per Luigi
di Laura Faranda
«Luigi ha scritto, per “Dialoghi Mediterranei” uno tra i suoi ultimissimi articoli, se non l’ultimo. […] Ne riporto un passo significativo: “sento spesso ripetere con aria sprezzante giudizi sui giovani d’oggi come totalmente irretiti dalla ideologia dell’apparire e da un edonismo perverso, che li condanna, senza rimedio, a un destino di superficialità. Per la familiarità che ho con le diverse istituzioni accademiche italiane, che continuo a frequentare per convegni e seminari, posso affermare che ho trovato giovani estremamente preparati e protesi in un progetto di auto formazione ed etero formazione, articolata e complessa”.
[…] Che un professore abbia potuto attraversare tutta la sua vita accademica, scientifica e culturale, portando con sé questa luminosa fiducia in chi viene dopo (e in chi ulteriormente verrà), lo trovo uno dei suoi più alti e poetici insegnamenti».
Ho voluto richiamare alla lettera le parole di Francesco Faeta, che in questa stessa rivista chiude il suo denso ricordo mettendo a giorno la generosità e la fiducia mai tradita di un professore nei confronti dei suoi giovani studenti; ricomincio da qui, per dare voce a una memoria ancora afona e per legittimare il ritorno a un passato che – in un tempo ancora pervaso dal sentimento di lutto – rigeneri alcuni tra gli snodi più significativi del mio rapporto formativo, intellettuale, umano con Luigi Lombardi Satriani. Un rapporto che consegnerò a una metafora inscritta nel cuore della nostra disciplina, al motivo del viaggio da intendere come esperienza reale ma anche come ponte dialettico dell’incontro, terra elettiva di uno spaesamento temporale, spazio liminare di un tempo sospeso tra la cifra lineare e quella nostalgica.
Il mio viaggio con Luigi parte da lontano. La prima stagione formativa coincide con il 1983, ma l’avvio comincia in realtà qualche anno prima, in una notte insonne dedicata alla preparazione dell’esame di Storia delle Tradizioni popolari, che sostenni nel novembre del 1977 con Diego Carpitella e Aurora Milillo. La lettura appassionata di un suo saggio, incluso da Carpitella nelle dispense destinate agli studenti – Analisi marxista e folklore come cultura di contestazione – fu come la luce inattesa in un tunnel. Erano gli anni di piombo, anni nei quali il conflitto politico divampava tra le classi e in tutti i luoghi del sapere; anni aspersi di sangue che preludevano a un’agonia senza ritorno del dibattito politico e del movimento di contestazione studentesca. Le riflessioni presenti in quel saggio aprivano orizzonti innovativi, incoraggiavano noi giovani studenti a ripensare in termini costruttivi non tanto il tramonto di una stagione politica quanto le potenzialità storico-filosofiche del pensiero marxista. Quelle pagine (assieme agli altri testi proposti da Carpitella nel suo programma) incisero profondamente sulla mia formazione e sul mio transito convinto dal curriculum di filologia classica a quello di antropologia culturale.
Il primo incontro reale con Luigi non tardò di molto e fu promosso dalla felice mediazione di Vito Teti – che avevo conosciuto in occasione della presentazione del suo primo libro (Teti 1976), al Circolo “Gianni Bosio” di Roma – in una serata estiva di cui conservo ancora viva memoria. Oltre a Luigi c’erano Marinella Amendola, Francesco Faeta, Marina Malabotti, Bianca e Mariano Meligrana, Salvatore Piermarini e ovviamente Vito Teti. Si respirava un clima conviviale carico di allegria, complicità, intimità; lo sguardo sul futuro era lucido e al tempo stesso luminoso, appassionato.
A distanza di qualche anno fu Diego Carpitella a incoraggiarmi a un secondo incontro, alla vigilia del primo ciclo concorsuale di un dottorato di ricerca. Avevo pubblicato da poco un volumetto a carattere divulgativo sulle tradizioni popolari in Puglia (Faranda 1983) e Carpitella mi suggerì di incontrarlo per chiedergli qualche indicazione sul percorso dottorale e per fargli dono di quel primo lavoro.
Il mio itinerario formativo con lui ebbe inizio in quell’occasione: è stato un viaggio denso e straordinario, caratterizzato da un costante sentimento di fiducia, attenzione, confronto, affetto e profondo rispetto. Basti pensare alla generosità con cui sostenne la mia ambizione a intraprendere la ricerca dottorale – dalla quale ebbe origine la monografia Le lacrime degli eroi (Faranda 1992) – sul versante dell’antropologia del mondo antico. In anni nei quali gli steccati disciplinari delle scuole filologiche e antichistiche italiane apparivano ancora poco valicabili, la fiducia di Luigi riuscì ad affrancarmi dai precetti e dagli ammonimenti severi di una formazione altamente esoterica; la sua lungimiranza mi assicurò il supporto e il sostegno qualificato di studiosi come Alfonso Di Nola o Nicole Loraux, ai quali chiese una vigilanza serrata sul mio lavoro che avrebbe integrato sul fronte filologico e storico-religioso la sua sorveglianza antropologica.
Il ponte di san Giacomo (Lombardi Satriani, Meligrana 1982) fu il mio primo viatico comparativo verso una Grecia antica da indagare come luogo di incubazione antropologica di una koine mediterranea, di un linguaggio dei sentimenti da ricondurre al dispositivo narrativo della parola mitica e dell’azione rituale. Il resto lo ometto: rinuncio a retrospettive impraticabili e provo piuttosto ad ancorare il ricordo ad altri scenari di incontro, ai luoghi reali che mi hanno vista “compagna di viaggio” di Luigi.
La Casa-museo di Antonino Uccello, a Palazzolo Acreide, fu il primo viaggio condiviso e la prima occasione di illuminante apprendistato. Conoscevo già quel luogo: ne avevo colto i tratti di innovatività e originalità studiandone la restituzione di Alberto Cirese in Oggetti, segni, musei, un testo incluso nei suoi programmi d’esame (Cirese 1977). Cosicché nell’agosto del 1978 decisi di visitare la Casa-museo ed ebbi la fortuna insperata di conoscere Antonino Uccello. Era direttamente lui che organizzava nelle prime ore del mattino la visita guidata fra le stanze di Palazzo Ferla, pervase dall’odore inebriante del pane appena sfornato da sua moglie Anna. Ospite accogliente e generoso, Uccello sapeva coniugare, da testimone lucido della cultura popolare, tanto la qualità descrittiva degli oggetti che andava mostrando quanto la fitta rete di connessioni storiche e simboliche nella quale andavano inseriti. Al termine della mattinata mi fermai lungamente a parlare con lui e lo salutai con la convinzione che la Casa-museo e la sua storia fossero una cosa sola, che degli oggetti che ci aveva insegnato a conoscere e riconoscere condividesse la storia e l’anima.
Quando nell’agosto del 1984 ritornai con Luigi a Palazzolo Acreide Antonino Uccello non c’era più. Poco prima della sua scomparsa la Regione siciliana aveva acquisito parte della casa e delle collezioni. Luigi era stato incaricato, assieme ad altri studiosi, di procedere a un primo lavoro di ricognizione e catalogazione dell’immenso patrimonio etnografico e alla vigilia di una sua trasferta mi propose di accompagnarlo, per affiancarlo nella compilazione delle schede di catalogo FK, allora in uso per la catalogazione di beni materiali (Tucci 2018: 41). Di quelle settimane di lavoro ricordo anzitutto lo sgomento, il senso di viva preoccupazione manifestato da Luigi per il destino di una collezione in transito verso una gestione pubblica, che già nel processo di istituzionalizzazione museografica rischiava di offuscare e neutralizzare i decenni dedicati da Uccello alle cure, al sapere, alla memoria locale, alla libertà operativa e creativa (Faeta 2021: 91-94).
Forse per esorcizzare questa ansia o forse per seguire con analoga umiltà il solco tracciato da Uccello, Luigi aveva preso l’abitudine di convocare quasi ogni sera – grazie alla mediazione selettiva del figlio di Antonino, Sebastiano Uccello e della vedova, la signora Anna – le donne più anziane, i contadini o i pastori del paese con i quali sentiva il bisogno di confrontarsi, per cercare di integrare ciò che rimaneva inevaso nel corso della compilazione delle schede. Dai dettagli sulla fattura di un collare bovino alla pittura su vetro raffigurante san Sebastiano; dalla ricorrenza di un motivo floreale alla consistenza dei grani di un rosario, le domande incalzanti di Luigi (formulate in un disinvolto dialetto calabrese) davano vita a colloqui di grande intensità e intimità, che mi pento di non avere registrato.
Accanto a lui, in quelle giornate di agosto, ho avuto modo di rigenerare in una nuova prospettiva critica la relazione necessaria auspicata da Cirese tra il meta-linguaggio di un museo e l’immediato ordine vitale degli oggetti, quando, a proposito della Casa-museo, segnalava come un interno ricostruito a Palazzolo Acreide fosse «un interno di Palazzolo Acreide fissato a Palazzolo Acreide, e dunque con un coefficiente di veridicità ambientale altissimo» (Cirese 1977: 48-49).
A distanza di più di un decennio, forse anche perché memore di quella stagione di ricerca, Luigi Lombardi Satriani scriverà nell’introduzione a un volume dedicato alla Casa Museo:
«Antonino Uccello si rivolge sia direttamente ai suoi conterranei che alla letteratura demologica e aggrega testimonianze folkloriche acquisite nelle sue ricerche sul campo e attinte dalla letteratura specialistica secondo specifici quadri problematici […]. Ma ciò che spinge Antonino Uccello a tale continua opera di rilevazione, sistemazione critica, presentazione degli aspetti significativi della sua terra non sono soltanto motivazioni scientifiche, indubbiamente essenziali per l’attività di uno studioso. Agiscono, infatti, con non minore carica di sollecitazione, anche motivazioni di ordine etico-politico. Antonino Uccello non si limita a studiare i protagonisti della fascia folklorica: vive con loro, partecipa del loro orizzonte culturale, ne condivide un progetto complessivo di liberazione dal dominio» (Lombardi Satriani 1995: 12).
La memoria di un secondo viaggio illuminante insieme a Luigi Lombardi Satriani ci porta in un Sud molto più lontano. Nel 1991 – consapevoli delle possibili linee di contiguità tra gli studi sulla migrazione italiana all’estero e la recente ondata migratoria dall’Africa sub-sahariana verso l’Italia – avviammo una ricerca sugli immigrati senegalesi a Roma che fu pretesto per un viaggio in Senegal. Dopo qualche mese di frequentazione, avevamo concordato con due giovani wolof conosciuti in un’associazione romana (Daouda e Mahra, cugini paralleli, rispettivamente di 40 e 30 anni) la possibilità di seguirli durante alcune tappe del loro rientro temporaneo in famiglia. Ci avevano parlato a più riprese di uno zio molto autorevole – un marabut della confraternita muride fondata da Cheikh Ahmadou Bamba – che risiedeva a Bakhoum Darou, un villaggio non distante dalla famosa moschea di Touba e che spesso si spostava anche a Dakar, per incontrare i confratelli, accogliere le loro richieste, decifrare i loro sogni. Del viaggio e di questo incontro Luigi ha richiamato in anni recenti un breve ricordo:
«Nel febbraio del 1992 ho trascorso un soggiorno di studio a Dakar, con l’obiettivo di monitorare un progetto di ricerca finalizzato alle esperienze migratorie di alcuni giovani senegalesi di etnia wolof. Con la mia allieva Laura Faranda abbiamo seguito gli itinerari di due cugini paralleli rispettivamente emigrati in Germania e in Italia e temporaneamente rientrati in patria. È stata un’occasione di grande intensità etnografica, che mi ha consentito di entrare nella vita domestica di una famiglia di Pikine (popolosa periferia della capitale) e di seguire le tappe di un ritorno che rappresentava per i due ragazzi un’occasione di autorappresentazione e di riconoscimento sociale e al tempo stesso li risarciva delle privazioni e dei momenti difficili di un anno solare. Di quell’esperienza ricordo in particolare la figura di un marabut della confraternita muride, zio dei due ragazzi, che ci accolse con grande rispetto e con generosa disponibilità nella sua casa, in un villaggio non distante dalla moschea di Touba, dandoci testimonianza del suo impegno confessionale e in particolare della sua consuetudine all’incubatio divinatoria. Non dimenticherò la sua “stanza dei sogni”, nella quale trascorreva le ore pomeridiane o notturne traendo ispirazione onirica da una preziosa valigia appartenuta al leader religioso Cheikh Ahmadou Bamba e da un tendaggio color verde acceso, costellato e animato dai personaggi di Walt Disney (Qui Quo Qua, Paperino, Topolino, Pippo, Pluto e l’immancabile Banda Bassotti)» (Lombardi Satriani 2019: 350-351).
Alla nostra richiesta di spiegarci chi fossero quei personaggi e come mai erano state scelte quelle tende, nessuno seppe darci una risposta. Luigi – assiduo e devoto lettore serale dei classici di Walt Disney – accolse tuttavia quell’indizio come un segno inequivocabile di consonanza tra mondi, culture e miti d’oggi. Dopo una lunga dissertazione sulle origini dei legami religiosi tra i villaggi di Bakhoum Darou, Darou Salam e Touba, al momento del commiato il nostro ospite decise di scortarci fino alla moschea di Touba. Lì ci salutammo, assecondando la sua proposta di una preghiera condivisa, mentre Daouda e Mahra piangevano calde lacrime.
Il soggiorno a Dakar ci vide impegnati anche in incontri di grande interesse con il mondo accademico locale. Fruttuosi, ad esempio, i colloqui con Ibrahima Diawara, un docente di lingua italiana attivamente impegnato nel Coordinamento Associazioni Senegalesi in Italia (CASI). Fu lui a promuovere un contatto con il sociologo e antropologo Abdoulaye Bara Diop, direttore dell’IFAN “Cheick Anta Diop”, che ci accolse con generosità, ci mise a disposizione prezioso materiale di consultazione e ci incoraggiò ad affrontare il fenomeno migratorio transnazionale solo dopo aver studiato i meccanismi di urbanizzazione e di migrazione interna al Senegal, questione che lui stesso aveva affrontato in un volume dedicato alla società e alla conformazione della famiglia wolof (Bara Diop 1985). Luigi non esitò a proporgli di raggiungerci in Italia nell’anno accademico successivo, per trascorrere alla “Sapienza” un soggiorno come Visiting Professor; invito che Bara Diop accolse con molto entusiasmo ma che non riuscì a onorare, per sopraggiunti impedimenti familiari.
Di quel viaggio ho vivo anche il ricordo di un Luigi fino allora a me sconosciuto: fatta eccezione per le occasioni e i confronti istituzionali, mi colpiva la sua inconsueta propensione al silenzio, la mestizia che lo accompagnava nelle giornate di lavoro, una postura spesso sommessa e spaesata, soprattutto nelle frequenti occasioni conviviali che ci videro ospiti per intere giornate a casa di Daouda. Non si trattava solo di un’ovvia difficoltà di comunicazione linguistica: credo che incidesse molto la stretta separazione per generi dello spazio domestico. Dopo un pasto condiviso con i familiari, gli uomini si ritiravano infatti nell’area della casa a corte destinata a loro e trascorrevano l’intero pomeriggio discutendo e bevendo tè. Così, mentre le mie ore scorrevano in un clima di serena condivisione delle attività femminili (il compito assegnatomi, in segno di piena accoglienza, era tenere in braccio i bambini più piccoli mentre le madri stiravano), quelle di Luigi si consumavano seduto accanto a Daouda, che nella sua stanza privata riceveva in visita un corteo inesauribile di amici, esibendo con orgoglio l’amico-professore, il che amplificava il rispetto e la stima dei coetanei. In compenso la sera, al rientro in albergo, la sua memoria strabiliante aveva registrato ogni dettaglio e il suo resoconto della giornata diventava spesso esercizio sfibrante di uno sguardo comparativo tra la famiglia wolof e quella tradizionale calabrese. Era come se il suo “campanile di Marcellinara” ritornasse ad animare e illuminare le prime intuizioni di un’avventura etnografica fin lì mai esperita. Ne parlai lungamente, al rientro, con sua moglie Bianca, che confermò le mie impressioni e mi restituì a sua volta la visione irrituale di un Luigi viaggiatore malinconico e nostalgico.
L’ultima evocazione di questo viaggio mi porta alle visite negli spazi e nei luoghi di commemorazione della morte, in quei cimiteri islamici nei quali alle donne locali non era consentito l’accesso né la partecipazione ai rituali funebri e che Luigi amava frequentare. Un giorno raggiungemmo il cimitero di Pikine mentre si svolgeva il rito solitario e silenzioso di un padre che dava sepoltura a un neonato di quattro giorni. Il rituale prevedeva il lavaggio del corpicino, che venne deposto in una stanza interna su un tavolo in pietra e deterso con l’acqua, quindi avvolto in un ampio telo di cotone e infine accompagnato al luogo di sepoltura (una fossa scavata direttamente dal padre) rivestito temporaneamente con un drappo rituale. Esitavamo ad avvicinarci ma Daouda ci sollecitò a farlo e a dedicare una preghiera a modo nostro. Dopo la sepoltura, il padre del bambino si avvicinò assieme a un fratello e ci salutò con commozione. Ci disse che “Dio parla tutte le lingue”, che quindi aveva certamente ascoltato anche noi e che ci era grato per aver voluto offrire una preghiera per il suo bambino.
Anni dopo, nel 1998, durante un soggiorno condiviso in Tunisia rievocammo questo episodio in un convegno dedicato ai movimenti migratori da Sud a Nord del mondo, organizzato a Tunisi dall’Istituto italiano di cultura. Luigi era invitato nel duplice ruolo di antropologo e senatore della Repubblica: fu quindi un viaggio istituzionale, ma non per questo meno denso. In quella occasione avemmo modo di visitare lo storico quartiere de La Goulette (la Petite Sicile) e di ripercorrere alcuni paesaggi memorabili della imponente migrazione italiana in Tunisia, contemporanea alla più nota diaspora oltre-oceano e quasi integralmente rimossa dalla storia ufficiale. Ipotizzammo allora la possibilità di dare vita a un progetto di ricerca, a un accordo di collaborazione scientifica fra i due Paesi che in realtà avrebbe avuto corso solo diversi anni dopo, nel 2012, e che a tutt’oggi mi vede impegnata sulla sponda tunisina in una ricerca sulla religiosità di segno femminile e in un accordo di collaborazione scientifica tra l’università “Sapienza” di Roma e l’università “Manouba” di Tunisi.
Di segno del tutto diverso l’esperienza di viaggio condivisa in Mali nel 2006, che ancora una volta preferisco introdurre con le parole di Luigi.
«Nel febbraio del 2006 ho effettuato un sopralluogo in Mali, nella Falesia di Bandiagara, accostandomi alla cultura dogon – studiata com’è noto da Marcel Griaule, il più rappresentativo dei Maestri dell’etnologia francese tra le due guerre. In quell’occasione sono stato ospite dell’etnopsichiatra Piero Coppo e dalla sua compagna, Lelia Pisani, ricercatori di lungo corso che in quell’area, negli anni Ottanta, hanno dato vita al Centro Regionale di Medicina Tradizionale di Bandiagara. Il soggiorno, cui presi parte anche con un co-finanziamento di ateneo assegnato alla mia cattedra, era finalizzato a un progetto di ricerca finanziato dall’Università “La Sapienza” e coordinato da Laura Faranda, che dal 2005 al 2009 ha lavorato a un progetto di salvataggio, rigenerazione informatica e valorizzazione degli Archivi del Cercle di Bandiagara. Un patrimonio archivistico che testimonia le varie stagioni coloniali dell’amministrazione francese, i soggiorni costanti di Marcel Griaule nonché la documentazione relativa ai funerali che i Dogon vollero riservargli, con una solenne cerimonia (il Dama) che si tenne nel maggio 1956, a qualche mese dal suo decesso, secondo la consuetudine locale. La ricerca in Mali avviata in quegli anni ha subìto purtroppo una brusca interruzione in seguito ai conflitti politici sfociati in un colpo di stato nel marzo 2012, che a tutt’oggi rendono quel terreno impraticabile a studiosi europei. Nel corso di questa mia esperienza ho avuto modo di apprezzare le doti di ricercatore di Fabrizio Magnani, attento conoscitore del suo “terreno” e fine interprete dei dati via via raccolti, che hanno dato vita a una monografia di grande interesse» (Lombardi Satriani 2019: 351-352).
Ritorna anche qui la “luminosa fiducia” di Luigi nei giovani studiosi, la sua attenzione verso il loro impegno appassionato e verso le loro nuove piste di ricerca. Ma gli esiti più intensi di quel viaggio andranno a mio avviso accordati a un altro incontro. Il soggiorno maliano segnò infatti l’avvio di un profondo rapporto di amicizia e consonanza intellettuale con Piero Coppo, padre dell’etnopsichiatria di matrice italiana (Faranda 2021). In compagnia di Piero, sostenuto dalla sua passione non ancora sopita dopo trent’anni di frequentazione della cultura dogon, Luigi diede prova di una resistenza e di un entusiasmo inattesi. Lo seguì senza esitare in tutte le trasferte in Falesia, lo vide impegnato in intense consultazioni con i guaritori tradizionali, ne ascoltò le narrazioni sulle ricerche condotte e le inquietudini progettuali rispetto a un futuro già allora poco promettente. Ne condivise, infine, i tramonti struggenti sulla sua terrazza, che erano diventati un appuntamento quotidiano intimo ed esclusivo, interdetto a tutti; forse l’occasione per consegnare al crepuscolo le luci e le ombre di un sé narrabile che talora si disvela nel corso di un viaggio. Anche questo rapporto preferisco consegnarlo alla voce di Luigi, richiamando un passaggio del ricordo che dedicò sulla rivista Voci a Piero Coppo, all’indomani dalla sua scomparsa, avvenuta nel giugno del 2021.
«Piero Coppo, come ho già segnalato, è stato persona sempre aperta ad altre sponde, insofferente alle certezze monolitiche delle scienze dure. Ha saputo accogliere voci, saperi (e come amava dire “saper fare”) dalle persone e dai mondi culturali più diversi, cercando di onorare un principio di reciprocità dello sguardo e dello scambio (dare-ricevere-ricambiare).
Durante il mio soggiorno in Mali, mi colpiva la serenità con la quale riusciva a negoziare con i guaritori locali strategie di cura per i disagi psichici degli abitanti dei villaggi dogon (per esempio nel villaggio di Bodio). Ma anche la capacità di esplicitare, nei nostri colloqui, le connessioni praticabili di questi saperi con il mondo occidentale, con la medicina convenzionale e con le sue sfide. Resta saldo nella mia memoria, poi, l’incontro che Laura Faranda e io organizzammo nel settembre 2009 al Sant’Andrea, in una giornata di studi dedicata alla medicina tradizionale, in cui alcuni guaritori maliani dialogarono con medici e operatori della struttura ospedaliera romana. Come restano saldi nella memoria i fitti colloqui avuti con Piero al tramonto, sulla terrazza della sua casa in Mali, mentre avanzava la notte, così profonda in un’Africa non squarciata dalle luci occidentali. Resta il piacere di avere conosciuto ed essere stato amico di una persona straordinaria, quale Piero indubbiamente è stato, e cocente è il rimpianto per la sua dolorosa scomparsa» (Lombardi Satriani 2021: 390).
L’amicizia con Piero Coppo fu suggellata, a pochi mesi dal nostro rientro in Italia, da un “viaggio di ritorno” in Calabria. Nel giugno 2006, onorando una promessa fatta in Mali, Luigi volle ospitare Lelia Pisani, Piero e me a Briatico, nel villaggio S. Irene. Complice una terrazza affacciata sul mare, Piero depositava a ogni alba, davanti all’ingresso del suo appartamento, uno alla volta gli oggetti che Luigi aveva acquistato in Mali e che gli aveva consegnato prima della partenza, approfittando del suo rientro in macchina (tra questi, l’amato bastone di legno intagliato e di solida fattura descritto da Letizia Bindi nel suo contributo in questa stessa rivista). Era un rituale esclusivo, anche quello, che tacitamente autorizzava l’avvio di nuove albe condivise e le escursioni accuratamente programmate da Luigi per Piero, in segno di gratitudine per la generosa accoglienza ricevuta a Bandiagara. Ricordo, tra tutte, quella all’eremo di Santa Maria del Bosco, a Serra San Bruno, lo spazio sacro nel quale accorrevano gli spirdati, i posseduti alla ricerca di un dispositivo salvifico, di un luogo di purificazione per una sofferenza psichica che non conosce confini. In quel contesto Luigi ripercorse per noi la storia locale, la devozione popolare riservata a San Bruno per la sua potenza taumaturgica, i dettagli del rituale di liberazione degli ossessi che si svolgevano in passato nel giorno di Pentecoste e, infine, la lettura approssimativa e deludente di quel dispositivo, pubblicata da De Martino in Furore simbolo valore, i cui limiti aveva a suo tempo evidenziato nell’introduzione a quel volume (Lombardi Satriani 1980: 50). A distanza di diversi anni, Piero volle ridare alle stampe le pagine introduttive di Luigi a quel libro; un saggio prezioso, lucidissimo e complesso, che fu inspiegabilmente sacrificato nelle edizioni successive al 1980, e che Piero ripropose nel primo Quaderno della Scuola di etnopsicoterapia “Sagara”, da lui diretta, assegnandone a me una lettura critica (Faranda 2017).
Le memorie di viaggio le interrompo qui, consapevole della loro incompiutezza e della necessaria omissione di tante altre tappe. Vorrei infatti chiudere il cerchio di questo mio ricordo in sintonia con la riflessione evocata in apertura dal richiamo al contributo di Francesco Faeta: la qualità d’ascolto di Luigi nei confronti dei giovani in formazione, la generosità riservata a tutti gli studenti che lo hanno avvicinato (e amato) nei suoi lunghi anni di insegnamento e fino alla fine dei suoi giorni. Sarà il pretesto per evocare un suo ultimo viaggio nella memoria, incoraggiato proprio da uno studente, Gianluca Martini, laureatosi il 19 gennaio 2022 con tesi dal titolo Il campanile di San Costantino. Antropologia e autobiografia nell’itinerario critico di Luigi M. Lombardi Satriani.
Non più giovanissimo, riavvicinatosi agli studi universitari nella stagione pandemica, dopo anni di silenzio accademico ma con una situazione professionale e familiare ormai ben strutturata, Gianluca mi contattò nell’ottobre 2020 e fin dal nostro primo incontro manifestò l’intenzione di dedicarsi a una tesi di laurea che riabilitasse il suo percorso formativo, interrotto a fine anni Novanta. Dopo aver ascoltato la sua restituzione appassionata di quella stagione, gli proposi senza esitazione di orientare il suo lavoro verso lo studio della produzione scientifica integrale e l’ascolto “in presa diretta” dell’autobiografia di Luigi Lombardi Satriani.
La stesura della tesi lo ha visto impegnato per più di un anno in un raffinato lavoro di scavo sulla fibra critica di un padre fondatore, di un protagonista della stagione più feconda della antropologia contemporanea “in stile italiano” (Ricci 2020). Dopo aver completato lo studio di tutte le sue opere e mentre procedeva alla stesura di un primo capitolo introduttivo, ripetuti e intensi incontri con Luigi hanno accompagnato il suo viaggio; la “memoria e lo sguardo” del maestro ne hanno inverato alcune intuizioni, ne hanno integrato le piste riflessive, gli hanno consentito di avvalersi di un’occasione preziosa per sostanziare – come Gianluca ricorda nell’introduzione alla tesi – il valore dell’autobiografia come cifra antropologica di uno studioso. Il tentativo di uno studente di “capire l’uomo dall’opera e l’opera dall’uomo” è stato anche per Luigi pretesto per un viaggio inatteso nella memoria autobiografica. Piegarsi alle domande di Gianluca, ogni volta più incalzanti e più puntuali, ha rappresentato non solo un momento di temporaneo, prezioso superamento della solitudine pandemica, ma anche l’occasione per riguadagnare il valore dell’incontro, le intenzioni di verità sottese a un dialogo aperto e inclusivo che rende la vita più umana: una vita, come scrive Gianluca nell’ultima pagina della sua tesi «in cui ciascuno – guardando sé e l’altro – contribuisca a lenire le proprie e le altrui sofferenze, il proprio e l’altrui dolore, le proprie e le altrui profonde ferite».
Quegli incontri sono stati videoregistrati e i video delle interviste sono depositati nel Laboratorio delle immagini e dei suoni “Diego Carpitella” dell’università “Sapienza”, l’ateneo in cui Luigi ha insegnato per decenni. Attualmente è in corso un lavoro di montaggio che metterà a giorno il grande, ultimo dono di Luigi a uno studente: il suo ultimo viaggio di ritorno al “campanile di San Costantino”, a quella “casa di sotto” carica di storia e affollata di memorie, a partire dalla quale ha saputo accordare il racconto della propria vita e della propria ombra, il doppio sempre in partenza e quello che non è mai partito, l’antropologo errante e il suo sosia che ha nostalgia dell’altrove dove è sempre rimasto. Il compagno di viaggio ideale per quanti tra noi hanno condiviso la sua inestinguibile nostalgia di futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Riferimenti bibliografici
Bara Diop Abdoulaye
1985, La famille wolof. Tradition et changement, Khartala, Paris.
Cirese Alberto M.
1977, Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Einaudi, Torino.
Faeta Francesco
2021 L’albero della memoria. Scritture e immagini, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo
Faranda Laura
1983, Le tradizioni popolari in Puglia, Anthropos, Roma.
1992, Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica, Qualecultura Jaca Book, Vibo Valentia.
2017, Dietro le quinte. Per una rilettura dell’Introduzione di Luigi M. Lombardi Satriani a Furore Simbolo Valore, in Estasi Furore Nostalgia di futuro, I Quaderni della Scuola Sagara, Colibri, Milano: 135-150.
2021, L’eredità intellettuale di Piero Coppo. Dai guaritori dogon all’etnopsichiatria radicale, “AM – Rivista della Società italiana di antropologia medica”, 51: 11-30.
Lombardi Satriani Luigi M.
1980, Introduzione a E. De Martino, Furore simbolo valore, Feltrinelli, Milano.
1995, Introduzione a Antonino Uccello e la Casa Museo, Distretto Scolastico n. 55, Palazzolo Acreide.
2019, Vaghe stelle dell’Orsa. Il passato è futuro, LuoghiInteriori, Città di Castello 2019: 350-351.
2021, Piero Coppo, “Voci” XVIII: 388-390.
Lombardi Satriani Luigi, Meligrana Mariano
1982, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Rizzoli, Milano.
Ricci Antonello (a cura di)
2020, L’eredità rivisitata. Storie di un’antropologia in stile italiano, Cisu, Roma.
Teti Vito
1976, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell’alimentazione nelle classi subalterne, Guaraldi, Rimini-Firenze.
Tucci Roberta
2018, Le voci, le opere, le cose. La catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici, ICCD, Roma.
______________________________________________________________
Laura Faranda è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Roma “Sapienza”. I suoi temi di ricerca comprendono l’antropologia del mondo antico; l’antropologia simbolica, con particolare attenzione al rapporto tra corpo, identità di genere e linguaggio delle emozioni; l’antropologia dei processi migratori; l’etnopsichiatria e la psichiatria coloniale; le minoranze etnico-religiose e i processi di mediazione culturale tra Italia e Tunisia, fra presente e passato. È autrice di numerose pubblicazioni. Tra le monografie recenti: Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica (2009); La Signora di Blida. Suzanne Taieb e il presagio dell’etnopsichiatria (2012); Non più a sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente (a cura di, 2016), Anime assenti. Sul corpo femminile nella Grecia antica (2017); Guardami. Visioni, narrazioni, anatomie del seno (con S. Minetti, 2019).
______________________________________________________________