutato clima storico, la medesima progettualità si ritrova nel Manifesto di Camaldoli per una nuova centralità della montagna, risultato di un Convegno promosso dalla Società dei Territorialisti nel 2019. I punti centrali del Manifesto di Camaldoli (2-3-4) pongono molta attenzione al fenomeno del neo-popolamento delle aree montane, indifferentemente dal fatto che riguardino “restanti”, “ritornanti” e “nuovi abitanti”:
«Negli ultimi tempi un “ritorno alla montagna” è stato praticato, tra molte difficoltà, da giovani nativi, da “ritornanti” e da “nuovi montanari” per scelta. Non si tratta di grandi numeri, ma sufficienti a evidenziarla come un’alternativa praticabile e soddisfacente, che aiuterebbe i “margini” a farsi “centro” se fosse sostenuta da politiche pubbliche adeguate [...] Nuovi modelli di vita, di socialità e di compresenza culturale richiedono un’alleanza fra anziani restanti, depositari di saperi contestuali, e “nuovi montanari” innovativi [...]. Per uscire dalla sua fase “eroica”, la tendenza a riabitare la montagna richiede politiche innovative a sostegno sia di chi già vi abita e vi lavora, sia delle famiglie e delle imprese che intendono trasferirvisi per ri-attivare in modo sostenibile gli spazi dell’abbandono. In ogni caso il neo-popolamento dovrà puntare alla qualità dei rapporti e all’intensità relazionale e non ad accrescere senza limiti il numero degli abitanti»[3].
In generale, le strategie governative verso le aree interne comprendono tre linee di intervento: la tutela del territorio e la sicurezza degli abitanti; la promozione della diversità naturale e culturale; il rilancio dello sviluppo locale attraverso l’uso di risorse mal impiegate (Barbera 2015: 36). Presupposto di tutto ciò è la partecipazione attiva e consapevole dei cittadini, anche per evitare di ricadere in modalità meramente assistenzialiste. Per quanto riguarda l’Italia, lo strumento di politica territoriale più conosciuto è senza dubbio la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) [4], entrata a far parte dell’Accordo di Partenariato 2014-2020 come articolazione specifica della strategia di sviluppo.
Nel programma della SNAI il tema della cittadinanza ritorna frequentemente, legato a quello dell’accesso a servizi fondamentali come condizioni necessarie – ma non sufficienti – per garantire l’abitabilità di queste aree. In generale possiamo dire che l’approccio della SNAI si basa innanzitutto su interventi tesi a garantire il pieno esercizio della cittadinanza, assicurando cioè quelle condizioni senza le quali questo diritto rimane solo astratto. Non basta essere cittadini nelle aree interne: anche i turisti, i lavoratori pendolari e i migranti economici lo sono. La SNAI punta a sostenere la persistenza di cittadini delle aree interne, senza che questo porti alla creazione di cittadinanza differenziate o di “serie b”.
In questo senso, è utile un confronto con il più recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza [5]; anzitutto, con il decreto-legge 6 maggio 2021 n.59, il Governo ha stanziato circa 30 miliardi di euro come Fondo complementare al PNRR per il periodo 2021-2026. Tra questi fondi extra trovano posto anche 300 milioni destinati alla SNAI, dedicati in particolare al miglioramento delle infrastrutture stradali e al dissesto idrogeologico. Come specificato nel Piano stesso «il contributo del PNRR alla Strategia Nazionale per le Aree Interne sarà complementare a un’azione più ampia e organica che, coinvolgendo le risorse del FSC, mobiliterà € 2,1 miliardi nei prossimi 5 anni». Tuttavia non c’è mai alcun accenno all’immigrazione (nazionale o internazionale) come tema legato alle aree interne; anzi, non c’è praticamente nessun accenno a qualunque fenomeno migratorio tout court. Scorrendo il documento, l’unica “migrazione” considerata effettivamente dal PNRR è quella “verso il cloud”, ossia la transizione della pubblica amministrazione al digitale.
Anche per quanto riguarda la questione della cittadinanza, nel documento emerge la volontà di ridurre il divario (digitale, economico, sociale) tra certi gruppi di cittadini, ma non di costruire percorsi di cittadinanza e formare nuovi cittadini. Tutto ciò palesa l’atteggiamento fortemente conservativo – anche se non proprio conservatore – del PNRR sotto l’aspetto della cittadinanza. Esso propone in sostanza un riequilibrio di forze interne, dove nell’afflusso previsto di denaro, mezzi e competenze estere manca però l’elemento umano.
Nonostante queste palesi mancanze sul piano istituzionale non mancano le iniziative e i progetti nell’ambito della società civile e dei singoli territori: dal Nord al Sud, nelle aree interne italiane prendono forma veri “cantieri sociali” in cui sperimentare nuovi modelli di integrazione e valorizzazione. Nelle pagine che seguono cercheremo di capire come in due diverse forme di “essere comunità” sia possibile “fare cittadinanza”. Si tratta di casi molto distanti fra loro: da una parte la persistenza di istituti regolieri d’origine medievale, in cui la cittadinanza si sovrappone – non senza tensioni – con diritti più antichi legati al patrimonio comune; dall’altra l’affermarsi delle cooperative di comunità, imprese che hanno come scopo primario il sostegno alle comunità locali, garantendo servizi essenziali e ricostituendo un tessuto sociale altrimenti fragile o in dissoluzione.
Vecchie Regole, nuove cooperative
Le vicinie sono senza dubbio una delle forme comunitarie più longeve esistenti in Italia. Le ritroviamo sotto forme molteplici, distribuite in tutte le aree interne del nostro Paese: le comunalie appenniniche (Mortali & Mortali 2012), le partecipanze agrarie della pianura padano-emiliana (Fregni 1992), le Regole alpine (Giacomoni 1991). Queste ultime sono particolarmente interessanti sia per la loro antichità sia per il forte legame tra istituzioni sociali, diritti d’uso e gestione comunitaria del territorio. Le vallate alpine sono state considerate a lungo come un luogo chiuso, simbolo del conservatorismo e di un modello di vita basato sulla sussistenza. Al contrario, l’antropologia alpina ha mostrato da tempo come queste comunità fossero talvolta prosperose, in grado di creare traffici commerciali e dialogare con i poteri centrali (Membretti & Viazzo 2017). Al tempo stesso l’immigrazione da altre regioni – e non solo da comunità di lingua italiana – ha giocato un ruolo chiave nella formazione del tessuto sociale locale almeno fino al XV-XVI secolo d.C. La Magnifica Comunità di Fiemme possiede ad esempio una triplice “anima”, in quanto alla maggioranza degli abitanti trentini di lingua italiana si aggiungono i membri della minoranza ladina della Val di Fassa e gli abitanti alto-atesini di Trodena. Tuttavia, anche in questa valle dal Seicento in poi assistiamo ad una generale chiusura nel tentativo di limitare l’accesso al patrimonio comunitario.
Se è vero che il ruolo potenziale giocato dai nuovi abitanti dipende in misura stretta dalle configurazioni socio-politiche locali e dai vincoli che esse pongono al modo di vivere la cittadinanza (Fassio et al. 2014; Zanini 2017: 79), allora le Regole alpine costituiscono uno dei casi più interessanti, visto che sovente conservano un insieme distinto di diritti e privilegi inaccessibile ai “normali” cittadini. Come nel caso della Comunanza Regoliera d’Ampezzo o della Magnifica Comunità di Fiemme, il diritto di cittadinanza è stato sovra-imposto ai più antichi diritti di consorteria e vicinanza durante l’Ottocento, con le riforme napoleoniche e la nascita degli Stati moderni.
Nella Regola di Ampezzo lo stato di consorte regoliero è acquisito tramite eredità familiare oppure concesso dall’Assemblea generale per motivi «di tempo, di modo, di contributi in denaro o lavoro, da stabilirsi caso per caso in forza di apposita deliberazione»[6]. Non sono fissati espressamente limiti legati alla cittadinanza. Al contrario, fino agli anni Novanta la vicinanza di Fiemme era un diritto riservato ai soli abitanti figli di vicini da parte di padre, e solo nel 1993 il nuovo Regolamento ha istituito la possibilità di acquisire la vicinanza per tutti gli abitanti che siano cittadini italiani da almeno 20 anni. Nella stessa valle troviamo altre due vicinie minori, che al contrario della Magnifica Comunità mantengono una ferrea distinzione tra appartenenza specifica e cittadinanza: il Feudo Rucadin e la Regola Feudale di Predazzo, entrambe riservate ai membri maschili di un ridotto numero di famiglie rispettivamente di Castello-Molina e di Predazzo. Tuttavia è significativo che anche nel successivo e più recente Regolamento la soglia sia stata alzata a 25 anni, un segnale di inversione di rotta che i rappresentanti della Magnifica Comunità motivano con lo scarso interesse e coinvolgimento dei “nuovi vicini”, e sostenendo inoltre che il patrimonio comunitario potrebbe “perdere di valore” con un aumento eccessivo di persone che ne possono usufruire.
Tuttavia, se consideriamo questo patrimonio non più (o non solo) come un bene commerciale ma come un bene da tutelare, allora l’aumento dei vicini potrebbe tradursi in forme più efficaci di responsabilità collettiva. Resta il fatto che dal cambio di Regolamento solo poche decine di residenti hanno scelto di diventare vicini. Nel 2012 per la prima volta è stato dato il diritto di vicinanza a un medico d’origine giordana, già cittadino italiano da diversi anni; un caso eccezionale – e lo conferma l’eco mediatica riguardante l’evento – a fronte di una presenza marginale di residenti stranieri senza cittadinanza [7]. Una piccola percentuale di questi abitanti, che comprende per lo più cittadini dell’est Europa, lavora nella filiera del legno alle dipendenze di ditte private e consorzi.
È presto per dire se questa presenza di taglialegna est-europei in Val di Fiemme rappresenti un nuovo “spazio di etnicizzazione” come nel vicino caso di Cembra per l’industria del porfido. Tuttavia, eventi recenti hanno mostrato una particolare forma di integrazione simbolica di questi abitanti, avvenuta purtroppo dopo la loro morte; ci riferiamo agli incidenti mortali di due boscaioli romeni, a pochi mesi di distanza tra loro, mentre lavoravano tra gli schianti della tempesta Vaia. I loro nomi sono stati riportati nelle lastre commemorative presso il santuario della Madonna del boscaiolo, un fatto del tutto inedito visto che fino ad oggi gli unici “estranei” presenti erano boscaioli provenienti da Comuni limitrofi. Per i due taglialegna è stata aggiunta una sezione apposita (“Romania”), ma soprattutto è stato deciso di “accoglierli” in uno dei centri della devozione popolare, costruito proprio dalla comunità dei boscaioli fiemmesi all’inizio del Novecento insieme alla Società di mutuo soccorso, come forma di solidarietà corporativa.
La sorte di questi due uomini, “migranti per scelta” resi parte della comunità solo post-mortem, mostra la condizione precaria di tanti stranieri che come loro vivono e lavorano nella valle, ribadendo come:
«Home and work, however, do not automatically produce social inclusion, let alone intercultural dialectics between im«migrants and natives, even if the settlement of foreigners is of long standing: on the contrary, secure access to these basic resources can paradoxically foster a selfclosure of the new inhabitants whenever significant larger scale relationships fail to develop» (Membretti & Viazzo 2017: 13).
Una considerazione da tenere bene a mente, tanto più in una Regione come il Trentino Alto-Adige che vanta il più alto numero di stranieri residenti ogni 100 abitanti (Membretti & Viazzo 2017: 8), anche se questa presenza è distribuita in modo diseguale nelle due Provincie autonome e all’interno delle stesse valli. Laddove le Regole sono ancora presenti l’accesso a risorse come malghe, pascoli, campi e boschi – e alle attività economiche ad esse legate – e ancora più difficile per gli stranieri. Per tornare alla metafora di Zanini, i “vuoti” presenti anche in questi contesti rimangono presidiati, inibendo in tal modo quelle possibilità di reinvenzione e rigenerazione. Non è un caso che tra le varie problematiche insite nei processi di neo-popolamento,
«la più rilevante tocca i regimi proprietari e i diritti di proprietà: cosa implica, esattamente, l’azione di tutela e conservazione da parte delle comunità locali in termini di diritti di proprietà? Sono sufficienti diritti individuali ben disegnati? Oppure, trattandosi di beni comuni (terra, acqua, paesaggio, conoscenza locale), è necessario disegnare diritti di proprietà collettiva?» (Barbera 2015: 42).
E proprio qui, nella necessità di trovare un compromesso tra cittadinanza e vicinanza, le Regole alpine possono trovare una nuova possibile funzione sociale nei confronti della comunità e del territorio, proponendosi come mediatori privilegiati di questi beni comuni rurali (rural commons) che spesso costituiscono un’occasione di valorizzazione per le aree interne. Come sottolineano diversi ricercatori, tra le conseguenze dirette del neo-popolamento c’è anche «la promozione di azioni collettive e di governance dei beni comuni che vadano oltre la semplice mobilitazione individualistica» (Corrado & D’Agostino 2016). Ma la gestione di questi commons rappresenta indubbiamente un’occasione per “fare cittadinanza”, unendo la tutela del territorio a percorsi di integrazione comunitaria nei confronti dei nuovi montanari che lì sono già presenti. Una delle sfide più grandi per queste realtà montane è dunque quella di armonizzare il proprio retaggio storico con il fenomeno, sempre più rilevante, dei neo-montanari.
C’è da dire che realtà come la Comunanza Regoliera di Ampezzo o la Magnifica Comunità di Fiemme sono situazioni piuttosto eccezionali. La soppressione degli antichi istituti regolieri nell’Ottocento ha creato un vuoto notevole nella gestione dei beni comuni e dei servizi offerti alla comunità, uno spazio che non è stato colmato dall’introduzione del nuovo diritto di cittadinanza. Emblematico il caso della Provincia di Trento, in cui la particolare frammentazione catastale, la presenza di piccoli Comuni e la necessità di un nuovo modo di “essere comunità” hanno contribuito alla nascita delle ASUC (Amministrazione separata dei beni frazionali di uso civico) e del sistema cooperativo. La Famiglia Cooperativa di S. Croce di Bleggio fu la prima espressione di un movimento sociale che, in soli cinque anni, portò alla fondazione nel 1895 della Federazione Trentina delle Cooperative. Nonostante le due guerre mondiali e la politica statalista accentratrice del ventennio fascista, le cooperative trentine riuscirono a radicarsi nel territorio, svolgendo una fondamentale funzione di presidio specie nelle valli minori. In virtù di queste caratteristiche, le cooperative trentine possiedono ancora oggi la capacità di mantenere un alto livello di coinvolgimento nei confronti della comunità – almeno come fornitrici di servizi –, un dato riflesso nel numero di adesioni (Depedri & Turri 2015: 70-72).
Molto più recenti delle Regole alpine, le cooperative di comunità rappresentano una nuova forma di associazionismo locale (Teneggi 2018). Oltre all’organizzazione democratica e alla visione mutualista, queste cooperative possiedono un’alta capacità di integrazione nei confronti degli abitanti del territorio. In una delle più recenti panoramiche su questo fenomeno sociale, Michele Bianchi descrive le cooperative di comunità come nuovi strumenti di partecipazione politica, capaci di promuovere una partecipazione dei cittadini che rende queste imprese dei partner strategici per gli enti locali, e che soprattutto nascono in risposta ad un nuovo bisogno di “fare comunità” (Bianchi 2021). Quest’ultimo punto è significativo, dato che:
«nell’evoluzione storica della forma cooperativa sono progressivamente nate tipologie di cooperative atte a risolvere di volta in volta problemi collettivi diversi: i problemi della marginalità di alcune aree territoriali (con la conseguente capacità delle cooperative di rispondere ai bisogni di credito, di consumo, di occupazione delle stesse comunità); il problema crescente della carenza di servizi sociali o della scarsa qualità e diversificazione dei servizi offerti dal pubblico (che ha promosso la nascita negli anni ‘70 delle cooperative sociali); il problema della fornitura di energia nei territori limitrofi e della sua fornitura a prezzi non monopolistici (che ha stimolato lo sviluppo di cooperative di utenza)î (Depedri & Turri 2015: 66).
Le cooperative di comunità nascono perciò da nuovi tipi di bisogno e dalla necessità di coinvolgere necessariamente e sistematicamente i cittadini nella “rigenerazione” del territorio. Mentre nelle normali cooperative di consumo la funzione sociale verso la comunità rappresenta un interesse primario, nelle cooperative di comunità essa diventa un elemento costitutivo. È proprio questo aspetto a costituire, secondo Sara Depedri e Stefano Turri, il fattore caratterizzante di queste imprese. Rimane comunque una sostanziale continuità storica tra cooperative “tradizionali” di consumo e cooperative di comunità, dove queste ultime rappresentano «il punto d’arrivo di un’evoluzione che ha visto il progressivo spostamento del baricentro delle cooperative da specifici gruppi sociali e professionali all’intera società» (Mori 2015: 8). Pensando all’enfasi posta dalla SNAI sulla riduzione della “perifericità relativa” dei cittadini delle aree interne tramite l’accesso ai servizi, le cooperative di comunità si presentano come degli attori ideali, la cui funzione sociale non è rivolta a uno specifico gruppo di persone affini (come nelle cooperative di lavoro), ma alla comunità dei residenti sul territorio. Questo permette di superare in un certo senso la distinzione tra cittadini residenti e nuovi abitanti, in quanto l’interesse per specifici beni e servizi «nasce dal fatto che essi vivono in quel luogo, e non da particolari bisogni professionali o sociali» (Mori 2015: 11).
È pur vero che, come nel caso delle Regole alpine, le cooperative di comunità si sono confrontate con il fenomeno dell’immigrazione solo recentemente e in misura ridotta. Tuttavia, entrambe queste forme di “essere comunità”, pur nella loro estrema diversità e genesi storica, cercano di rispondere a precise esigenze sociali attraverso un forte radicamento nel territorio, facendo dell’abitare il presupposto di esperienze comunitarie che eccedono la cittadinanza come condizione giuridica. Questo è il motivo per cui entrambe possono diventare degli interessanti laboratori per fare cittadinanza, ponendo l’accento a seconda dei casi sulla gestione responsabile dei beni comuni o sull’erogazione di beni e servizi per il benessere sociale.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] Il testo del bando è disponibile qui:
https://bandi.regione.piemonte.it/contributi-finanziamenti/residenzialita-montagna
[2] Ricordiamo anche la rubrica “Il Centro in Periferia” di questa rivista, coordinata da Pietro Clemente, pensata per confrontarsi periodicamente con questi temi.
[3] Manifesto di Camaldoli della Società dei Territorialisti. Il documento è disponibile qui:
https://www.societadeiterritorialisti.it/2020/04/12/manifesto-di-camaldoli-per-una-nuova-centralita-della-montagna/
[4] l documento è disponibile qui:
https://www.miur.gov.it/documents/20182/890263/strategia_nazionale_aree_interne.pdf/d10fc111-65c0-4acd-b253-63efae626b19 [controllato 05/10/21].
[5] Il documento è disponibile qui: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf [controllato 05/10/21].
[6] Laudo delle Regole d’Ampezzo, art.5.
[7] I residenti stranieri presenti nei Comuni facenti parte della Magnifica Comunità di Fiemme sono 1492 (dati ISTAT gennaio 2021), circa il 7% della popolazione totale.
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Zanini, Roberta C., 2017, “Ri-abitare la montagna: spazi di creatività e trasmissione delle risorse in area alpina”, in L. Bonato (a cura di), Aree marginali. Sostenibilità e saper-fare nelle Alpi, Milano, Franco Angeli: 72-82.
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).
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