di Giovanni Gugg [*]
Introduzione. Parlare di più del Vesuvio
L’argomento di questo contributo riguarda la comunicazione del rischio e di come l’antropologia può contribuirvi, tenendo presente alcune specificità, come la differenza tra il tempo dell’emergenza e quello del discorso antropologico, oppure considerando lo stato dell’informazione contemporanea e la pervasività della tecnologia che abbiamo a disposizione.
Il tema risale alla mia ricerca dottorale (Gugg 2013), che effettuai in un paese della zona rossa vesuviana, dunque ha anche qualche piccolo risvolto personale. Nel periodo di terreno conobbi molti abitanti del posto e riuscii a entrare in diverse pieghe del tessuto sociale locale, osservando e partecipando. Negli incontri collettivi, quando negli scambi emergeva che stavo compiendo una ricerca antropologica, puntualmente qualcuno ne sottolineava l’importanza affinché si potesse migliorare la comunicazione tra scienziati, istituzioni e popolazione. Ciò accadeva un po’ ovunque: tra le persone della parrocchia, tra i militanti di un partito, con il sindaco, con gli scienziati, compresi i vulcanologi.
Dopo qualche tempo, infatti, uno scienziato locale – all’epoca professore ordinario di vulcanologia alla “Federico II”, residente nel comune della zona rossa in cui effettuavo la ricerca – mi contattò per coinvolgermi nella stesura del Piano di Emergenza Comunale, chiedendomi esplicitamente un contributo sulla comunicazione. L’antropologo, pertanto, era riconosciuto un professionista che poteva dare un apporto, ma limitatamente alla comunicazione, cioè all’elaborazione di una specifica campagna informativa: ci si aspettava una efficace strategia di convincimento della popolazione. Io avevo e ho un’idea diversa, ma allora accettai, perché era una consulenza pagata – piuttosto comoda, dopo la borsa dottorale – e perché, nonostante tutto, mi sembrava un riconoscimento, nonché un’opportunità per applicare qualcosa che avevo imparato attraverso la ricerca antropologica.
Quell’occasione professionale avvenne perché il professore mi conosceva (in passato lo avevo intervistato più volte), ma anche perché in quel periodo nell’area vesuviana e napoletana si parlava molto della qualità del discorso emergenziale, di cui un momento importante fu il 5 settembre 2013. Quel giorno, il professore giapponese Nakada Setsuya, uno dei massimi vulcanologi al mondo, rilasciò un’intervista alla stampa italiana in cui disse due cose principali: innanzitutto che il Vesuvio è attivo; pertanto, prima o poi tornerà ad esplodere, e, in secondo luogo, che gli italiani dovrebbero parlarne di più. Nakada, da un lato precisò che l’attuale conoscenza scientifica in merito al vulcano napoletano è avanzata, ma ha delle lacune sulla possibilità di prevedere il quando avverrà un’eruzione (in realtà la tempistica è un limite generale della vulcanologia e non è detto che lo si possa mai superare in maniera sostanziale), e dall’altro lato osservò che l’odierna attenzione politica e sociale al rischio vesuviano è insufficiente: i piani di emergenza e di evacuazione sarebbero sostanzialmente inadeguati.
A quell’intervista risposero alcuni colleghi vulcanologi italiani, come un responsabile dell’INGV, Paolo Papale, il quale sul “Corriere della Sera” specificò innanzitutto che «l’attività del Vesuvio è costantemente monitorata e non c’è alcuna avvisaglia che stia cambiando» e, in secondo luogo, che «i piani di mappatura delle zone di pericolosità e di evacuazione ci sono, ma forse c’è un deficit di informazione alla cittadinanza, che abbiamo comunque intenzione di migliorare a breve».
Negli stessi giorni, il Dipartimento di Protezione Civile e l’INGV diffusero una nota alle redazioni giornalistiche in cui, tra l’altro, veniva specificato che «è fondamentale che l’intero sistema di protezione civile – di cui anche gli organi di informazione fanno parte – affronti con equilibrio i temi legati al rischio sismico, senza cadere negli eccessi di rassicurazione, da una parte, o allarmismo, dall’altra. […] Per queste ragioni, come Dipartimento della Protezione Civile e INGV chiediamo la collaborazione di tutte le redazioni affinché, quando si parla di terremoto, sia fornito un messaggio corretto e chiaro al pubblico, prestando la dovuta attenzione anche al significato dei termini utilizzati».
Quest’ultimo discorso veniva fatto per il rischio sismico, ma intorno al Vesuvio veniva declinato evidentemente come rischio eruttivo. Fu in questo clima, dunque, che il vulcanologo residente nella zona rossa, incaricato dall’amministrazione comunale di redigere il nuovo Piano di Emergenza locale, che è uno strumento normativo obbligatorio, pensò di coinvolgere anche un “esperto di comunicazione”, per cui chiamò me, l’antropologo.
Voci tecniche, politiche e mediatiche
La mia ricerca si era concentrata sull’elaborazione sociale del rischio; tuttavia, durante l’esperienza di campo avevo incrociato più volte il tema della comunicazione, per cui nella organizzazione dei dati etnografici raccolti, aggiunsi anche questo tema, ordinandolo in tre ambiti diversi: i mezzi di comunicazione, l’uso locale delle informazioni e il mio impegno diretto su quello specifico aspetto.
Il tema della comunicazione del rischio vesuviano è ampio, perché un discorso del genere emerge dall’incrocio di numerose voci diverse: quella “scientifico-tecnologica”, quella “politica” e quella “mediatica”. La prima tipologia concerne l’archiviazione e l’analisi dei mezzi di comunicazione che trattano del Vesuvio, una sorta di grande rassegna stampa su quell’argomento; la seconda si concentra sull’osservazione e sull’ascolto degli abitanti locali in merito a determinate notizie; la terza, infine, riguarda il mio impegno diretto nella comunicazione del rischio.
Più precisamente, al primo settore corrispondono le voci dei vulcanologi, il cui focus è essenzialmente nelle scoperte scientifiche o nelle spiegazioni del funzionamento del vulcano, della Protezione civile, che si esprime sull’organizzazione dell’emergenza e dell’evacuazione, sebbene non di rado alcuni pronuncino anche opinioni su fattori socio-culturali, e infine delle assicurazioni, in particolare le compagnie molto grandi che assicurano gli Stati contro le catastrofi e che calcolano l’ammontare dei possibili danni di un’eruzione subpliniana in una città come Napoli.
Ciascuna di queste voci contribuisce a plasmare il discorso pubblico sul rischio Vesuvio, ma bisogna aggiungerne anche altre, come quelle della politica, soprattutto locale, che, nonostante le differenze di ideali, hanno un forte discrimine nella posizione temporale. In primo luogo, vi sono le dichiarazioni dei politici prima delle elezioni, che spesso incrociano il tema del rischio vulcanico, pur stemperandolo con altri fattori, tipo la bellezza dei luoghi; un candidato alle elezioni comunali di Portici, ad esempio, nel 2013 disse in un comizio: «Il Vesuvio, con la sua straordinaria bellezza, le sue risorse infinite e le sue minacce terrificanti dovrebbe essere il primo pensiero, la prima questione che ciascun amministratore dovrebbe porsi prima di qualsiasi altro progetto». In secondo luogo, vi sono le dichiarazioni dei politici al governo locale, essenzialmente dei comuni della zona, che invece evitano il discorso e giustificano tale assenza evocando una sorta di selezione del rischio; un sindaco in carica mi disse: «È difficile parlare del rischio del Vesuvio, perché ogni volta che se ne parla – per esempio dopo una leggera scossa sismica – il prezzo delle case si abbassa; e questo è un problema che l’amministratore deve considerare e di cui deve tenere conto». Infine, vi sono le dichiarazioni dei politici all’opposizione, che sono più svincolati dalle decisioni operative e possono elencare con più libertà le mancanze di chi governa; in quel periodo, dopo alcune leggere scosse sismiche registrate intorno al vulcano, un leader regionale di minoranza disse: «Ancora una volta questi episodi dovrebbero spingere la Protezione Civile nazionale a effettuare delle esercitazioni di evacuazione della popolazione della “zona rossa” e a mettere in opera il piano di evacuazione in caso di allarme».
Il terzo settore delle “voci” sul Vesuvio, infine, riguarda quelle mediatiche, a sua volta ordinabile in tre classi: la comunicazione tenuta da televisione e giornali nazionali, che tendenzialmente è più istituzionale, nel senso che si comunicano principalmente le notizie ufficiali, si intervistano saperi esperti interni agli istituti di ricerca scientifica e della protezione civile; le informazioni diffuse da giornali e website locali, che è più disinibita, perché usa un linguaggio meno rigoroso e più sensazionalista, al punto che qualche volta il direttore dell’Osservatorio Vesuviano ha dovuto diffondere un comunicato stampa in cui spiegava l’infondatezza di determinati timori o allarmi; la cosiddetta “controinformazione” di siti-web anonimi o dalla vita media molto corta perché aprono e chiudono per il tempo necessario ad accumulare un alto numero di clic, che sono veicoli di notizie spesso catastrofiste, esagerate, apocalittiche, non di rado complottiste che, tuttavia, possono raggiungere molte persone tramite i socialnetwork, con titoli tipo “Due milioni di persone considerate carne da macello” o, ancora, “Quello che lo Stato italiano non dice alla popolazione vesuviana” e così via.
Come mi è capitato di scrivere in un articolo sulla stampa locale, il Vesuvio è “una notizia bomba”, perché è un soggetto che interessa, un protagonista che fa audience. Ma proprio questa sua enorme visibilità lo rende anche un tema sottoposto a malainformazione e a disinformazione che, come ha affermato uno studio del World Economic Forum del 2013, è «uno dei principali rischi per la società moderna». In questa sede non mi occupo della cattiva informazione riguardante il Vesuvio, ma posso accennare che se ne possono scorgere numerose varianti: la hoax (la notizia-farsa), la bufala (che punta a contrastare ogni svelamento, mirando all’ambiguità, alla palude tra il vero e il falso), la frovocation (la provocazione falsa), la notizia assurda-ma-credibile, il prodotto di fiction, la anti-notizia creata per far ridere e non per disinformare. A tutto questo, inoltre, vanno aggiunte ulteriori forme di manipolazione e adulterazione dei messaggi, spesso derivanti da semplice sciatteria, pressappochismo e superficialità. In ogni caso, sono tutte modalità di inquinamento dell’informazione, dannose proprio come le altre forme di inquinamento del nostro ecosistema.
L’uso sociale dell’informazione
Un secondo tema di osservazione della comunicazione vesuviana, che ho curato durante la mia ricerca, è quello dell’interpretazione locale delle informazioni. Come dice Sandra Wallman (2001), i mass-media contribuiscono alla costruzione di un «filtro locale» che mette in relazione le minacce personali e quelle globali, la prospettiva micro e quella macro, per cui possiamo affermare che proprio questa attenzione da parte della stampa contribuisce alla costruzione sociale del rischio. In altre parole, la comunicazione mediatica del rischio mette in relazione, da un lato, i diversi significati dell’agire dei gruppi sociali e, dall’altro, le categorie generali e astratte.
Contrariamente allo stereotipo che vuole il vesuviano indifferente al rischio o fatalista, il battage mediatico sull’argomento fa sì che, in realtà, la popolazione locale sia di fatto, in un modo o nell’altro, informata sul rischio legato al vulcano e che questo le venga costantemente ricordato. Il risultato, però, è probabilmente diverso da quel che ci si aspetta, come è ben esemplificato nelle parole in una anziana di 92 anni, da me intervistata nel marzo 2011 in un paese della zona rossa:
[G.G.:] Vi piace il Vesuvio?
[T.C.:] Eh, mi piace… Beh, insomma! Ma lo sai che non lo posso vedere quando lo vedo per televisione? Mi sento male quando vedo… non lo so, penso a quando sta in eruzione.
Più in generale, le persone che intervistai allusero spesso ai toni allarmistici usati per il Vesuvio dalla stampa, soprattutto dalla televisione:
Arrivano queste notizie all’improvviso… “Sai, è uscito l’articolo sul giornale”, oppure “La televisione ha fatto il documentario che…”. Mia sorella, che è sempre ansiosa, dice: “Ma io lo dico sempre, noi ce ne dobbiamo andare di qua, ci dobbiamo comprare una casa da qualche parte, dobbiamo vendere tutto”. E per un periodo si parla solo di questo. Si parla, si parla, si parla… Si parla! Ma poi alla fine lo sappiamo tutti, ci rendiamo conto che ne stiamo parlando, ma ne stiamo parlando per parlare (Signora L.C., 50 anni, impiegata comunale, marzo 2011).
Ci sono momenti in cui, momenti come il terremoto dell’Aquila o momenti dove per una catastrofe o un’emergenza qualsiasi, si vocifera… momenti in cui c’è fermento intorno all’attività vulcanica… si comincia a discutere in zona o sul giornale, o in televisione, al telegiornale. Per qualche giorno, per pochi giorni si parla del “pericolo Vesuvio” e poi si torna alla vita normale, alla quotidianità (Signor G.C., 45 anni, insegnante, gennaio 2011).
Si genera, così, un vero e proprio paradosso dei disastri, cioè viene a crearsi un rapporto ambiguo tra scienza e informazione, tra rassicurazioni e allarmi, che disorienta e, nel caso specifico, che blocca e sospende ogni decisione. I residenti della zona rossa, cioè, sanno del rischio, ma allo stesso tempo non sanno: vedono e non vedono, scotomizzano per tenere sotto controllo l’ansia, in qualche modo. Quindi, a rigore, non sono ignoranti, non sono indifferenti, non mancano di “cultura del rischio”, ma sono sospesi: si affidano ai saperi esperti, ma al contempo ne sono scettici. Una signora, ad esempio, a proposito delle piccole scosse sismiche che ogni tanto si sentono sul vulcano, mi disse:
Tu senti quelle scosse e pensi: “Queste che so’? So’ del Vesuvio o no?” Poi ci pensi e stesso tu ti rassicuri e dici: “Vabbè, ma può essere che non ci dicono niente?” (Signora A.R., 62 anni, impiegata, maggio 2011).
Come gli abitanti de La Hague, interpellati da Françoise Zonabend (1989) in merito alla centrale di scorie nucleari presente sul loro territorio, così i residenti della zona rossa vesuviana che ho incontrato hanno bisogno «di rassicurarsi sentendosi dire che tutte le precauzioni sono state prese e che non c’è nulla da temere».
Tentativi di comunicazione
Infine, il tema della comunicazione vesuviana riguarda anche me, la mia partecipazione attiva alla comunicazione pubblica, in quanto antropologo, relativa al vulcano napoletano. Questa è avvenuta su vari piani, come interventi sulla stampa e sul web, come interviste radiofoniche e televisive… generalmente di portata locale, ma in qualche caso anche nazionale. Oppure è avvenuta attraverso una pagina Facebook che ha raggiunto 4500 follower stabili, ma determinati post sono arrivati a diverse decine di migliaia di persone.
Qui, però, voglio evidenziare il caso in cui ho tentato di costruire una struttura comunicativa diversa, grazie alla consulenza di cui parlavo all’inizio, quella per la redazione del Piano di Emergenza Comunale di un comune della zona rossa. In quell’occasione, sottolineai che in un quarto di secolo – nei circa 25 anni dall’emanazione del primo Piano di Emergenza Nazionale del Vesuvio, nel 1995 – era ormai chiaro che i residenti sono scettici sull’efficacia di quello strumento, spesso non lo conoscono, ma soprattutto hanno mostrato di non credere a strumenti calati dall’alto, formulati senza incontri con la popolazione, senza coinvolgimento delle realtà locali, senza che sia mai stato avviato un dialogo (duraturo) tra abitanti e istituzioni.
Quel che abbiamo capito in 25 anni di pianificazione dell’emergenza vesuviana e, in parte, di ricerca antropologica sui luoghi e tra la gente, è che la comunicazione di quel rischio vulcanico non può essere top-down, non può limitarsi ai gazebo in piazza una volta l’anno. Non che la comunicazione istituzionale sia assente, ma certamente presenta ancora carenze e, soprattutto, limiti strategici. Ad esempio, è piuttosto ostico trovare il Piano di Emergenza nazionale sul web: è presente sul sito della Protezione Civile, ma si potrebbe facilitare il compito con un link più intuitivo e immediato in homepage, oppure evitando di dover scaricare una serie di pdf di decine di pagine redatte in un linguaggio tecnico. La trasparenza è una parte importante del discorso, ma non è una tecnica che avvicina le persone, anche se riguarda la loro sicurezza. Naturalmente, vi sono scienziati o esperti che, pressoché autonomamente, provano a divulgare e a essere comprensibili, ma sono, appunto, esperienze episodiche e limitate al volontariato; da pochi anni esistono canali di comunicazione più accessibili, ad esempio sui social, dove su Facebook e Twitter gli account “INGV-Terremoti” e “INGV-Vulcani” si sono guadagnati rispetto e credibilità, oppure canali delle protezioni civili locali – comunali e regionali – che lasciano sperare in una comunicazione più aperta e alla portata di tutti, quindi disponibile anche a eventuali interazioni. Non basta, ma è un inizio.
Per il caso del Vesuvio, la comunicazione non deve essere monodirezionale, ma deve trasformarsi in una sorta di dialogo, per di più continuato e costante. Parlare del Vesuvio significa parlare di un universo culturale, non solo di un evento catastrofico che avverrà in un futuro che al momento non possiamo individuare con certezza. La comunicazione del rischio Vesuvio dev’essere, dunque, un discorso che permetta di riflettere sulla qualità urbana attuale, sulla relazione tra cultura e natura, ossia con un territorio che soffre molti altri rischi, come quello economico-lavorativo, criminale e, soprattutto, ecologico.
Quel che ipotizzai nel mio contributo al Piano di Emergenza Comunale era un canale di comunicazione con la popolazione attivo in maniera quotidiana e continua. Andava avviato, cioè, un punto d’incontro in cui le varie componenti di una realtà complessa, eterogenea e multivocale (Tarabusi 2010) potessero confrontarsi, così da alimentare un costante processo di reciproco ascolto. Si tratta di uno strumento ambizioso, perché punta alla costruzione di una nuova forma di democrazia mirata alla messa in rete dei soggetti interessati – progettisti, amministratori, abitanti – delle loro esperienze e delle loro storie (Sclavi 2002). In altre parole, l’antropologia ci aiuta a comprendere che la comunicazione del rischio deve essere effettuata a più livelli, su più mezzi, verso diversi target, con diversi linguaggi e tempi, ma soprattutto alimentando l’interazione con la cittadinanza.
Naturalmente, è fondamentale avere a disposizione i documenti ufficiali, nella loro interezza anche tecnica, ma poi è necessario che quei contenuti vengano “tradotti” in più linguaggi a seconda dei destinatari. È ottimo che i siti-web delle istituzioni che si occupano del rischio vesuviano (Regione, Osservatorio Vesuviano, Protezione Civile, singoli comuni…) abbiano una sezione dedicata alle FAQ, alle “domande frequenti”, ma è importante che ci sia anche una reciprocità, ossia uno spazio in cui formulare domande specifiche, e che quelle domande ricevano una risposta, cioè un feedback.
A livello operativo questo significa costruire un luogo di incontro e di discussione, alla stregua di un socialnetwork, ma in cui sia possibile fare sintesi delle preoccupazioni degli utenti e, al contempo, controllare e smorzare qualunque deriva allarmistica o rassicurazionistica. Significa, dunque, assicurare un lavoro redazionale dedicato che permetta, coadiuvato da un approccio di tipo socio-antropologico, una relazione costante con gli abitanti del territorio, cruciale per il loro avvicinamento e coinvolgimento. L’obiettivo è quello di superare la logica verticistica della cosiddetta “cultura del rischio”, in favore di un approccio plurale e partecipato di “gestione del territorio”, in modo che si possa superare il concetto di “emergenza” e arrivare a parlare di rischio in “tempo di pace”, come si dice nel mondo della Protezione Civile.
Conclusioni. Parlare meglio del Vesuvio
L’invito del professore giapponese Nakada Setsuya a parlare di più di Vesuvio va declinato nel modo giusto, tagliato sulla realtà etnografica: di Vesuvio si parla tanto, a volte troppo, al punto che in certi frangenti si crea una vera e propria infodemia (Manfredi 2015) che crea solo confusione. Piuttosto, bisogna parlare meglio di Vesuvio: l’antropologia ci dice che la questione non è il “quanto” se ne parla, ma il “come” se ne parla e il “chi” lo fa.
La comunicazione unidirezionale è obsoleta. Il rischio Vesuvio è un tema che riguarda un evento futuro di origine geofisica, ma che già ora coinvolge le vite dei residenti, per cui è necessario uno scambio d’informazioni aperto, bidirezionale e negoziato tra vari attori. L’antropologia non ha il compito di “migliorare” la comunicazione istituzionale, quanto invece di aiutare a formulare domande migliori e a diversificare i target e i linguaggi, favorendo relazioni di fiducia con i cittadini. L’antropologia ci dice che anche lei ha dei tempi e delle fasi: forse non quelli dell’urgenza, quando tutto è concitato e drammatico, ma sicuramente quelli più dilatati e in sintonia con il suo pensiero riflessivo, cioè prima che l’allarme e lo stato di eccezione spazzino via ogni possibilità di dialogo.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
[*] Questo contributo è la versione scritta – riveduta e ampliata – della relazione tenuta dall’autore il 24 settembre 2021 all’interno del panel 29 “Quale futuro per la comunicazione dell’antropologia?” (a cura di Dario Basile e Gaetano Mangiameli), nell’ambito del terzo convegno nazionale della SIAC – Società Italiana di Antropologia Culturale, “Futuro: Antropologie del futuro, futuro dell’antropologia”.
Riferimenti bibliografici
Gugg G., 2013: All’ombra del vulcano. Antropologia del rischio di un paese vesuviano, tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, Napoli.
Manfredi G., 2015: Infodemia. I meccanismi complessi della comunicazione nelle emergenze, Guaraldi, Rimini.
Sclavi M., 2002: Avventure urbane. Progettare la città con gli abitanti, Elèuthera, Milano.
Tarabusi F., 2010: Verso un’etnografia nello sviluppo. Il “progetto” come oggetto di analisi antropologica, in Benadusi M. (a cura di), Antropomorfismi. Traslare, interpretare e praticare conoscenze organizzative e di sviluppo, Guaraldi, Rimini.
Wallman S., 2001: Global threats, local options, personal risk. Dimensions of migrant sex work in Europe, “Health, Risk & Society”, n. 3, vol. 1.
World Economic Forum, 2013: Digital Wildfires in a Hyperconnected World, http://reports.weforum.org/global-risks-2013/risk-case-1/digital-wildfires-in-a-hyperconnected-world/ (consultato il 10 settembre 2021).
Zonabend F., 1989: La presqu’île au nucléaire, Editions Odile Jacob, Parigi.
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia Culturale e docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli, attualmente è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris Nanterre. Un suo progetto di ricerca intitolato “Covid-19 and Viral Violence” è finanziato dalla University of Colorado ed è chércheur associé presso il LAPCOS (Laboratoire d’Anthropologie et de Psychologie Cognitives et Sociales) dell’Université Côte d’Azur di Nizza. I suoi studi riguardano la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, specie quando si tratta di territori a rischio. In particolare, ha condotto una lunga etnografia nella zona rossa del vulcano Vesuvio e ha studiato le risposte culturali dopo i terremoti nel Centro Italia (2016) e sull’isola d’Ischia (2017); inoltre ha osservato e documentato i mutamenti sociali e urbani della città di Nizza dopo l’attacco terroristico del 14 luglio 2016. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Vies magmatiques autour du Vésuve (2017); The Missing ex-voto. Anthropology and Approach to Devotional Practices during the 1631 Eruption of Vesuvius (2018); Disasters in popular cultures (2019), Anthropology of the Vesuvius Emergency Plan (2019); Inquietudini vesuviane. Etnografa del fatalismo (2020).
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