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Uno studio di antropologia urbana: laboratorio della complessità postmoderna

Marina di Stabia e i capannoni industriali ancora presenti lungo la linea di costa

Marina di Stabia e i capannoni industriali ancora presenti lungo la linea di costa

di Annalisa Di Nuzzo  

Considerazioni preliminari

Da diversi decenni, l’antropologia delle società complesse ha assunto tra i suoi interessi specifici lo studio e l’osservazione delle dinamiche nonché dei continui mutamenti che avvengono e che sono avvenuti in specifiche aree occupate da insediamenti industriali. L’interesse per queste dinamiche rientra in un più ampio filone di studi che fa capo alla cosiddetta “antropologia urbana” e che si caratterizza per il fatto di studiare fenomeni connessi a forme di organizzazione dello spazio tipiche della città.

In molte analisi contemporanee, la città appare nel ruolo di «snodo» di flussi di persone, immagini e tecnologie all’interno del mondo globale. L’impianto teorico di questa antropologia non è certamente tra i più facili da definire: i contributi provenienti da altre discipline, proficuamente rivisitati, sono ineludibili per esitare un’etnografia urbana e definire la stessa figura dell’antropologo della complessità, la cui identità oscilla tra un crusched glass e un’antropologie du proche che possono sintetizzare due posizioni indicative a riguardo, riprendendo le definizioni di Daniel (1969) ed Augè (2012).

Alle radici di un’antropologia delle società complesse, c’è indubbiamente la crisi della città americana degli inizi del ‘900, la rapida trasformazione del mondo coloniale, la scoperta di quel miliardo di uomini che l’etnologia dimenticava, di cui parlava Leroi -Gourhan. É da queste radici, secondo quanto sostiene Sobrero (1992), che possiamo far risalire l’antropologia delle società complesse negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia.

In Francia ed in Italia, l’antropologia della complessità tende ad essere innovativa rispetto alle consolidate categorie marxiste dello studio della cultura e della mentalità subalterna in ambiente urbano; dagli anni 50 fino agli anni 80 del Novecento, gli studi italiani sono caratterizzati da un certo interesse “ruralcentrico”, guardando la città dal punto di vista contadino come ultimo stadio di un processo di ruralizzazione che spesso s’identificava come perdita di quell’universo folclorico caratterizzante classi non ancora entrate nella storia della modernità. Bisognerà attendere la seconda metà degli anni Ottanta per avvertire chiari sintomi di cambiamento: nel maggio 1987, Tullio Tentori organizza il primo convegno nazionale di Antropologia delle società complesse.

learning_to_labor_morningsideResta da precisare, in queste sintetiche riflessioni teoriche, quanto sia difficile, nell’antropologia urbana, collocare uno studioso in questo o quell’indirizzo, così come è difficile parlare di scuole o di prospettive teoriche generali; al massimo si possono individuare prospettive di metodo, tendenze, ipotesi di lavoro: «come accade in molti nuovi settori di ricerca, essi sono a-teorici costituiti da un linguaggio speciale e da una serie di problematiche ma per un supporto teorico bisogna rivolgersi altrove» (Goode 1989: 75-82). Per molteplici ragioni storiche ed economiche, per gli americani la città ha caratteristiche opposte a quelle europee. Gli Americani si sentono più di ogni altra cosa “costruttori di città” e tra le due guerre mondiali la differenza tra le capitali europee e le metropoli americane si fa più profonda.

Il continente europeo, anche a voler guardare alla produzione letteraria del romanzo, continua a delineare un’immagine della città come mostro malvagio e fonte di ogni disagio esistenziale. Lo sviluppo delle città è tuttavia, in ogni caso, legato ad un’industrializzazione e ad un urbanesimo in cui erano e sono sedimentati elementi ambientali già da molti secoli umanizzati e in cui era presente, con le evidenti differenze, l’elemento città. In Italia il discorso si complica: Paese dalle mille città, che nella quasi totalità conservano nell’impianto urbanistico segni di vita plurimillenaria e la radicata distinzione tra città e campagna, con la convinzione della superiorità della prima sulla seconda (Meldolesi 2012). Allora si conferma per l’antropologo la necessità di coniugare più chiavi interpretative e di raccogliere elementi utili per un uso non dogmatico delle stesse categorie interpretative operando su se stesso e sulla cultura di cui fa parte un esercizio proficuamente riflessivo. Lo sguardo antropologico sulla città consiste allora nella capacità di definire le interdipendenze tra collocazione spaziale di un gruppo e costruzione della sua identità in termini culturali, vale a dire in termini di percezione che il gruppo ha di se stesso all’interno di una generale visione del mondo e di prospettiva del futuro (Hannerz 1992).

41ludbnzwnl-_sx342_bo1204203200_Il percorso intrapreso nella mia esperienza sul campo richiama inevitabilmente le indicazioni interpretative della corrente Geertiana e non solo: dopo le ineludibili e storiche scuole di Chicago e Manchester, ha individuato da un lato l’approccio interazionale e dall’altro la network analysis. Resta da considerare, poi, un’ulteriore prospettiva che possiamo definire del the ghetto approach in cui diventa oggetto di studio non la città, ma i gruppi sociali nella città. Le definizioni e i campi di interesse si complicano distinguendo tra antropologia delle città, antropologia delle società complesse e antropologia nelle città. Nel primo caso la città è un’entità globale complessa studiata attraverso collegamenti orizzontali e verticali relazionali cercando di ripercorrere quella rete che continua ad essere la metafora più efficace per definire la complessità. Quella complessità che invece, nel secondo caso, è vista come ulteriore sviluppo dell’organizzazione capitalistica e post capitalistica: la città come “unità di consumo collettivo”, come spazio di consumo di una parte dei beni prodotti. Più fedele alla tradizione etnografica dello studio di culture chiuse, la visione della città nel terzo caso, ma esiste, tuttavia, una comune consapevolezza di approccio che conduce all’antropologia interpretativa e che accoglie in sé gran parte di questi spunti metodologici proponendo un singolare sincretismo operativo. Le contraddizioni arricchiscono, dunque, la riflessione, e la stessa operatività nelle infinite possibilità offerte sembrerebbe perdere lo specifico da cui siamo partiti. Che cosa significa per l’antropologo la città? Esiste uno spazio definitorio trasversalmente condivisibile?

Esiste indubbiamente una definizione fisica dello spazio, un dato urbanistico, un perimetro edilizio. Un particolare sistema sociale occupa uno spazio e le città sono spesso connotate dalle funzioni che assolvono: vi sarebbero città industriali, città mercato, città universitarie ecc. Tuttavia, la nuova edilizia urbana che tende ad annullare qualsiasi connotazione specifica in un processo di omogeneizzazione ed omologazione assoluta e la molteplicità di funzioni che di fatto ogni città svolge, sembrerebbero annullare come dato oggettivo di partenza lo spazio urbano, se non collegandolo ad altre osservazioni (Baudrillard e Nouvel 2003). Allora gli spazi urbani diventano sempre più “luoghi di interpretazione”, non più luoghi fisici, ma percorsi mentali, contesti simbolici.

Tuttavia, l’antropologia ha da sempre privilegiato, come unità di studio, un elemento semplice, chiaramente distinguibile ed analizzabile e perciò l’antropologia urbana sembrerebbe la contraddizione più articolata a questo assunto: la complessità dei ruoli interpretati in una società moderna o post moderna e l’accelerazione spazio-temporale continua non permetterebbero all’ antropologo una corretta osservazione. Altri studiosi, di altre scienze umane, sembrerebbero a molti i più idonei a queste osservazioni. Tuttavia, proprio la molteplicità di ruoli e funzioni all’interno della vita delle città contribuisce a definire una condizione culturale densa e stratificata, piena di una cerimonialità diffusa, difficile da interpretare, sfuggente fino all’effimero, sempre più di competenza interpretativa di un antropologo.

img_20181129_165009La città è il luogo di produzione dei discorsi sul presente ed assume sempre di più lo spessore sia della relazione mediata di reti virtuali, sia del codice di relazioni all’interno di un ghetto metropolitano. L’antropologia interpretativa offre la possibilità di una continua lettura di ciò che accade come risultato di aspetti soggettivi e oggettivi che continuamente si rimodellano, e in tal senso la ricerca sul campo continua ad avere un suo insostituibile valore. In particolare, assume ulteriore rilevanza quando si coniuga alla possibilità, come in questo caso, di operare un’osservazione di antropologia longitudinale (MacLeod 2004; Dolby-Dimitriadis 2004; Willis 1977) che continua a prendere in esame attraverso il tempo gli stessi “protagonisti” della ricerca. Trame che ricostruiscono all’interno della stessa città nei microambienti della vita quotidiana, non più soltanto i ghetti, i quartieri, i sobborghi connotati spazialmente ed economicamente. Le definizioni di home area, mental maps (Nolan 1987) conducono alla scoperta che l’alterità passa attraverso lo spazio urbano e l’economia dominante, ma c’è dell’altro che mette in gioco la relazione stessa dell’antropologo con la sua stessa cultura e con la perdita apparente di certezze. 

L’oggetto della ricerca: Castellammare di Stabia

Una delle costanti presenti nella struttura delle città occidentali è la presenza nel tessuto urbano, di vaste aree utilizzate nel recente passato per l’insediamento di complessi industriali, intorno ai quali sono sorti quartieri che hanno caratterizzato lo sviluppo urbanistico e sociale di molti agglomerati urbani. Nello specifico, si è trattato di individuare e documentare i continui mutamenti antropologico-sociali che da diversi decenni sono avvenuti e continuano ad insistere in aree di rilevante concentrazione industriale in alcune zone della Campania. Una forte mobilitazione della comunità del territorio si è coagulata intorno ad una grande utopia di risanamento e di nuova vivibilità della costa tra Napoli e Sorrento coinvolgendo cittadini, amministratori, associazioni.

Marina di Stabia, i capannoni industriali

Marina di Stabia, i capannoni industriali, particolare di un’area dismessa (ph. A. Di Nuzzo, 2012)

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono stati realizzati, in diverse zone d’Italia, progetti di riconversione di aree industriali dismesse attraverso la costituzione dei cosiddetti “Patti territoriali” e successivamente dei “Contratti d’area”. Queste azioni messe in campo dal governo, tra diversi attori politici e sociali, hanno dato vita a piani incisivi di trasformazione urbana. Nella prima parte di questo saggio si ricostruisce brevemente la natura dei contratti d’area e dei patti territoriali, si descrive come le città coinvolte e le comunità che agivano sui territori individuati diedero vita ad un poderoso e vivace dibattito che metteva in campo ideologie e orizzonti di senso di tipo economico, culturale, di memoria sociale condivisa e di radicate appartenenze determinando un vero e proprio “scontro di civiltà” sul futuro e sul rapporto tra industrializzazione e sviluppo post industriale. Lo scontro più radicale era sull’idea stessa di sviluppo che vedeva contrapposti da una parte i processi produttivi legati alle fabbriche e alle loro produzioni da difendere e incrementare e dall’altra il progetto di recupero del paesaggio e del litorale per promuovere altre produzioni legate al territorio e dunque dismettere le fabbriche e recuperare i volumi per altre forme produttive e del terziario.

Idee di città e di nuovi quartieri si erano rincorse ed erano state oggetto di riflessione e di studio a partire dal secondo dopoguerra, tanto da dare vita ad una significativa ricerca sociologica sul campo proprio in una delle cittadine interessate poi dai patti territoriali oggetto della ricerca. I risultati dell’équipe guidata nel 1956 da Franco Ferrarotti, a cui era stata commissionata l’indagine su richiesta dell’allora Navalmeccanica che non riusciva a comprendere le resistenze degli operai degli antichi cantieri navali, alle nuove trasformazioni dei processi lavorativi, confluirono nella Piccola città (Ferrarotti 1972) pubblicata nel 1960. Questa dettagliata analisi è stata attentamente valutata ed è elemento determinante di comparazione per ricostruire – a partire da quei dati e da quei risultati – per un verso l’idea di futuro e per l’altro ciò che poi è stato lo sviluppo dell’area con connotazioni fortemente contraddittorie. Franco Ferrarotti aveva individuato in Castellammare di Stabia, delineandone tutti i possibili aspetti, la “piccola città” (definita anche la “Stalingrado del Sud” e in seguito presa come campione elettorale dal PCI) assunta come modello meridionale di città media del secondo dopoguerra. Una città il cui nome lascia intendere immediatamente un significativo passato a cui richiamarsi.

I libri di storia locale recitano: risorta dalle ceneri del Vesuvio dopo il 79 d.C. in una posizione invidiabile tra Napoli e la costiera sorrentina. Il filo conduttore del lavoro di Ferrarotti conduceva all’identificazione di quei fattori di lacerazione tra l’antico tessuto culturale pre-operaio e post-contadino e la nuova cultura industriale, sullo sfondo della ricostruzione post-bellica. Le riflessioni attuali conducono, dopo oltre cinquant’anni, ad un possibile ulteriore elemento di lacerazione tra una identità fieramente operaistica ed una dimensione postindustriale che si ancora non a valori fondanti come quelli della ricostruzione, ma a quelli complessi, deboli e polverizzati della nostra civiltà postmoderna.

I primi contratti d’area vengono definiti come lo strumento operativo della Programmazione negoziata e sono stipulati nel 1998. Il contratto attivato da enti locali, parti sociali e altri soggetti interessati nasce con lo scopo di favorire l’occupazione in questa determinata area di dimensioni ridotte, ossia 24 Km di costa, individuata come area di crisi secondo la legge del 23 dicembre 1996 n. 662. Il contratto d’area costituisce lo strumento operativo – concordato tra le amministrazioni, anche locali, rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonché eventuali altri soggetti interessati – funzionale alla realizzazione di un ambiente economico favorevole all’attivazione di nuove iniziative imprenditoriali e alla creazione di nuova occupazione attraverso condizioni di massima flessibilità amministrativa e in presenza di investimenti qualificati da validità tecnica, economica e finanziaria, nonché di relazioni sindacali e di condizioni di accesso al credito particolarmente favorevoli.

Il contratto di area è quindi fondamentalmente il frutto di un’intesa tra le parti sociali (sindacati e associazioni imprenditoriali) al fine di definire particolari regole circa la flessibilità del lavoro. Oltre all’intesa tra le parti sociali, nel contratto d’area vengono inoltre sottoscritti gli accordi tra le amministrazioni e gli enti pubblici interessati per lo snellimento delle procedure burocratiche. Il contratto d’area può essere integrato da successivi protocolli aggiuntivi in relazione a ulteriori iniziative d’investimento e ad ulteriori finanziamenti, che vengono dunque ad aggiungersi a quelli iniziali. I primi 7 contratti di area sono sottoscritti tutti nel 1998 e disegnano una particolare geografia della crisi industriale di allora: Crotone (Calabria), Manfredonia (Puglia), Torrese-Stabiese (Campania), Sassari-Alghero-Porto Torres (Sardegna), Ottana (Sardegna), Gela (Sicilia) e Terni-Narni-Spoleto (Umbria). Furono creati e/o utilizzati enti ad hoc volti a realizzare i contratti d’area, come nel caso dell’Area Torrese-Stabiese la Tess di cui erano presidenti i sindaci in qualità di figure politiche, mentre gli amministratori delegati erano figure professionali quali manager ed esperti di economia e gestione aziendale.

61wsix1oiflLa Regione e lo Stato dovevano e devono assicurare, per quei contratti ancora in essere (come nel nostro caso) la coerenza del Contratto con gli strumenti della programmazione e con le disponibilità di risorse statali e regionali. Nel corso degli anni l’utopia socio-politica si è scontrata con la realtà dando risultati ambivalenti e prospettive di trasformazione ancora oggi da realizzare. Molteplici i progetti che di volta in volta son stati proposti e approvati nel corso degli ultimi decenni per l’area torrese stabiese e in particolare per Castellammare di Stabia: il contratto d’area, i patti territoriali, il Documento di Orientamento Strategico (DOS) e il Piano Integrato Urbano-PIU’ Europa “Città di Castellammare di Stabia” (2008), nonché gli aggiornamenti degli ultimi due anni. In particolare, il DOS è lo strumento di cui la città si è dotata per individuare e promuovere le azioni necessarie per dare vita ad organiche trasformazioni, alla crescita comune, attivando l’interesse e la partecipazione di tutti gli attori locali tenuti insieme da un’unica visione: “rigenerazione urbana per una città nuova e relazionale”. Nelle intenzioni dichiarate siamo difronte ad un dettagliato progetto di grande respiro e innovazione. In quest’ultimo documento dal titolo denso di aspettative, si delinea il futuro della città in tre punti fondamentali:

1) La città: uno spazio vivibile. Rivitalizzare le aree urbane. Promuovere una nuova urbanità e un’edilizia di qualità. Recuperare, riqualificare, valorizzare. Sviluppare la socialità, il senso di appartenenza e tolleranza (Società aperta). Spazi pubblici di prossimità.

2) Diffondere la cultura della legalità e attivare politiche di sicurezza. Promuovere applicazioni locali delle telecomunicazioni (e-governance diffusa)

3) Cultura è … Valorizzare e sviluppare il patrimonio culturale e artistico del territorio.

Per il raggiungimento dell’obiettivo primario relativo agli interventi di rigenerazione urbana e di aumento dell’attrattività territoriale, inserito nell’ambito della Linea strategica, sono state identificate tre aree bersaglio: Waterfront, Centro Antico, Periferia Nord – Savorito – CMI. A voler esaminare quanto le progettualità politiche condivise dagli altri gruppi e istituzioni sul territorio tendevano e tendono a realizzare, emerge l’esigenza di una città riqualificata, riordinata nella sua urbanistica, tesa a condividere armonicamente spazi abitativi e quartieri, a voler utilizzare innovazioni tecnologiche sostenibili, ad educare al rispetto e condivisione del patrimonio culturale, paesaggistico e della memoria come autentico capitale sociale da valorizzare per riappropriarsi e condividere una nuova identità comune.

Questa, dunque, in sintesi, la città progettata e ipotizzata; ma dalla teoria alla prassi, dopo aver definito i punti salienti di utopie e progetti della città, la ricerca si è spostata sul campo, ha ripercorso le tappe della concreta trasformazione realizzata e/o in via di realizzazione nel prossimo futuro, avvalendosi non solo delle interviste ai soggetti della comunità, ma continuando ad esaminare l’azione politica, i provvedimenti e gli interventi governativi sia nazionali che europei che nel corso degli anni si sono avvicendati. Si è così delineato un “campo sociale” complesso individuando tutti gli attori presenti durante tutto il lungo arco temporale. Significativi sono gli elementi di continuità e rottura che attraversano la cultura della città e dei suoi quartieri.

L'area del quartiere interessata dalla conversione

L’area del quartiere industriale (ph. A. Di Nuzzo, 2012)

La ricerca sul Campo: il quartiere CMI

Agli inizi degli anni novanta del Novecento, la periferia dei quartieri industriali della città entra a far parte, dopo una lunga e complessa trattativa con il governo, di “un’area di crisi”. Viene stipulato un “contratto d’area” che avrebbe dovuto consentire un rapido sviluppo e una immediata riconversione delle zone in questione con forti investimenti di capitale pubblico e privato. Si trattava, e in parte ancora si tratta, di realizzare e ripensare una nuova destinazione d’uso di quel lungo tratto di costa, a forte concentrazione industriale che dalla zona orientale di Napoli (acciaierie di Bagnoli) ha come limite opposto proprio Castellammare, e che diventerà per gli stabiesi “l’area della Tess”, ossia il soggetto responsabile della concreta realizzazione dei progetti di riconversione e deputato a gestire i fondi stanziati.

La costituzione della TESS (Torre e Stabia Sviluppo) risale al 1994, prima ancora dei Contratti d’Area; la sua nascita era fortemente correlata alla necessità di dare una risposta alle proteste e rivendicazioni dei lavoratori di Castellammare di Stabia e di Torre Annunziata, vittime predestinate del declino industriale che colpì in particolare l’industria a partecipazione statale negli anni successivi al terremoto del 1980, i Cantieri Navali, l’Avis, i Cmi, la Deriver, la Dalmine e le aziende delle costruzioni, la Scac, l’Imec, l’Italtubi. Nel marzo 2008, avviene la fusione per incorporazione del soggetto responsabile anche del Patto Territoriale del Miglio d’Oro. La TESS in questo modo assume la diretta responsabilità dell’attuazione di questo strumento di sviluppo locale. Si voleva realizzare un più alto livello di efficienza dell’intervento territoriale rendendo coese le esperienze delle due preesistenti realtà (area stabiese/area torrese) e sfruttandone in modo più razionale le strutture, gli strumenti agevolativi e in particolar modo i due importanti know-how portati in dote. La fusione tra le due società dava vita ad un’unica realtà che rappresentava sedici Comuni tutti collocati in un’unica conurbazione urbana, omogenea, con una popolazione complessiva superiore ai cinquecentomila abitanti. Questa caratteristica risulta essere unica nel panorama regionale e nazionale, tanto da poter intendere l’area ricompresa all’interno dell’attività della Tess /Costa del Vesuvio S.p.A. come una media città caratterizzata in modo uniforme in termini di tessuto urbano e infrastrutturale, oltre che per le comuni problematiche legate al contesto sociale e produttivo. L’esperienza però non regge alla complessità degli interventi e alle pressioni dei diversi soggetti attuatori e naufraga nel 2012.

All’interno di questa macro area l’unità minima esaminata è il quartiere CMI (così definito dal nome di una delle fabbriche Cantieri Metallurgici Italiani). Ho “osservato” la mia città (sono stabiese e vivo in città) dopo cinquant’anni dall’esperienza sul campo di Ferrarotti e successivamente attraverso questi ultimi anni di applicazione del contratto di area con le sue continue trasformazioni, fino agli ultimi mesi. L’occasione, dunque, è stata quasi unica nel suo genere, applicando lo sguardo antropologico dell’osservazione-partecipante necessario perché lo spazio urbano potesse diventare “luogo d’interpretazione”, non più soltanto luogo fisico, ma percorso mentale. L’antropologia urbana occupandosi proprio, come antropologia, di sensibilità per la diversità culturale e familiarità con i fatti della vita quotidiana, sempre attraverso l’osservazione partecipante come metodo, deve essere uno strumento di ricerca permanente con il quale gli abitanti delle città pensano se stessi, e rappresentino ciò che gli accade intorno, in maniera nuova, decentrata, riflessiva. 

«La differenza tra una società tradizionale ed una moderna è di grado e non di natura. La società moderna si distingue da quella tradizionale per la diversa presenza e distribuzione delle sue località antropologiche, e principalmente per il modo diverso in cui questi luoghi si innestano nel complesso sistema delle interazioni, per il prevalere dell’uno o dell’altro tipo di interazioni, ma non per il mutare della natura dei rapporti. In ogni caso ci troviamo di fronte a ecosistemi antropici, a sistemi di relazioni, a equilibri funzionali fra “luoghi dell’interazione» (Sobrero 1992: 187).
Il quartiere prima della costruzione del porto turistico di marina di Stabia

Il quartiere prima della costruzione del porto turistico di Marina di Stabia (ph. A. Di Nuzzo, 2012)

La città è il luogo di produzione dei discorsi sul presente e l’antropologia odierna è figlia del tempo della città. La città come tribù può essere osservata per studiare non solo le minoranze emarginate, i microeventi della povertà urbana, ma anche classi agiate, la mentalità degli imprenditori e degli amministratori, utili a chiarire le possibili relazioni tra sistemi mentali e ambiente circostanti (Signorelli 1986). 

Sono state individuate, attraverso il tempo e non solo, le trasformazioni paesaggistiche, urbanistiche; la geografia dei processi produttivi, del tessuto culturale di appartenenza; gli aspetti di politica industriale, nonché di mutamento culturale delle comunità. I risultati di questo studio hanno interessato campi diversi seppure contigui dell’analisi antropologica: antropologia dello sviluppo e le prime forme di interventi ecosostenibili; archeologia industriale in relazione con il mondo della fabbrica e della solidarietà operaia (Bettini 2004). Seguendo la logica di studio delle home areas e dell’etnografia longitudinale, ho esaminato più volte nel tempo il quartiere e i gruppi protagonisti delle interviste, nato dall’industrializzazione a seguito dalla ricostruzione del secondo dopoguerra. Un contesto umano e sociale realizzato a ridosso delle fabbriche metalmeccaniche che vengono costruire lungo la linea costiera.

: Foto dall’alto della città di Castellammare con i due porti: quello turistico e l’antico cantiere navale

Foto dall’alto della città di Castellammare con i due porti: quello turistico e l’antico cantiere navale

I confini del quartiere sono immediatamente percepibili: da una parte la linea ferroviaria e una serie di capannoni industriali dismessi, che precludono l’accesso alla costa e al mare ancora inquinato, ma in via di recupero; dall’altra l’entroterra agricolo e altre piccole aziende ed officine artigianali. Allo sguardo dell’osservatore esterno, sono distinguibili gli edifici del quartiere per la loro inconfondibile struttura architettonica che li qualifica come costruzioni popolari. Nel quartiere resiste da una parte una vita autoreferenziale (che confermerebbe la relazione tra sistemi mentali e ambiente circostante) legata agli antichi valori e ritmi di vita operaistica degli anni “50”, dall’altra una marginalità delle generazioni più giovani, che rifiutando in gran parte gli ideali precedenti, si affidano alla microdelinquenza, all’uso di sostanze stupefacenti come strumenti per ribadire la loro diversità , il “mettersi da parte” per segnalare una presenza, come avviene nella tipica cultura del “ghetto urbano”.

Ma per Castellammare, la stessa tradizionale connotazione operaistica è contraddistinta da una conflittualità e una litigiosità che spesso nel suo passato antico e recente ha evidenziato tracce di movimentismo libertario, ribellistico e a tratti anarcoide. Tuttavia, si tratta di una conflittualità che non pregiudica quella voglia di comunità e di forte coesione all’interno del quartiere, con una propria scansione dei tempi, delle feste, dei luoghi d’incontro, delle iniziative laiche e religiose (Di Nuzzo 1996) L’approccio con il quartiere in quelle prime indagini, è stato empaticamente positivo, nonostante la morbosa curiosità suscitata in chi si sente oggetto di osservazione. Entrando nel quartiere si avverte la logica ispiratrice dei costruttori: prossimità asfissiante degli edifici che risultano divisi da stretti corridoi stradali, appartamenti angusti, dai soffitti bassi e con poca luce.

Il varco di accesso a Marina di Stabia con alle spalle gli edifici del quartier CMI

Il varco di accesso a Marina di Stabia con alle spalle gli edifici del quartier CMI (ph. A. Di Nuzzo, 2021)

Questa logica implicava alla fine degli anni 50, quando furono costruiti questi edifici, una destinazione d’uso esclusivamente per gli operai, i quali, necessari allo sviluppo capitalistico, dovevano “elevarsi” e affrancarsi dallo stato di plebe, di contadini, di pescatori per essere “accolti”, tollerati, sapientemente emarginati ai confini del tessuto urbano più antico della città. Ma se questo utilizzo dello spazio ha ribadito l’emarginazione verso l’esterno, nella vita del quartiere, la prossimità abitativa ha ripristinato una socialità “del vicolo” ed un senso di solidarietà assai forte che si manifesta in piccoli e grandi segnali.

Uno dei punti centrali del quartiere

Uno dei punti centrali del quartiere (ph. A. Di Nuzzo, 2012)

La fabbrica ha svolto e ancora svolge un ruolo ben preciso come effetto-causa-effetto dei processi di omogeneizzazione-differenziazione all’interno della città. Intorno ad essa e dentro di essa si sono determinati spazi collettivi il cui uso ha strutturato bisogni, valori, esperienze condivise. Il quartiere ha perso questa sua specificità con la fine della produttività industriale di tipo moderno e la relativa chiusura delle fabbriche (le città postindustriali perdono quella definizione spaziale che ne delineava le zone e le funzioni) ed allora il quartiere stabiese si sta privando di uno degli spazi collettivi più significativi e di quel forte senso di coesione che in parte ancora lo contraddistingue.

Ascoltando oggi, coloro i quali erano bambini negli anni sessanta, si avverte il “peso” della fabbrica in ogni frammento del loro vissuto: le visite specialistiche volute dall’ambulatorio della fabbrica, le gite per i dipendenti, la colonia estiva, le feste, i regali. L’assistenzialismo paternalistico ha lasciato, comunque, negli adulti di oggi, al di là delle scelte politiche, un forte senso di solidarietà, che ancora sorprende. Tuttavia, le interviste hanno evidenziato che esistono alcune differenze tra gli anziani e i giovani, tra coloro che sono rimasti e coloro che sono usciti dal quartiere, pur mantenendo un forte legame con esso. La nuova periferia che si delinea non è più socialmente ed economicamente connotata ed è sempre più un concetto culturale che spaziale. Significativa in tal senso come forte residuo di appartenenza la compattezza “elettorale” del quartiere che elegge sempre colui che è individuato come autentico portavoce della comunità senza mediazioni di partito, ma attraverso un’investitura empatica nel bene e nel male. Esaminiamo più specificamente alcune tra queste interviste in relazione ad un altro elemento nella scelta dei protagonisti delle interviste, ossia l’appartenenza di alcuni degli intervistati ad una delle grandi famiglie estese che vivono nel quartiere, comparando varie fasce d’età, per percepirne i valori condivisi, i desideri, il mondo degli affetti, le frustrazioni, i disagi, la disgregazione sociale.

Gli edifici centrali del Quartiere

Gli edifici centrali del Quartiere (ph. Di Nuzzo, 2012)

Le famiglie D* e L* arrivano nel quartiere nel momento della sua fondazione nel 1955. I ricordi di Franco, uno dei patriarchi della famiglia, concordano con quelli di Ignazio, poco più che un bambino in quegli anni, e di Giovanni che nasce nel 1958. La prima cosa che viene detta da tutti è che “non c’era niente”, nessun negozio, le dune di sabbia ancora ben visibili, il centro della città un altro mondo, lontano, irraggiungibile, i generi alimentari arrivavano su di un carretto di legno; solo dopo alcuni anni ci saranno i primi negozi, ma solo per i generi di prima necessità, per tutto il resto si andava a Castellammare. Si radicava così nei primi abitanti, ma poi in tutti gli altri, quel senso profondo di diversità e di chiusura entro uno spazio fisico che delimitava un modo di essere, una diversità culturale, una marginalità sociale che impediva la fruizione di servizi, e la possibilità di svolgere adempimenti civici.

Allora questo spazio fisico concepito da una logica economica ben precisa che delimitava le funzioni produttive verso un limen esterno al cuore socio-politico più antico e più consapevole, viene vissuto e addomesticato da questi pionieri, che disegnano spazi di aggregazione, credenze, relazioni feste ecc. I ricordi e le testimonianze si differenziano: zio Franco, come il nostro informatore Giovanni lo chiama, è stato protagonista dell’ascesa della classe operaia in città e della sua massima affermazione nel secondo dopoguerra; segretario della sezione del partito comunista del quartiere che, come ci tiene a sottolineare, nasce prima della chiesa. Ha vissuto la sua vita tra fabbrica, riunioni politiche, battaglie per ottenere servizi e collegamenti per il quartiere. La sezione del partito e l’organizzazione che ne deriva diventa così l’identità rassicurante che tuttavia ratifica attraverso un domestico concetto di lotta di classe, la propria diversità ed estraneità dal resto della città. L’altro luogo di vissuto pubblico è, per ogni comunità urbana o rurale che sia, la chiesa. Nel nostro caso assume connotazioni assai diverse. L’intervista al parroco evidenzia una marginalità nella marginalità, emerge il rammarico verso i possibili parrocchiani che “si vergognano” di entrare in chiesa, che vivono la festa religiosa solo nell’accezione popolare e laica dell’avvenimento, chiedendogli, al massimo, un suo maggiore impegno per realizzare la festa e non per vivere consapevolmente un percorso spirituale di autentica religiosità cristiana come invece il parroco auspicherebbe.

Le vicende di Ignazio esprimono compiutamente il percorso di una intera generazione che, alla fine degli anni novanta, paga in prima persona il prezzo della politica economica di quegli anni, con la perdita del posto di lavoro, evidente sintomo della crisi strutturale che investirà tutto il settore produttivo industriale. Dalle sue parole si ricostruiscono, lasciando fluire i suoi ricordi, le vicende degli operai di quelle fabbriche, si sentono ancora il rumore dei macchinari e le voci concitate al cambio dei turni. Ignazio raccoglie, mentre attraversiamo i capannoni, ormai spettri di una archeologia industriale di fine millennio, un bullone arrugginito dal tempo, indicando con orgoglio il modello e l’estrema funzionalità del pezzo.

Tonino S. rappresenta l’ultima generazione che abbiamo considerato. Appartiene a quella fascia d’età tra i venti e i trenta, troppo giovane per aver vissuto le rivendicazioni operaie più antiche, ma abbastanza adulto da poter essere già consigliere comunale da due legislature, il più giovane eletto in un consiglio comunale, attualmente diventato consigliere regionale della Campania scelto con un plebiscito dal suo quartiere. Pur non facendo parte della grande “famiglia” (arriva nel quartiere all’età di cinque anni perché il padre rientra dalla Germania dove era emigrato) è stato in qualche modo adottato ed investito dall’intero quartiere, diventandone portavoce con energia e senso di responsabilità. I suoi ricordi sono diversi, ma i giochi, le guerre tra bande, la ferrovia sono ancora ricorrenti.

Le strade del quartiere

Le strade del quartiere (ph. A. Di Nuzzo, 2012)

Il terremoto dell’80 segna una data importante così come il frequentare il liceo scientifico con la partecipazione agli organi di rappresentanza della stessa scuola. Il suo uscire fuori dallo spazio fisico-simbolico del quartiere non ha significato l’avere abbandonato i valori e il senso forte d’appartenenza che lo fa essere il figlio di tutti nel quartiere: quando lo incontrano ci sono baci, abbracci, l’orgoglio quasi genitoriale di aver scelto qualcuno che ha studiato, ma che conosce i problemi del quartiere e può esporli nell’assemblea comunale. Il riscatto e il sintomo di un percorso di superamento della marginalità sembrano avviati anche se tutto interno ad una forte cultura di affiliazione che persiste alla sua maniera, rielaborando i vecchi valori e producendo una nuova identità.

30343944173Lo studio di Ferrarotti mi ha dato la possibilità, attraverso le interviste fatte dalla sua équipe a suo tempo, di stabilire lo scarto tra l’idea di quartiere operaio, l’urbanistica di quel territorio e quanto invece si realizzò concretamente con il trasferimento degli abitanti più poveri del centro antico della città nel nuovo quartiere. Brevi biografie di una comunità meridionale, recita il sottotitolo del libro di Ferrarotti, un’umanità di lavoratori a giornata, disoccupati, piccoli artigiani, fieri operai, contadini, ormai appartenenti ad un altro tempo. La biografia di Gennaro M., classe 99, la famosa classe di ferro, e del Piave riprende proprio quei legami tra vecchi e nuovi quartieri, tra guerre mondiali ed emigrazione in Sud America, tra tradizione e nuova industrializzazione. È uno di quei primi operai che nel 1951 va ad abitare nel primo lotto di case INA-CMI. Così le descrive:

« (…) non c’erano, e ancora non ci sono, fognature: vi erano dei pozzi assorbenti, che facevano tutto fuor che assorbire. Dopo un po’ di tempo da questi pozzi incominciarono a fuoriuscire tonnellate di sporcizia che si andò espandendo tra gli spazi vuoti che separavano i caseggiati, i quali erano privi, tutto intorno di qualsiasi tipo di marciapiede. Le case erano giorno e notte immerse nel lezzo insopportabile di questa sporcizia. L’appartamento mancava di cucina, non aveva alcun appoggio di cucina, nessuna cappa per il tiraggio, di modo che quando si cucinava, la casa si riempiva di vapore acqueo che aumentava l’umidità generale. (…) Ora nel 1958, a questi due iniziali caseggiati sono stati aggiunti altri lotti e qui vivono un centinaio di famiglie e più. I pozzi sono stati aggiustati e i tiraggi delle cucine, almeno in buona parte, sono stati messi (…). Non c’è illuminazione esterna (…) queste case INA dei CMI (cantieri metallurgici italiani) sono oltre la periferia di Castellammare. Non c’è telefono, non c’è niente e come se noi non fossimo cittadini di Castellammare, ma cittadini dell’Ina-casa» (Ferrarotti, 1973: 127).
Perfettamente comparabile con le interviste di circa cinquant’anni dopo, Gennaro sintetizza e dà un’istantanea fotografica che forse è migliore dei nostri filmati girati nello stesso quartiere, per dirla ancora con Ferrarotti, mettono in luce come il cittadino stabiese di quegli anni riconosce il fatto nuovo della città, la concentrazione di potere legata al nuovo processo industriale, che si pone in alternativa ai vecchi poteri tradizionali. Ma è un’alternativa che tende a dissolversi nel compromesso tra vecchie e nuove élites; tutto si riduce alla conservazione dello status quo. È un conflitto che tiene sospeso lo stabiese tra due modi di vita e i contrapposti sistemi di valori su cui si fondano. Il destino della città – il suo sviluppo o la sua involuzione – dipendono da una soluzione positiva di questo conflitto che oggi potrebbe essere definito tra le vecchie élites operaistiche e il nuovo sviluppo imprenditoriale affidato al turismo e servizi (Ferrarotti 1973:135). Profetica la riflessione di Ferrarotti su una città che ancora non ha sciolto questo conflitto che è ancora presente nella post modernità.
L'area di Bagnoli delle acciaierie (ph. A. Di Nuzz0 2021)

L’area di Bagnoli delle acciaierie (ph. A. Di Nuzz0 2021)

Un’esperienza di antropologia longitudinale

La parte conclusiva di questo breve saggio è dedicata ad alcune riflessioni sugli aspetti più recenti della ricerca che riguarda l’analisi delle stesse aree già oggetto di studio alla fine degli anni Novanta comparate con quanto sta accadendo negli ultimi anni. Attraverso una osservazione etnografica-antropologica longitudinale ho coinvolto gli stessi gruppi intervistati anni prima, per ricostruire le trasformazioni delle storie di vita, il rapporto con i valori e le appartenenze, le nuove identità che sono emerse da quelle esperienze di vita sia come abitanti sia come amministratori delle città.

A partire da quei dati l’analisi sul campo si è occupata dei tempi e dei modi di questa nuova fase della vita del quartiere a seguito della riconversione dell’area industriale ormai da anni definitivamente in crisi. La nuova prospettiva è quella che emerge da una possibile vocazione di sviluppo turistico di una linea di costa tra le più belle d’Italia. Si costituisce e si tenta di incrementare un polo, con l’intervento di denaro pubblico e la partecipazione di imprenditori privati attraverso la nascita di porti turistici laddove esistevano insediamenti industriali e distretti ferroviari [1]. Il risultato tangibile e più evidente è il porto turistico “Marina di Stabia” che ha trasformato anche da un punto di vista paesaggistico la costa. 

È discussione di questi mesi tra Regione, Comune e la società Marina di Stabia in conferenza dei Servizi in Regione, l’ulteriore e infinita trasformazione del progetto di Marina di Stabia. Le “opere a terra” del porto turistico, che prevedono la realizzazione di un’area ricettiva, ma soprattutto di un complesso residenziale composto da villini e mini appartamenti, prosegue il suo iter amministrativo. Sarebbe, ad oggi, la nuova soluzione per riconvertire i volumi e i capannoni industriali ancora in piedi e ormai fatiscenti. Il progetto prevede, senza più tenere conto dei programmi e degli utilizzi previsti dall’antico contratto d’area, di abbattere i capannoni dove un tempo si costruivano carrozze ferroviarie per fare spazio ad attività ricettive, una piazza a mare e nuove case. E proprio su quest’ultima idea prende spazio la variante progettata dagli architetti Fasarano e Aurino, e su cui ancora una volta il quartiere e la città si divide. Il primo ad alzare le barricate è quel Tonino Scala che ho intervistato anni prima come rappresentante della generazione più giovane e a cui continua a fare riferimento il quartiere. La sua storia di vita testimonia a distanza di anni, anche se non vive più in quella zona, il tenace legame con quei valori antichi di appartenenza, anche se i suoi orizzonti sono ormai andati oltre. Le sue dichiarazioni sono attente, precise ed entrano nel merito di una vicenda che gli appartiene da tempo: 

«La società Marina di Stabia, ritiene superate le procedure e gli obblighi sanciti con il Contratto d’Area, e richiede che si utilizzi la procedura dell’Accordo di Programma. Ritengo un atto dovuto alla città che si discuta in consiglio se gli strumenti utilizzati siano ancora validi o meno dando alla cittadinanza un’informazione certa e completa».
Marina di Stabia con  gli edifici del quartier CMI

Marina di Stabia con gli edifici del quartiere CMI (ph. A. Di Nuzzo, 2012)

Non sfugge all’analisi che Marina di Stabia nasceva come uno degli effetti del Contratto d’Area torrese stabiese, uno strumento che permise agli imprenditori di ricevere finanziamenti pubblici e realizzare opere che avrebbero dovuto incrementare l’occupazione, per le opere a mare, ma soprattutto per quelle a terra. Un aspetto non secondario che ora gli imprenditori e il sindaco dimenticano. T. mette in campo ora come allora, la necessità di condividere, sia nel rispetto dell’iter legislativo e sia come condivisione degli abitanti del quartiere e della città tutta, le decisioni politico-amministrative che possono determinare mutamenti radicali del futuro prossimo. Continua a ribadire:

«Come si può andare in Conferenza dei servizi senza aver prima discusso in consiglio comunale? Voglio essere propositivo e dico che si potrebbe cominciare subito con la riconversione dell’area selezionando le opere che possono essere autorizzate da subito dal Comune, anche ricorrendo alla variante al Prg (Piano regolatore della città) laddove non conformi al progetto del 2003 (ad esempio tutto ciò che riguarda il terziario e il ricettivo); e trasferire, invece, nell’accordo di programma tutto quanto – principalmente la costruzione di case, opzione sulla quale ribadisco la netta opinione contraria – richiede necessariamente una variante al PTR e il voto del Consiglio Regionale».

Aspetti tecnici ma sostanziali che potrebbero decidere o meno il cammino di un progetto presentato qualche mese fa anche ai residenti del rione Cmi. Un incontro pubblico per aprire il porto turistico alla città e coinvolgere i residenti che si sono riuniti nella parrocchia di Sant’Agostino e hanno sfogato la rabbia per essere abbandonati da decenni e per essere esclusi, come del resto tutta la città, dal porto turistico Marina di Stabia che vive una vita autonoma, autoreferenziale proprio come avevano previsto gli abitanti del quartiere qualche decennio fa. Nonostante questo, gli abitanti del quartiere sperano ora che qualcosa si muova sulla lunga strada che affianca sia il quartiere che il porto turistico, che anche il quartiere ne possa ricevere benefici.

Attraverso una sorta di studio etnografico longitudinale, le storia di vita degli abitanti sono state osservate attraverso il tempo. Le famiglie del quartiere e tutti gli altri attori sociali che hanno avuto un ruolo in quel campo sociale complesso hanno dato vita a vissuti ancora fortemente condivisi in città e poi le nuove interviste e indagini sul campo segnalano i cittadini ancora legati alle proteste a conferma dell’isolamento ma allo stesso tempo del desiderio di contare. Tonino Scala, abitante e consigliere comunale e provinciale, e poi Salvatore Vozza che ha rivestito più ruoli: parlamentare, Sindaco, Amministratore delegato, e poi ancora a voler riconsiderare le grandi famiglie estese L. D. nelle quali alcuni sono andati via dal quartiere come G.L.: pochi sono quelli rimasti, ma tutti quelli che ho intervistato hanno sviluppato resilienza e intraprendenza e la necessità di mettersi in gioco e di uscire da logiche claustrofobiche.

Il confronto tra tre generazioni segnala l’“esserci” tra coloro che sono rimasti e coloro che sono usciti dal quartiere. Il parroco e la chiesa continuano ad avere forse più di prima un ruolo centrale e aggregativo a discapito della sezione del partito che non riveste più lo stesso ruolo. Infine, la vicenda di altri giovani amministratori di allora come A.I., ora manager di successo, che avevano vissuto sulla loro pelle la dura esperienza di misurarsi con la necessità del cambiamento nel desiderio di offrire l’opportunità alla città di andare oltre quel tipo di sviluppo e industrializzazione non più funzionale alle trasformazioni post-moderne. Destini incrociati che comunque hanno in comune quelle esperienze sul poter determinare il futuro della città che hanno condiviso e/o contrastato, definendo appartenenze ideologiche sul cambiamento e sulla possibilità di uscire dalle logiche provinciali e di dare spazio alla creatività che per ciascuno è emersa attraverso percorsi individuali, ma che sono il segnale attraverso il tempo di quanto sia stata fondamentale quell’esperienza.

Marina di Stabia

Marina di Stabia

Nell’arco di pochi chilometri, si sono concentrate ibridazioni urbanistiche e vocazioni di nuovo sviluppo economico. Oggi, il mutamento della linea di costa, dopo la creazione del porto di Marina di Stabia ha introdotto forti elementi di ecosostenibilità nelle logiche di sviluppo, unitamente alla necessità di una nuova balneabilità, con la riappropriazione del paesaggio e dell’elemento mare e infine ha contribuito a maturare la consapevolezza della coesistenza nella stessa area di un distretto archeologico e paesaggistico-naturalistico di rilevanza internazionale (Pompei, Ercolano, Stabiae). La percezione, in città e nel quartiere, della possibilità di realizzare finalmente un futuro ha messo a confronto identità di gruppo e processi di sviluppo che continuano a definire orizzonti di vivibilità condivisa soprattutto in relazione al mondo post-pandemia. Tornano ad essere di attualità e diventano oggetto di riflessione i piani urbanistici che si erano susseguiti nel tempo visti non più quali audaci e impossibili progetti di architetti visionari come Beghinout e Fucksas, ma ormai realizzabili, specialmente nel tratto di costa da restituire al mare, finalmente liberato dagli insediamenti industriali senza dare spazio a speculazioni di edilizia privata come si è tentato di fare negli ultimi mesi.

Così, se è vero che alla fine degli anni cinquanta, le tradizioni, le modalità di comunicazione, i feticci e le dinamiche di utilizzo del tempo e dello svago erano improntate a quanto era sedimentato nella tradizione stabiese, oggi il quartiere vive uno spaesamento prodotto dalla definitiva crisi dell’economia capitalistico-industriale tradizionale, ma intravede la possibilità di un riscatto. Gli anziani e i quarantenni, nelle loro risposte, evidenziano il nostalgico legame a quei valori passati; le giovani generazioni (20/30 anni) avvertono il legame forte con il vissuto dei quartieri, le divagazioni infantili, il gioco della breccia nel muro della ferrovia e le iniziative sportive, ma non riescono a condividere fino in fondo la tradizione che, quindi, vogliono cambiare.

Durante gli anni Ottanta (il terremoto segna uno spartiacque importante) il quartiere, insieme a tutta la città, ripiega su se stesso, avviandosi ad una profonda crisi, che si aggraverà ulteriormente nella seconda metà degli anni Novanta, conservando in maniera ambivalente la propria identità. Il progetto della riconversione delle aree industriali, in un porto turistico iper-attrezzato per un uso esclusivo da turismo d’élite, non è stato e non è certo condiviso. Tutti gli abitanti sono convinti della necessità del cambiamento, ma hanno temuto ed oggi ne hanno drammatica conferma, di essere esclusi da ciò che è accaduto “davanti a loro” lungo il litorale, e vivono così di fatto, come loro stessi avevano ipotizzato e dichiarato nelle interviste, una condizione simile a quella delle favelas sud-americane come risultato di uno sviluppo disarticolato e lontano dalla loro realtà.

Tuttavia, c’è stato un elemento di condivisione significativo per la vita del quartiere e della città tutta. Una parte dei finanziamenti della riqualificazione urbana ha interessato il lungomare della città, il waterfront fino all’ormai fatiscente zona industriale. Dopo molti mesi di chiusura all’accesso al mare, c’è stata la riapertura che ha dato vita ad una vera e propria riappropriazione dell’elemento mare e che ha prodotto un’antica e allo stesso tempo nuova dimensione di appartenenza insieme alla percezione di poter essere davvero una città che si offre al turismo e all’accoglienza. Il lungomare è diventato attrazione anche per tutti i comuni limitrofi e il dopo-pandemia ha restituito anche un’euforia straniante, frammentata e superficiale, con la convinzione di uno spazio urbano di accoglienza, anche se spesso esposto ad una movida caotica troppo legata alla ristorazione.

Dunque, il percorso della piccola città continua ad essere ambivalente e non si colma il dissidio tra le due anime della città; tra il retaggio dell’antico cantiere navale con la sua storia e le sue memorie (il veliero Amerigo Vespucci è stato costruito a Castellammare) e il nuovo porto turistico, tra ambivalenze e spaesamento insieme alla necessità di coniugare il qui ed ora, con la proiezione verso un futuro tutto ancora da definire e che forse persegue e insegue l’occasione del momento, sia da parte degli amministratori che della società civile. 

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021 
Note
[1] In particolare a Portici – antica linea ferroviaria borbonica Napoli-Portici – ho condotto una ricerca per circa tre anni, dal 2012 al 2015. 
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale, insegna Geografia delle lingue e delle migrazioni al Suor Orsola Benincasa; già professore a contratto di Antropologia culturale presso DISUFF Università di Salerno, e membro del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale della stessa università fino al 2020- Ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani.  È membro dell’Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti Umani e Sviluppo Sostenibile “MInDS” Univ. di Cassino, socia del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) nonché del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia (CISPAI). I suoi campi d’indagine sono l’antropologia delle migrazioni e del turismo, antropologia e letteratura, antropologia e genere, antropologia urbana. È autrice di numerose monografie, tra le ultime pubblicazioni si segnalano: Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014; Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013; Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma, 2020; Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020.

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