di Salvatore Denaro
Ancora oggi ravvisiamo lacune nei confronti del pittore Matthias Stom, nato ad Amersfoort, coinvolto dal fenomeno della pittura caravaggesca, che ha viaggiato per l’Italia dopo un apprendistato nella bottega di Gerrit Van Honthorst nella sua terra natia [1]. Attestato a Roma, intorno ai primi anni del 1630, poi a Napoli fino alla fine del terzo decennio del XVII secolo, l’artista concluse la sua attività in Sicilia (anche quest’ultima ipotesi non del tutto documentata).
Cosa lo spinse in Sicilia (un documento attesta il battesimo di un figlio nel 1640 a Palermo, in Mazzola, 1997: 70) tutt’oggi non è dato saperlo, forse era in cerca di una committenza che fosse ancora attratta dal fenomeno caravaggesco [2]: Roberto Longhi lo definisce un «romantico del vecchio movimento» (Longhi, 1973: 7).
Le incertezze ricadono anche sul suo vero nome, e se dovessimo attenerci ai pochi documenti conosciuti e alle firme apposte sui suoi quadri risulta evidente che la grafia esatta dovette essere “Matthias Stom” (Nencini, 1995: 194). Una curiosa ricerca sull’identità formale del nome del fiammingo è stata condotta da Maria Tersa Penta sulla firma opposta dal pittore in una Santa Cecilia, ora perduta, che si trovava nella chiesa dei Cappuccini a Messina: FLANDRIAE STOMUS COLORIBUS EXPREXIT.
L’autrice riporta le considerazioni fatte da Albert Blankert su una probabile deformazione fisica dello Stom, ovvero che il pittore fosse sordomuto: l’appellativo Stom che s’incontra spesso nei vari documenti significa «muto», una conferma che trova riscontro anche in altri artisti come Hendrik Avercamp e Jan Jansz che portarono questo nome. Sulla scia di Samuel Hoogstraten, nel libro pubblicato nel 1678 Inleyding tot de Hoge Schoole der Schilderkunst, documento insostituibile sulla scuola olandese del XVII secolo e classico della letteratura artistica, c’è un passo dove si narra che i muti fossero fra le persone più adatte alla pittura, esattamente come in genere si considerano i ciechi adatti alla musica. M.T. Penta pensa che la firma posta nel Martirio di Santa Cecilia, sia da intendersi proprio in questo senso (Penta, 1990: 245).
La qualità pittorica che raggiunge Matthias Stom durante la sua permanenza in Sicilia non ha eguali rispetto alla produzione precedentemente realizzata durante il suo girovagare per l’Italia, sia per l’originalità compositiva, sia perché mostra una maggiore maturità stilistica. Ed è in Sicilia che il fiammingo capta la vera intimità intrinseca di Caravaggio unendola al cromatismo cangiante di Van Dick.
L’opera di Stom che meglio riecheggia questa contiguità culturale è il Sant’Isidoro Agricola, custodito nella Chiesa Madre di Caccamo, comparabile con la Natività del Caravaggio conservata al Museo Regionale di Messina. Se infatti estrapoliamo il gruppo dei quattro astanti sulla destra del Sant’Isidoro e l’interpoliamo a quella del Merisi, notiamo che effettivamente i personaggi si dispongono in modo analogo, lungo una traiettoria diagonale che termina in entrambi i casi nel fulcro centrale della scena rappresentata: nella Madonna con il Bambino nell’opera del Caravaggio, nel miracolo del pozzo nella tela di Stom. Se poi andiamo alla ricerca dei particolari, notiamo che il vecchio calvo nella tela del Caravaggio è lo stesso modello usato dallo Stom nel Sant’Isidoro; mentre, se spostiamo l’attenzione alla posizione delle mani e delle braccia nel padrone del podere, notiamo che Stom ha ripreso quel gesto di stupore nuovamente dal vecchio calvo caravaggesco.
Per quanto riguarda, invece, il legame con la pittura di Van Dick, Teresa Viscuso afferma che è l’Assunzione del gruppo divino [3] a far pensare ad una ascendenza vandickiana (Viscuso, 1977: 115), mentre Von Scheneider, dopo aver riferito l’opera al primo periodo siciliano dell’artista ed aver rilevato che alcune caratteristiche della Madonna e del Bambino compaiono in tutte le sue Adorazioni dei pastori, sottolinea le varie assonanze del dipinto con Van Dick, Novelli e il Guercino (Von Scheneider, 1967:120).
Il Sant’Isidoro non solo segna il legame più intrinseco con l’opera del Caravaggio dal punto di vista formale, ma apre anche la nuova stagione artistica di Stom in Sicilia: la tela di Caccamo, datata 1641, risulta essere una delle prime opere che l’artista realizza nell’Isola, e da questo momento in poi si allontana progressivamente dal caravaggismo lirico francese, fra questi Simon Vouet e Valentine de Boulogne, ricongiungendosi con l’espressionismo di Gerrit Van Honthorst e Dick Van Baburen.
Tutti questi elementi, poi, si sono assimilati al fenomeno tendenzialmente totalizzante della Chiesa post-tridentina di ritualità e celebrazioni religiose, tutte accomunate da un gran fasto, che trova un elemento in comune nei due angoli opposti della Sicilia, Messina e Palermo. Infatti, se analizziamo attentamente le opere successive al Sant’Isidoro, fra cui la Cattura di Cristo di Dublino, il Martirio di San Lorenzo alla Biblioteca Casanatense di Roma, la Morte di Catone di Catania e la tela, conservata a Soncino (CR), Vespasiano fa liberare Giuseppe Flavio dalle catene, le composizioni stomeriane iniziano a farsi carico della teatralità drammatica delle feste religiose siciliane, suggestionate dalle macchine sceniche barocche.
Fra queste non possiamo non citare la festa della “Madonna della Lettera” che a Messina era caratterizzata da un tripudio baroccheggiante di “macchine” sontuosissime erette in onore della Vergine, con luminarie e altari presenti nelle maggiori strade e piazze della città, il tutto coronato con giochi di fuochi, che avevano come finalità principale l’eccitamento dei sensi ottenuto attraverso l’esaltazione delle impressioni tattili, olfattive, uditive, visive e del gusto (Todesco, 1983:149).
Uguale intensità febbrile era vissuta anche a Palermo, soprattutto per il Festino di Santa Rosalia che si iniziò a festeggiare dal 1625, dopo il ritrovamento delle reliquie della Santa in un momento in cui Palermo era flagellata dalla peste nera, e grazie al miracolo la città scampò dal disastro imminente.
Giuseppe Pitrè, nel descrivere queste cerimonie, ci informa che le classi sociali che più partecipavano erano quelle popolari, e che la maggior parte delle feste si svolgevano in quelle vie e piazze dove vive il popolo siciliano, dove abbondano forme devozionali, cortei processionali, fuochi e luminarie, e dove le chiese presentano il massimo del loro splendore. La città di Palermo, in prossimità della festa dedicata alla Santa, si trasformava completamente: gli abitanti vivevano in funzione di quei giorni, un evento che richiamava anche gente da altri paesi vicini. Questo era lo sfondo religioso e sociale che Matthias Stom trovò in Sicilia alla fine del quarto decennio.
Per le strade si poteva assistere alle corse dei cavalli e ai carri allegorici, non mancavano «la capunatina (caponatina), li babbaluci a picchi–pacchiu (pietanza a base di lumache), la vugghiuta (la bollita), i caciotti (le caciotte) […] anche li siminzara, con le loro ceste a forma di carro trionfale cariche di semi di zucca salati e tostati richiamano la tradizione» (Pitrè, 1969: 40). Un contesto, quello descritto da Pitrè, che rispecchia vistosamente le opere del Fiammingo, fra cui l’Adorazione dei Pastori di Monreale e che invece non ritroviamo nelle altre Adorazioni o Natività (soggetti numerosi nella carriera artistica dello Stom) realizzate prima del suo arrivo a Napoli o in Sicilia, poiché presentano atteggiamenti e posture di gusto classico e più chiaramente ortodosso [4].
Ecco dunque che cosa accade alla pittura di Matthias Stom: le composizioni vengono organizzate come quinte scenografiche. Da questo momento in poi il fiammingo inizia ad adottare tele di grandi dimensioni per le sue opere. I personaggi-attori si animano vorticosamente all’interno del piano pittorico, e spesso le sue composizioni sono mosse da forti tensioni drammatiche. I tagli orizzontali delle sue tele, con l’ingresso delle figure da destra e viceversa, creano un cinematismo che danno luogo a dei “moti ondosi” visibili su tutta la tela: è tipico il caso della Cattura di Cristo nella collezione Cambiaso di Genova, in Sara che presenta Hagar ad Abramo (al Konstmuseum di Gothemburg), ma soprattutto nella Morte di Bruto (collezione privata). “L’effetto onda” che mette in moto Stom nella Morte di Bruto è generato dalle posizioni oblique dei personaggi che, attraverso il loro sbilanciamento, protendono verso il protagonista della tela.
Diversamente alle altre opere illuminate artificialmente, la tela di New York si distingue per la fonte di luce emanata da una finestra che si trova alle spalle di Bruto, così da creare delle forze contrapposte tra l’illuminazione offerta impetuosamente dalla finestra e il gruppo degli astanti che dirigono in fretta e furia su Bruto, causando una “sospensione fotografica” che si raccoglie al centro della composizione. I contrasti compositivi, poi, sono scaturiti dalla capacità di Stom di mettere in mostra gli sfavillanti tessuti che indossano i soggetti, ricchi di piegature e ondulazioni, dalle tonalità sgargianti come gli azzurri e il verde smeraldo: è un’opera davanti alla quale il fruitore rimane attonito e emozionalmente coinvolto dalla enfasi scaturita dall’intera composizione, che portò F. Abbate a descrivere le composizioni di Stom come una «sorta di iperrealismo» (Abbate, 2002: 118).
L’opera si avvicina per le sue affinità coloristiche all’Adorazione dei Magi del National Museum di Stoccolma, che a sua volta si accosta all’Adorazione dei Magi custodita al Central Museum di Utrecht A. Bloemaert: questo accostamento si rafforza se pensiamo che un’incisione dello stesso dipinto è pure conservato ad Utrecht. Siamo in un tempo in cui il caravaggismo è ormai diventato un linguaggio quasi obsoleto (siamo già nella seconda generazione caravaggesca) e Stom cerca con la sua pittura di riproporre uno stile che possa in qualche modo soddisfare i committenti siciliani, in linea con l’ambiente culturale isolano aristocratico di chiaro carattere sfarzoso, ma soprattutto «verso una forma d’arte nuova ed esotica» (Matranga, 1922: 431).
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, come ha saputo distinguere Benedict Nicolson (1977: 233-234), le opere siciliane sono contrassegnate da fattezze più pastose e argillose con tonalità tipiche della terracotta; inoltre, presentano creste, crepe e solchi, che ricordano la pittura del tremendo impasto, diffuso dal maestro anonimo dell’Annuncio dei Pastori che Stom poté aver visto durante la sua permanenza nella città partenopea.
Tipico dello Stom, durante la sua carriera artistica, è l’uso di fare ricorso frequentemente alle stesse disposizioni e agli stessi modelli per le sue tele. Due esempi sono il Sansone arrestato dai Filistei alla Galleria Sabauda di Torino e la Morte di Catone al Castello Ursino di Catania: la quinta scenografica rimane uguale, le vicende si svolgono analogamente in un ambiente con un sipario che si snoda sullo sfondo ed un letto in secondo piano, ora con Catone morente a Catania, ora con Sansone sorpreso dai filistei a Torino, e con gli stessi personaggi che mostrano le stesse parvenze drammatiche in merito all’evento in atto; c’è persino lo stesso cane ritratto in entrambe le tele. Le pose dei personaggi, fra cui le gesta delle mani e il modo di avanzare nello spazio pittorico, sono esempi di come i soggetti stiano recitando una parte del canovaccio scritta dall’autore.
Voss, che nel 1908 compì il primo studio sistematico su questo artista (in un tempo in cui il pittore era stato quasi dimenticato nel panorama della storia dell’arte), descrive la tela di Torino come un cast di personaggi riuniti in uno spazio ristretto intorno alla torcia che sostiene in mano il bambino (Voss, 1908: 996). C. Matranga accosta l’opera di Catania alla già citata Cattura di Sansone, mentre, secondo Davì, da questo dipinto «deriverebbero il disegno e la disposizione delle figure nonché alcuni particolari, quali l’ampio tendaggio dello sfondo, la stoffa rigata del guanciale, la forma e l’altezza del letto», inoltre considera il Catone come una delle opere mature dello Stom per via dell’abbandono dell’illuminazione honthorstiana per aderire alle formule caravaggesche (Davì, 1985: 242-244). Nicolson, invece, evidenzia nelle ultime due opere citate, le posture «congelate» dei personaggi e considera la tela di Catania come una «marvellous canvas» (Nicolson, 1977: 234).
La tela con Catone faceva parte della collezione dei dipinti in possesso del presidente della suprema Corte di Giustizia di Palermo G. B. Finocchiaro, poi donata al comune di Catania, giunta per via di mare dal capoluogo isolano il 18 novembre 1826 (Ardizzone, 1927: 37). Padre Fedele da San Biagio dice di aver potuto ammirare la tela di Catania insieme ad un «Seneca svenato» in casa del Conte Federico, e aggiunge che vi sono «molto copie in Palermo in varie case di Signori, che credono essere originali» (Padre Fedele da San Biagio 1788, ed. 2002: 172).
Le molte copie e repliche del quadro testimoniano del successo ottenuto dall’originalità compositiva dell’opera nell’ambiente aristocratico isolano. Fra queste repliche, anche se siamo di fronte a versioni differenti, se ne segnalano due: la Morte di Catone conservata alla Pinacoteca Civica di Cento considerata non autografa da molti critici, mentre l’altra, molto simile a quella di Cento (Mazza, 1987: 164-166), conservata al Museo Nazionale della Valletta, proveniente dalla collezione Ruffo, è datata tra il ’46 e il ’49.
La Morte di Catone di Catania può essere considerata come una versione più ampliata e matura dal punto di vista strutturale realizzata dell’artista, sia per l’impostazione scenografica sia per aver costruito la composizione in senso orizzontale così da produrre un maggiore effetto rispetto alle tele del Catone di Cento e della Valletta costruite verticalmente. Un riferimento iconografico di rilievo potrebbe essere stato per lo Stom il Prometeo di Van Baburen, conservato ad Amsterdam datato 1623 e che Stom poté vedere prima di partire per l’Italia. Il Prometeo di Van Baburen presenta le stesse caratteristiche del nostro Catone, ma mentre nella tela della Valletta il riferimento è lampante, nell’opera di Catania, Stom dà una indubbia interpretazione personale del soggetto.
L’analogia proposta tra le tele di Torino e Catania è possibile applicarla anche ad altri lavori dell’artista, fra queste il Muzio Scevola conservato nell’Art Gallery of New South Wales a Sydney e il Giudizio di Salomone al Museum of Fine Arts di Houston: la scenografia non cambia e persino certe pose dei personaggi rimangono identiche. È molto probabile che una delle due opere sia la controparte dell’altra, tramite un’incisione realizzata dallo stesso Stom: questo dimostra la capacità straordinaria dell’artista ad adattare e intercambiare diversi contenuti su un’opera che in precedenza acquistava un diverso significato: da una parte il Giudizio di Salomone che appartiene ad un tema dell’Antico testamento, dall’altra il Muzio Scevola che tratta una storia romana [5].
Non possiamo non ritornare nuovamente al Sant’Isidoro Agricola di Caccamo: il vecchio calvo che compare nella tela, oltre ad essere stato ripreso da Caravaggio già discusso sopra, ricompare anche nella Cattura di Cristo di Dublino oltre che al Cristo fra i Dottori all’Alt Pinakotheck di Monaco di Baviera. L’esempio della Cattura di Cristo ci appare più eclatante: il soggetto mostra la stessa identica inclinazione del capo, nonché la stessa illuminazione. Da qui si capisce il modo di operare dello Stom in piena età matura: ovvero, la capacità di avere a disposizione una serie di elementi e combinarli fra loro, tanto da farne risultare un processo seriale nel concetto più “moderno” del termine. Questo non vuol dire che la qualità delle opere viene meno, come invece considera Matranga che parla di una «scarsa varietà d’invenzione, anzi ripetendo quasi sempre l’ordinamento delle figure e gli effetti di luce, secondo una forma prestabilita» (Matranga, 1922: 420).
Una prova ne è data dal pungente realismo con cui indaga i corpi umani, ora percorsi da vene, ora intaccati da rughe, «visti sempre da vicino, con precisione di maniaco» (Bottari, 1949: 219) mostrando elevate capacità ritrattistiche sulla scia del Dirk Van Baburen. Un esempio è dato nelle diverse varianti di donna con candela o donna in preghiera o ancora vecchia con portamonete, in cui, anche se cambia la tematica, il modello della donna non cambia: come se fosse più uno studio sulla figura umana in rapporto all’illuminazione che sull’opera in sé. La stessa donna compare, ad esempio, in un’Adorazione dei Pastori al Museo Civico di Torino: sembra che l’evidenziare di continuo le rughe dei suoi soggetti dia, tramite l’illuminazione artificiale, l’effetto di vibrazione materica della pellicola pittorica.
Inoltre ho notato che la maggior parte delle opere siciliane sono illustrate assumendo un punto di vista ribassato, facendo acquistare alle figure uno slancio maggiore, rendendole così protagoniste assolute delle opere e avanzandole in primo piano. Questo vale per le tele come San Lorenzo nella Biblioteca Casanatense di Roma, Saul e la Strega di Endor in collezione privata a Milano, il Caino e Abele e la Decollazione del Battista al National Museum della Valletta, nonché i dipinti già citati come Sara presenta Agar ad Abramo di Gothemburg, la Cattura di Dublino e di Genova e infine il Cristo fra i Dottori di Monaco di Baviera.
Fra questi risalta il Saul e la Strega di Endor, che presenta una tematica abbastanza inusuale nella storia dell’arte, ma rientra perfettamente nella manifattura del nostro artista, che ambienta la scena illuminata tramite un tizzone ardente. La tela si presenta in tutto il suo aspetto drammatico nel momento in cui la strega evoca Samuele, davanti agli occhi sbalorditi degli astanti. Stefano Bottari è stato il primo a segnalare l’opera, richiamando profili stilistici honthorstiani e riferendo a proposito della provenienza della tela che poteva essere stata collocata in una cappella o nella sala di un palazzo di Bergamo, senza tuttavia esplicitare le dovute fonti. Lo scenario rappresentato è descritto da Bottari come una curiosa quinta «dominata dall’ossuta figura di un uomo barbuto, avvolto in un panno bianco, fiancheggiato da una vecchia che sostiene la torcia illuminante la scena, vecchia che sembra intenta ad un’opera di magia o di stregoneria» (Bottari, 1964: 59-60).
Benedict Nicolson, invece, avanza dei dubbi sulla tematica rappresentata e la descrive come scena di magia, sostenendo che l’opera sia di origine siciliana, non solo per le grandi dimensioni, ma anche per l’effetto pastoso della pittura applicata sulla superficie (Nicolson, 1977: 245). Il punto di vista ribassato con l’accentuazione degli scorci fa sì che la tela si presenti con l’effetto di un impatto. Per accentuare questo fatto Stom elimina anche qualsiasi elemento che possa indurre alla profondità del campo pittorico.
La pittura dello Stom si rivela come un messaggio “presto e subito”, comunica in modo “fulmineo e folgorante”. Ma non tralascia la cura per la descrizione dei particolari, come le muscolature del torace e degli arti inferiori e oltre che per gli utensili della strega, fra questi le ampolle e le carte da gioco. La narrazione del contesto nasce e muore nello stesso tempo, quasi come se fosse un “frame fotografico” che il pittore immortala sulla superficie pittorica.
Un palcoscenico costruito ad hoc come una quinta teatrale riguarda la tela della Lapidazione di Santo Stefano. L’opera, in pendant al Miracolo della Moneta, è stata insieme ad essa recentemente restaurata dalla dott. Stefania Caramanna, ed entrambe esposte a Palermo nel palazzo Alliata Villafranca (sua sede originaria) fra l’ottobre 2010 e il gennaio 2011. Il restauro ha permesso di riportare alla luce tutte le gradazioni cromatiche tipiche della tavolozza vandkiana. Nella Lapidazione si assiste ad una scena cruenta e drammatica, ma il sacrificio della vita del santo viene in qualche modo spettacolarizzato. Realizzata come mera rappresentazione di un fatto accaduto, gli spettatori non stanno più fuori dal quadro, ma ne partecipano dall’interno. Fra questi si noti il ragazzino seduto su un masso alla destra della tela in qualità di spettatore che si rivolge verso il “vero” fruitore al di fuori del quadro, mentre il ragazzo sulla sinistra che sta per raccogliere la pietra, girandosi verso lo spettatore, ha tutta l’aria di un attore consapevole del suo atto recitativo.
Di simile impostazione scenografica rientra una tela di ubicazione ignota, in passato nelle collezioni siciliane: si tratta di un martirio di un santo, che in preghiera è accerchiato dai suoi aguzzini in atteggiamenti più da sberleffi (come nel Cristo Deriso al Castello Usino di Catania) che di violenza vera e propria (Abbate, 1987: 298). In alcuni casi si assiste ad una replica compositiva all’interno della stessa opera: è il caso dell’Adorazione dei Pastori di Monreale. La Sacra famiglia, fulcro centrale della tela, viene ripetuta nei personaggi in posa adorante dietro Maria. Il Bambino Gesù sembra essere l’effetto speculare dell’altro infante nelle braccia della donna contadinesca, che ricorda il volto di Maria, mentre, al suo fianco, San Giuseppe mostra le stesse identiche fattezze di un pastore in atto di preghiera di fronte al nuovo nascituro. Lo stesso modello è anche ritratto in una Sacra Famiglia nella collezione Madama di Torino e nel San Domenico di Silos alla Collegiata del SS. Salvatore a Monreale.
Una replica del quadro di Monreale, sicuramente originale (ipotesi sostenuta fermamente da Mansueto Nicosia, 1974: 129-132) si trova nella sagrestia della chiesa dei Cappuccini a Palermo attestando, insieme alle altre repliche (elencate da Nicolson in 11 versioni, di cui una riferita al periodo romano, 8 al periodo napoletano e 2 a quello siciliano – Nicolson, 1977: 245), il successo del tema riportato dallo Stom in Sicilia. Gli “Attori” dello Stom, rivelano una capacità espressiva assai in contrasto con le «scialbe espressioni delle figurine di cera di Honthorst», come sostiene Nicosia (1974: 130): nelle opere realizzate in Sicilia c’è qualcosa di più, Stom esplora un sistema che non si ferma nella qualità formale dei suoi personaggi, ma coglie una profonda penetrazione psicologica che si può scrutare nei volti dei «villani», così definiti da Padre Fedele da San Biagio nel suo trattato Dialoghi Familiari sopra la Pittura nel 1788. Egli non si ferma solo alle soluzioni proposte dagli artisti presi come riferimento della sua epoca, né tanto meno ri-propone un linguaggio ormai “storicizzato”, ma va oltre il naturalismo caravaggesco, per proporre «un naturalismo più epidermico tipico della sua cultura di provenienza» (Zalapì, 1999: 150).
Kubler ebbe a dire nel suo noto testo La forma del tempo che «un’opera d’arte non è semplicemente il residuo di un evento ma anche il segnale di questo, segnale che spingerà altri a ripeterla o a migliorarne la soluzione» (Kubler, 1976: 30). Stom agisce come un artista che cerca di trovare nuove soluzioni indagando su una «pittura ormai all’estremo delle sue possibilità» (Bottari, 1949: 219).
L’artista si muove come un produttore d’immagini, che, avendo già un assetto su come impostare le sue composizioni (avanzando per montaggi), si dedica con maggior voga nel realismo ritrattistico. Si tratta di un realismo non più idilliaco come nel San Sebastiano, oggi al Museo delle Belle Arti di Valencia, o il Tobia e l’Angelo al Bredius Museum, ma verso un’indagine che molto probabilmente in Sicilia riesce a trovare con più facilità: quel che conta è che la sua produzione sia sempre pronta, per ogni evenienza, a soddisfare una clientela, la «società nobiliare e colta, in crisi d’identità per motivi di disagio sociopolitico e di costume nella Sicilia spagnolesca del tempo» (Scuderi, 2000: 268).
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] Pareri discordanti nascono su questa supposizione di un apprendistato presso Honthorst. A. Wurzbach (1905), W.V. Rolfs (1910), C. Matranga (1922) e H. Voss (1908), insistono invece, su una partecipazione nella bottega di Honthorst a Roma, anche se, alla luce dei fatti, bisognerebbe supporre che Stom si trovasse a Roma prima del 1630 e questo non è possibile dimostrarlo in mancanza di documenti certi.
[2] Anche se bisogna considerare, alla luce dei fatti, che molte opere di Stom realizzate in Sicilia ritornavano sulla penisola per soddisfare le richieste di altri collezionisti. Fra le famiglie che mantenevano questo tipo di commercio rientrano i fratelli De Wael, residenti a Genova dal 1620, che diedero vita ad una “colonia” di pittori fiamminghi, ricreando attorno alla loro casa-bottega il modello tipico dell’ambiente di origine. Proprio da Genova impartivano le decisioni per le esportazioni e le importazioni dei dipinti dalla Sicilia, grazie anche i contatti che i De Wael mantenevano tramite Geronimo Gerardi, pittore fiammingo originario di Anversa, presente in Sicilia dal 1620, dove fu attivo per i padri Gesuiti di Palermo, Trapani e Salemi.
[3] Il Sant’Isidoro Agricola è un’opera singolare rispetto a tutto l’iter artistico di Matthias Stom. La tela si divide su due registri: la parte inferiore con il miracolo del Santo, mentre nella parte superiore compare una Madonna sorretta da una nuvola con testine di angeli. Un modo di operare, quello della suddivisione spaziale su due registri, che rimane estraneo nella produzione stomeriana, se non in singoli casi come la pala dell’Assunzione a Chiuduno. In una mia recente analisi, ho potuto dimostrare che la presenza della Madonna è legata al Miracolo della Madonna del Buon Consiglio, tanto cara agli agostiniani scalzi di Caccamo, committenti del quadro all’artista fiammingo (Per un approfondimento dell’argomento si cfr. S. Denaro, Un dipinto di Matthias Stomer per gli Agostiniani Scalzi di Caccamo, in «Percorsi Agostiniani», anno IV, Luglio-Dicembre 2011, Centro Culturale Agostiniano, Roma: 101-115.
[4] Nicolson, infatti, dimostra che le opere realizzate nella capitale sono caratterizzate da «panneggi spiegazzati, colori chiari, incarnati levigati e toni delicati», in B. Nicolson, Caravaggism in Europe, Torino U. Allemandi & C.,1989: 239. Nicolson può considerarsi come l’ultimo biografo dell’artista, ed è proprio grazie a lui che oggi abbiamo il catalogo più vasto delle opere del fiammingo, con l’attribuzione di circa 162 dipinti (anche se basato completamente su un procedimento attributivo) che pubblica nei volumi del Caravaggism in Europe nel 1989.
[5] Questa tesi è rafforzata con maggior ragione, se si pensa che entrambe le tele erano in possesso della collezione di Giuseppe Branciforte Barresi e Santapau, conte di Mazzarino e principe di Butera, dove nell’inventario del 1675 compaiono i due quadri in questione, quindi molto probabilmente realizzate nello stesso lasso di tempo.
Riferimenti bibliografici
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R. Longhi, I pittori della realtà in Francia, in «Italia Letteraria» 1943, ripubblicato in «Paragone» nº 169, 1973: 5-63.
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T. Viscuso, Pittori Fiamminghi nella Sicilia Occidentale al tempo di Pietro Novelli – Nuove acquisizioni documentarie, in Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra tenuta a Palermo, Albergo dei poveri, 10 giugno – 30 ottobre 1990, redazione e coordinamento dei materiali Maria Pia Demma, Palermo, Flaccovio, 1990.
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A. Zalapì, Il soggiorno siciliano di Matthias Stomer tra neostoicismo e “dissenso”., in Vincenzo Abbate (a cura di), in Nuove acquisizioni documentarie sull’ambiente artistico straniero a Palermo, in Porto di Mare 1570-1670: pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero, cat. della mostra tenuta a Palermo e Roma nel 1999-2000, Napoli, Electa, 1999: 150.
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Salvatore Denaro, insegnante e storico dell’arte, esperto d’arte medievale e moderna. Ha conseguito la laurea in Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Palermo con una tesi sull’arte contemporanea “L’estetica delle rovine”. Nel 2009 ha conseguito la laurea specialistica in Storia dell’Arte all’Università di Bologna con una tesi sul caravaggista Matthias Stom. Nel 2019 ha presentato al Mast di Castel Goffredo (MN) un seminario sull’arte contemporanea dal titolo Potevo farlo anch’io: i linguaggi artistici del XX secolo insieme alla critica d’arte Ingrid Strazzeri. Attualmente vive e lavora in Lombardia.
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