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“Colonialità” e disciplina antropologica: riformulare il dibattito sulla diversità della conoscenza

Bronislaw Malinowski, Le egemonie in antropologia

Bronislaw Malinowski, Le egemonie in antropologia

per la scuola

di Linda Armano

Il rapporto tra produzione di conoscenza e potere è oggetto di dibattito e indagine antropologica da parecchi decenni. In particolare, voci subalterne come per esempio quelle dei cosiddetti popoli indigeni, hanno sensibilizzato le discussioni su questa relazione estremamente critica. Sottolineano Escobar e Restrepo (2010) che spesso le ricerche antropologiche, oltre a continuare a riprodurre una squalificazione implicita delle forme di conoscenza studiate dagli antropologi, creano anche una serie di categorizzazioni tra ciò che è pensabile e ciò che non lo è.

Riprendendo il concetto di “colonialità” dei due studiosi, in questo contributo intendo esaminare il rapporto tra quest’ultima idea e l’antropologia come disciplina accademica. Escobar e Restrepo affermano che la colonialità debba essere distinta dal concetto di colonialismo, così come da concetti quali neocolonialismo, imperialismo, neoimperialismo ecc. Secondo gli autori, la colonialità non si riferisce solo a un modello di potere che agisce nel passato dell’antropologia attraverso le sue articolazioni con il colonialismo – come è stato proposto negli anni Settanta (Lewis, 1973; Leclerc, 1972), ma agisce anche grazie alle conoscenze antropologiche dietro le quinte prodotte dalle antropologie egemoniche e talvolta anche dalle antropologie subalterne di oggi.

Partendo dalla distinzione operata tra antropologie egemoniche e subordinate (e tra queste preciserò cosa si intende per “altre antropologie”), tenterò di individuare alcuni meccanismi che consentono il consolidamento delle egemonie nel campo dell’antropologia. È bene notare che non intendo criticare l’antropologia nel suo insieme come disciplina. Né questo contributo sostiene l’inesistenza di alternative possibili. Ciò che però, in generale, le seguenti riflessioni vogliono mettere in luce, è il fatto che pratiche e contenuti antropologici, nonché la loro portata, non possono essere liquidati a titolo definitivo e senza ulteriori approfondimenti, proprio perché strettamente legati alla colonialità. Per parafrasare Chakrabarty (2000: 48), le categorie e le conoscenze sviluppate in campo antropologico sono sia «necessarie che insufficienti» per un pensiero che voglia trascendere i limiti derivati ​​dalla sua associazione con la colonialità.

2-chakrabarty-d-2000-provincializzare-leuropa-pensiero-postcoloniale-e-differenza-storica-princeton-university-pressAntropologie egemoniche, subalternità e “altre antropologie” 

L’espressione “antropologie egemoniche” si riferisce alle diverse formazioni discorsive e pratiche istituzionali associate alla “normalizzazione” e alla “disciplinarizzazione” dell’antropologia come scienza insegnata nelle università (Escobar e Restrepo 2010). L’egemonia presuppone la configurazione e la naturalizzazione dei riferimenti disciplinari ma anche delle soggettività con cui gli antropologi interagiscono sul campo. In questo modo, l’egemonia è intesa non solo come dominio, imposizione o coercizione, quanto piuttosto come ciò che configura il buon senso su come la disciplina deve procedere (Mignolo 2000). Per contro, le “antropologie subalterne” sarebbero quelle che, per vari motivi, non si adattano ad articolazioni egemoniche in un dato momento. 

Le antropologie subalterne abitano i margini e gli interstizi degli insediamenti antropologici. Il concetto di antropologie subalterne non ricerca una “alterità”, la quale potrebbe continuare ad essere sia considerata come un’anomalia, una “deviazione”, una “deriva” o un “particolarismo culturale” che va valorizzato o compensato come nelle politiche multiculturaliste (attraverso per esempio politiche identitarie), sia trovare un suo posto all’interno del campo antropologico stesso. Né si sta qui suggerendo che le antropologie subalterne siano necessariamente “migliori” delle antropologie egemoniche. Non si intende infatti né dare un’immagine di un relativismo epistemico, né di un giudizio morale che attribuirebbe al primo un’esistenza negativa mentre al secondo un’assegnazione positiva.

Affermano però Escobar e Restrepo (2010) come molte antropologie subalterne possono essere intese più propriamente come “altre antropologie”. Esse, secondo gli studiosi, organizzano la conoscenza e il lavoro antropologico senza esaurirsi nella formulazione di registri etnografici o elaborazioni teoriche registrate in articoli, libri, dissertazioni di dottorato e presentazioni il cui pubblico predominante è costituito dalla comunità accademica. Si tratta di antropologie che, per le loro pratiche e le loro articolazioni, sarebbero difficili da riconoscere da molte antropologie egemoniche, nei confronti delle quali non cercano un riconoscimento a tutti i costi.

Le relazioni tra antropologie egemoniche e subalterne non si strutturano indipendentemente l’una dall’altra, come pensavano i culturalisti della prima metà del secolo scorso. Esse inoltre non sono entità costruite in anticipo ma sono piuttosto strutturate in quello che Stuart Hall (1982) chiama il “sistema-mondo dell’antropologia”. L’importanza analitica di questo concetto sta nel prendere in considerazione le relazioni strutturali di potere operanti tra le varie istituzioni accademiche e le diverse tradizioni antropologiche all’interno delle stesse istituzioni (Ribeiro, 2005). Evidenziando la geopolitica della conoscenza che configura il campo dell’antropologia su scala globale, si sostiene che le tradizioni e le costruzioni antropologiche della periferia o del subalterno sono state apprese come appartenenti ad “antropologie senza storia”, mentre altre tradizioni centrali o egemoniche sono considerate come incorporazioni paradigmatiche della disciplina (Ribeiro, Escobar 2006). Pertanto, prima di assumere che le differenze tra le tradizioni antropologiche possano essere ridotte a una storia della diversità culturale dei suoi operatori, è necessario tenere in considerazione i contesti (epistemico, istituzionale, politico, economico) che strutturano le differenze come disuguaglianze.

3Le relazioni tra antropologie egemoniche e subalterne operano tanto negli Stati Uniti, quanto in Francia e in Italia, in Portogallo e in Colombia (Escobar, Restrepo 2010). La geopolitica della conoscenza non segue meccanicamente lo stato delle relazioni internazionali tra Paesi, né implica per forza l’introduzione di pratiche di potere nazionali per le istituzioni antropologiche alla periferia del sistema-mondo. In questo senso, le categorie delle antropologie egemoniche e subalterne non si sovrappongono (anche se non si oppongono) ai concetti di antropologia periferica e metropolitana suggeriti dall’antropologo brasiliano Cardoso de Oliveira (2004, 2000) o all’idea di “antropologia del sud”, proposta dall’antropologo messicano Esteban Krotz (1993).

La colonialità è quindi qui intesa come un evento storico, che giunge fino ai giorni nostri, e che Escobar e Restrepo (2010) definiscono come un fenomeno molto più complesso del colonialismo. Mentre il colonialismo si riferisce alla situazione di sottomissione di alcuni popoli colonizzati, attraverso un apparato amministrativo e militare, la colonialità consiste nell’articolazione globale di un sistema di potere “occidentale” (Quiiano, 2000). È ben noto come quest’ultimo si basi su una presunta inferiorità naturale di luoghi, gruppi umani, conoscenze e soggettività non occidentali. Questa inferiorizzazione fa leva su una logica di sfruttamento e una logica di riproduzione allargata del capitale. Tale articolazione globale del dominio “occidentale” è storicamente sopravvissuta al colonialismo; agisce attraverso dispositivi “civilizzati” contemporanei in cui rientrano, per esempio, le pratiche discorsive relative alle tecnologie dello sviluppo o della globalizzazione. Essa comprende sia la dimensione ontologica (colonialità dell’essere) che quella epistemica (colonialità della conoscenza), rivelando diverse modalità dell’eurocentrismo. 

L’immaginazione e la pratica antropologiche possono essere analizzate come una componente essenziale del moderno regime di potere, che fa riferimento ai processi di governabilità descritti da Foucault (1992) o alla “colonizzazione del mondo vivente” come suggerirebbe Habermas (2017). Chatterjee (1997: 139), dal canto suo, afferma che questo regime di potere è permanentemente prodotto attraverso i cosiddetti “truth games” che definiscono «una struttura differenziata di autorità che specifica chi ha il diritto di dire cosa e in quali termini. Esami, titoli e altri segni di differenziazione sono indicatori di questa autorità».

Il sapere antropologico, così prodotto, appartiene alle innumerevoli espansioni del “sapere esperto”, da cui determinati settori sociali danno senso al mondo e da cui può nascere un intervento diretto sui popoli. È proprio in questa inflessione che la colonialità appare nelle antropologie egemoniche. Essa stabilisce la subalternità del sapere che non risponde al logocentrismo rappresentato dalla ragione strumentale propria del sapere esperto (Mignolo, 2005). Il concetto di colonialità della conoscenza rende conto quindi di questa specifica dimensione della colonialità (Walsh, 2004).

In questo senso, praticamente nessuna antropologia è stata in grado di sfuggire alla colonialità. Non perché le ricerche antropologiche offrissero conoscenze utili alle passate amministrazioni coloniali (o al “colonialismo interno”, come le antropologie latinoamericane, asiatiche o africane). Ma fondamentalmente perché costituivano un “sapere esperto” che presuppone una distinzione epistemica, istituzionale e soggettiva rispetto al “sapere sottomesso” (Foucault 1992: 21).

6-foucault-m-1992-genealogia-del-racismo-madrid-la-piquetaL’attuale situazione delle antropologie egemoniche è paradossale perché gran parte delle pubblicazioni contemporanee può presentare un duplice sforzo: una maggiore visualizzazione della conoscenza subordinata – quella delle cosiddette società non occidentali; e una messa in discussione dell’etnocentrismo delle “società occidentali” che hanno divinizzato la scienza come forma privilegiata di conoscenza, intervenendo nel mondo naturale e sociale con la sua derivata tecnologica. 

Come mostra Chakrabarty (2000) in merito al rapporto tra disciplina storica e “passati subalterni”, le antropologie egemoniche non solo spesso continuano a squalificare, a favore di rivendicazioni disciplinari, la conoscenza sottomessa e subordinata delle popolazione studiate dall’antropologo, ma operano anche una serie di distinzioni che stabiliscono ciò che è “pensabile” e un insieme di dicotomie che discretizzano, per esempio, tra mondo e rappresentazione (Mitchell, 2000), tra realtà e fabbricazione, tra passato, presente e futuro (Chakrabarty, 2000) e soprattutto tra natura e cultura (Descola, Pálson, 1996).

Molto spesso, in campo antropologico, alcune alterità culturali sono state rappresentate attraverso la figura dell’“Hyper Real Indian” (Escobar, Restrepo 2010) cioè da un’immagine nostalgica, idealizzata e capovolta dell’io occidentale (l’indiano che vive in armonia con la natura è un esempio tra gli altri). Di conseguenza, campo antropologico e colonialità sono strettamente legati, molto più di quanto certi antropologi sarebbero disposti ad ammettere. Alcuni studiosi (cfr. Ribeiro, 2005) sono giunti a sostenere che molti antropologi preferiscono ridurre la colonialità al colonialismo del passato, vantandosi di essere andati oltre a questa fase e adottando posizioni critiche nei confronti dell’eurocentrismo. In questo modo, in campo accademico, le pratiche istituzionalizzate, così come le relazioni di potere, configurano la produzione, la circolazione e il consumo del sapere antropologico, come anche le legittimazioni degli studiosi.

Queste “micro-pratiche dell’accademia” (Trouillot, 1991: 18) definiscono non solo una griglia di enunciabilità, autorità e autorizzazione, ma anche le condizioni di esistenza (e di trasformazione) dell’antropologia come campo disciplinare particolare. La maggior parte di queste micro-pratiche sono adottate senza revisione preventiva, costituendo una sorta di buon senso disciplinare che molto raramente è soggetto a revisione sistematica. Questo processo permette a Eyal Ben-Ari di scrivere quanto segue: «possiamo essere molto bravi a vedere come l’antropologia crea molti ‘altri’ – ‘nativi’, ‘locali’ – ma siamo meno abili nell’analizzare rigorosamente come creiamo e ricreiamo gli antropologi» (Ben-Ari, 1999: 390).

La colonialità agisce attraverso meccanismi istituzionali (come le politiche editoriali, linguistiche e il peso dei testi scritti, i format argomentativi, la sedimentazione di genealogie e riferimenti disciplinari, la formazione universitaria, ecc.) che implicano contemporaneamente l’egemonizzazione di alcune tradizioni e la subalternizzazione di altre (Escobar, Restrepo 2010).

La formazione professionale è sicuramente uno dei meccanismi di maggiore impatto sulle soggettività antropologiche e nell’incorporazione di ciò che è pensabile e fattibile. Studiare il modo, i luoghi e le persone con cui si formano le nuove generazioni di antropologi, ma anche le modalità con cui si inseriscono nel loro lavoro professionale, permette di comprendere le dinamiche di consolidamento, confronto e dissoluzione delle egemonie in antropologia. Si tratta di un aspetto veramente più profondo della semplice costituzione delle scuole con le loro figure agglutinanti, sebbene queste ultime possano entrare nell’istituzione in determinati momenti.

Indubbiamente, fin dalla formazione della disciplina sono entrati in gioco questioni di stile, di prestigio e di reti. Osservano Escobar e Restrepo (2010) come negli Stati Uniti, ad esempio, la pratica dei migliori dipartimenti si ottiene senza essere realmente messi in discussione. La gerarchia viene mantenuta principalmente attraverso il processo di assunzione. Una percentuale molto alta dei posti di lavoro disponibili a livello universitario è occupata da giovani antropologi che riproducono alcune visioni dominanti del saper fare antropologico. Ma la “disciplinarizzazione” delle soggettività antropologiche rimanda ad un livello più profondo attinente al processo di soggettivazione che crea identità disciplinari e che segna il modo in cui i soggetti vengono appresi. 

7-habermas-j-2017-teoria-dellagire-comunicativo-il-mulino-bolognaLa formazione professionale incorpora, senza riflessività, ciò che è pensabile e ciò che è fattibile. Anche le controversie tra “scuole” aiutano a riprodurre, rendendole invisibili, abitudini implicite di pensiero e di azione che si iterano nel tempo. Questo aspetto della formazione professionale permette di comprendere, per esempio, perché le antropologie egemoniche nordamericane si stiano consolidando come forme dominanti nel campo antropologico mondiale. L’imponente dimensione dell’establishment antropologico nordamericano non solo produce e nutre il maggior numero di antropologi, ma coglie anche i profili più vari in tutto il mondo. Il numero di studenti provenienti da tutti i Paesi per fare il dottorato aumenta ogni anno. Inoltre, la formazione è in gran parte egocentrica, vale a dire che i testi studiati dagli studenti sono scritti da membri delle loro università. Affermano Escobar e Restrepo (2010) che questa formazione egocentrica è molto fertile anche in Francia. Infine, gli studenti devono seguire una serie di corsi e seminari obbligatori della durata di diversi anni durante i quali sono sottoposti a un ritmo sostenuto di letture, presentazioni e saggi scritti, oggetti di qualificazione ma anche di monitoraggio permanente. Sia la fruizione dei contenuti che le modalità di argomentazione orale e scritta, sono costantemente esaminate dallo studente, sulla base di standard accademici generalmente impliciti ma che comunque fanno parte del bagaglio di comportamenti attesi. 

È proprio a questo livello, quello del buon senso disciplinare, che agiscono, per esempio, le antropologie egemoniche dell’establishment nordamericano. Questo aspetto spiega perché Paesi, come ad esempio la Colombia, stanno ricevendo una crescente influenza dalle antropologie egemoniche nordamericane: alcuni dottori in antropologia si sono laureati negli Stati Uniti e occupano posizioni privilegiate nelle università del loro Paese. Tuttavia, questa figura del mediatore è fondamentale, soprattutto nelle istituzioni periferiche, in quanto, per usare la famosa espressione della critica del «presentismo etnografico» e della «politica antropologica della rappresentazione» (Jimeno, 2005), consente di costruire un’autorità disciplinare anche al di fuori dei Paesi che strutturano le antropologie egemoniche. Tuttavia, nota Mitchell (2000), gli argomenti vengono comunque sempre trasformati dal loro contesto locale di enunciazione, dando origine a creazioni originali. A tal proposito, Carlos Alberto Uribe chiarisce, per esempio, che in Colombia: 

«Per essere un buon docente universitario […] bisogna essere un buon mediatore di antropologia metropolitana, cioè optare per una posizione mimetica, nei confronti di un centro o di centri di produzione metropolitana di conoscenza e, soprattutto, con le figure tutelari di ogni ceppo» (Uribe, 2005: 76). 

Secondo Yamashita, Bosco ed Eades, lo stesso vale in Giappone: «molti antropologi adottano una strategia di costruzione delle loro carriere affidandosi alla spiegazione e all’interpretazione di teorici particolari con il pubblico locale» (Yamashita, Bosco, Eades, 2004: 8).  Tuttavia, se determinate formulazioni teoriche, posizioni o particolari autori hanno effetti critici sulle istituzioni centrali, quando sono ripresi in modo decontestualizzato e caricaturale, possono diventare alla fine un ingranaggio in più nella ruota della colonialità e servire a consolidare i singoli nelle loro carriere naturalizzando la geopolitica della conoscenza. Tuttavia, affermano Escobar e Restrepo (2010), questa figura del mediatore può essere sostituita da quella dell’insorto che si appropria, contestualizza e addirittura rifiuta le formulazioni teoriche e gli autori delle egemonie antropologiche, per utilizzarle in un nuovo contesto. Talvolta studiosi egemoni gli permettono di rivoltarsi contro certe figure dominanti all’interno di istituzioni periferiche. Tuttavia, quando la figura dell’insurrezionale è stata “doppiata” dai rappresentanti emblematici dell’autorità accademica egemonica nelle enclave più prestigiose e visibili delle istituzioni centrali, le possibili rotture nella tradizione possono irritare l’élite antropologica locale, che ne trae il prestigio e i privilegi dalla naturalizzazione di questa tradizione. I due studiosi osservano inoltre che gli studenti di antropologia dei Paesi periferici che si specializzano nei Paesi egemoni in cui si legittimano le basi teoriche dell’antropologia, costruiscono generalmente due tipi di legami: da un lato tendono a relazionarsi con ricercatori che hanno un tema di studio nel loro Paese e che viaggiano per raccogliere informazioni; e dall’altro si rapportano con la figura dell’“autorità antropologica” di cui partecipa alle lezioni o ai seminari. 

9-ben-ari-e-shimizu-a-eds-anthropology-and-colonialism-in-asia-and-oceania-hong-kong-curzonLe università e le istituzioni alla periferia del campo antropologico globale si limitano alla formazione iniziale degli antropologi locali e prevedono una sorta di rito di passaggio attraverso i centri dominanti per ottenere un’autorità antropologica. Questo atteggiamento, che Escobar e Restrepo (2010) chiamano “mentalità di periferia”, contribuisce anche all’egemonizzazione di alcuni studiosi e alla “subalternizzazione” di altri. Un aspetto evidente di questa strutturazione del potere della disciplina si nota, secondo gli autori, nell’imposizione dell’inglese che va considerata come uno dei meccanismi di colonialità di alcune comunità antropologiche. Non scrivere in inglese (e un tempo anche in francese, nonostante quest’ultimo da lingua metropolitana ha progressivamente perso importanza nei circuiti della letteratura antropologica) per incapacità o come specifica strategia argomentativa, provoca una sorta di malinteso. 

L’attuale assolutismo dell’inglese (e di alcune capacità di scrittura) è quindi l’espressione dei rapporti di potere ripresi dalle politiche editoriali e traduttive (Ribeiro, Escobar 2006). A tal proposito, anche le riviste specializzate e l’editoria sono spazi in cui si costruiscono e si contestano le forme egemoniche dell’antropologia (non tutte le riviste specializzate o le case editrici condividono, sia chiaro, la stessa posizione). Affermano gli studiosi che la distribuzione ineguale del “prestigio” fa parte della stessa rete di risorse e controversie passate, le quali si proiettano però anche nel presente e categorizzano queste riviste e case editrici. Una buona parte delle antropologie egemoniche si impone pertanto sotto forma di testi (articoli, libri), esprimendo non solo politiche editoriali, ma anche contenuti e modelli di strategie argomentative (citazioni, linguaggio utilizzato, ecc.). Ad esempio, il contenuto della rivista American Anthropologist (pubblicata dall’American Anthropological Association) rivela un’antropologia che si basa sul modello dei quattro rami di Boas e si costituisce come uno degli assi del buon senso disciplinare americano, mantenuto grazie alla sua inerzia istituzionale.

È chiaro che, sia nelle loro forme cartacee che in quelle elettroniche, il volume e l’impatto delle riviste specializzate e degli editori negli stabilimenti metropolitani – soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – contribuiscono a consolidare le egemonie in antropologia, plasmando le pratiche su cosa si può argomentare. Come ci raccontano Yamashita, Bosco ed Eades: «L’editoria in Occidente richiede competenze in linguaggi teorici e stili di scrittura complessi e mutevoli, difficili da acquisire e da tenersi aggiornati per coloro il cui inglese non è la lingua madre» (Yamashita, Bosco, Eades, 2004: 7). Questi processi che definiscono ciò che è “discutibile” sono modellati anche da attività che comprendono congressi disciplinari in cui la parola e il silenzio sono abilmente orchestrati. 

Infine, è impossibile non considerare le pratiche legate alla figura dei valutatori nel posizionamento e nella dissoluzione delle pratiche egemoniche dell’antropologia e le modalità concrete di “disciplinarizzazione”. Escobar e Restrepo (2010) affermano: 

«Chiedersi chi valuta chi, secondo quali criteri e con quali implicazioni, costituisce uno dei terreni più potenti dove le egemonie si disputano e si riproducono e dove gli individui devono sottomettersi alle aspettative della disciplina» (Escobar e Restrepo 2010). 

Negli Stati Uniti, ad esempio, è onnipresente la figura del valutatore, che generalmente agisce dietro le quinte, emanando concetti intoccabili e irreversibili. Più vicino al manager d’industria che all’artigiano della sua bottega, egli interviene dalle fasi della formazione degli studenti al finanziamento di progetti di ricerca, alla pubblicazione dei risultati, all’assunzione fino al licenziamento (Fox, 1991: 9).

12-american-anthropologistCosì, come sostiene Brenneis (2004: 582), gli antropologi nordamericani, prima ancora di trovarsi nelle condizioni propizie alla scrittura di testi sulla cultura (consentendo così la possibilità di dibattere sulle rappresentazioni etnografiche), devono cercare finanziamenti per la loro ricerca in modo che un pugno di valutatori ne decida la validità, li accetti o li rifiuti. Successivamente, dopo aver ottenuto il finanziamento e aver «scritto di cultura», i valutatori tra pari intervengono nuovamente nei processi di pubblicazione e riconoscimento dei risultati ottenuti. In questo modo, la “corporativizzazione” della produzione accademica avviene attraverso la definizione di criteri di “qualità”, indicizzazione delle riviste specializzate, valutazione dei risultati istituzionali e individuali applicati meccanicamente. 

Conclusioni 

Questa analisi riguarda tanto la critica delle pratiche naturalizzate delle antropologie egemoniche, quanto la costruzione di nuovi orizzonti per la pratica antropologica che implicherebbe poi la trasformazione dei termini, delle condizioni e dei luoghi di conversazione e scambi antropologici. Un progetto plurale di antropologia, o “antropologia del mondo” come alcuni l’hanno definita (cfr. Cardoso de Oliveira, 2000), implica quindi una riarticolazione del pensiero antropologico, situando la disciplina in una posizione che le permetta di prendere sul serio l’economia del potere che l’ha plasmata fino ad oggi. La sua importanza storica potrebbe essere anche oggetto di interesse e di analisi in relazione ad un mondo in cui le diversità, le molteplicità epistemiche e le ontologiche sembrano riapparire con una forza inaspettata. 

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022 
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.

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