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È ora di andare (via dall’antropologia culturale come l’abbiamo praticata)

 

schermata-2022-06-06-alle-14-27-01di Pietro Vereni [*]

Ho partecipato all’incontro per la presentazione del volume curato da Fabiana Dimpflmeier e Matteo Aria (2022) in onore di Alberto Sobrero con il senso del dovere di chi ha un debito. Avevo infatti promesso che avrei contribuito a quel volume con una mia lettura sul “Sobrero polanyiano” (2012) ma per diversi motivi ho prima dilazionato e poi interrotto quel progetto di scrittura. Mi è sembrato dunque doveroso pagare il mio debito intellettuale con una riflessione che cerca di recuperare Alberto dentro le cose che faccio e, più in generale, che fa l’antropologia.

La presentazione, tenutasi il 24 giugno alla Fondazione Lelio e Lisli Basso, è iniziata con un affettuoso ricordo di Susanna, la moglie, di cui mi sono rimasti impressi in particolare due passaggi, uno sulla bellezza della nostalgia, e l’altro in cui veniva ricordata «l’affettività speciale, sempre attenta alla cura e all’ascolto dell’altro» che caratterizzava Alberto. Proprio questo suo atteggiamento affettuoso mi pare il modo migliore e più preciso per ricordarlo, perché ne delinea un tratto che dava sostanza, come vorrei dire, non solo alla sua personalità, ma anche alla sua professionalità di studioso.

Piergiorgio Solinas ha colto l’occasione della presentazione del volume per «riprendere i rapporti e tornare a dialogare con l’amico scomparso». Come anche nel mio caso, Piergiorgio ha ricordato la “generosa attenzione” che Alberto aveva prestato al suo lavoro, pur essendone oggettivamente lontano per temi e interessi.

Il cristallo e la fiamma (Sobrero 2009), ha indicato Solinas, segna un passaggio importante della riflessione di Sobrero, perché indica non tanto una biforcazione, una relazione cioè oppositiva, ma piuttosto una complementarietà circolare, o “un vortice”, due forze che ruotano una intorno all’altra, mentre al centro di tale vortice si pone, forse, un’ipotesi di verità.

81fnmg8jialIl “nostro bisogno di narrare” sembra il punto di intersezione tra queste due dimensioni della vita, ordinaria e scientifica. In quest’ultimo caso, la tensione prende una forma specifica, una tentazione per una scienza del particolare (un tema, facile aggiungere, che ha attanagliato la riflessione delle scienze sociali praticamente dalla loro nascita come campo separato di investigazione e riflessione). Solinas ha suggerito che una risoluzione possibile di questo campo di tensione possa essere una “teologia secolarizzata”, il progetto di Roberto Calasso che impone di occuparsi in modo comunque rigoroso di ciò che è rilevante ma non può essere operazionalizzato in linguaggio matematico. Questo aggancio calassiano ha comunque, dice sempre Solinas, uno sbocco nella “scienza della complessità”, cioè nello sforzo di mantenere ferma la scientificità dell’oggetto (l’economia, ad esempio) articolandone le forme di approccio dentro lo storytelling. Il capitale nel XXI secolo, di Thomas Pickety si legge in effetti “come un romanzo”, e utilizza la figura narrativa di papa Goriot per evidenziare l’attuale peso economico del capitale ereditato, e la conseguente sperequazione sociale che ne deriva.

Per raccontare (!) quel che mi è personalmente rimasto della lezione di Alberto e per come potremmo leggere la sua pulsione a proseguire il cammino della conoscenza “dopo l’antropologia”, vorrei incrociare in queste righe gli appunti che avevo steso per il mio intervento con lo stimolo offerto da Piergiorgio Solinas, in particolare la sua affermazione che «la partecipazione cognitiva può venire solo dal Racconto e dalla Invenzione, intesa etimologicamente come Rinvenimento». In questa affermazione ritrovo infatti molto di quel che credo che Alberto abbia provato a dirci nel suo incessante intreccio tra scienza sociale e letteratura, un lavorio che solo in minima parte si è sovrapposto al vociare un po’ fastidioso della riflessione teorica post-geertziana iniziata con Scrivere le culture.

sobrero-1Direi, in prima istanza, che sarebbe scorretto separare Alberto studioso e ricercatore dall’Alberto amico. Non perché io abbia avuto una frequentazione particolare con lui, anzi. Posso dire che ci siamo appena sfiorati nella stanza 313, tra la laurea e l’inizio del mio dottorato, all’inizio degli anni Novanta. Lui mi fece leggere il dattiloscritto di alcune pagine di Hora de Bai, allora in stesura, e quasi un decennio dopo lo ricordo darmi paterni suggerimenti su come gestire con meno irruenza la numerosa classe di Etnologia europea che avevo quel semestre a Sapienza. Se non posso dire di essere stato un amico di Alberto, posso però dire di aver ricambiato il suo affetto che mi è sembrato, da un certo momento in poi, impregnare tutte le sue pagine di autore, non solo le sue interazioni personali.

Ho sempre seguito con rispetto il suo lavoro, comprendendolo in realtà solo in parte, nel periodo in cui viaggiavo tra Grecia, Irlanda e Balcani e pensavo che l’urgenza del campo venisse prima di qualunque teoria sulla scrittura o sull’antropologia. Con il passare degli anni, e nei nostri pochi incontri, in cui lui non ha mai smesso di mostrarmi quel misto di affetto e considerazione che forse era la sua cifra, ho prestato più attenzione alla sua proposta, a quel suo gestire con crescente disagio i panni dell’antropologo canonico.

Potrei quasi sintetizzare questa impressione dicendo, come ho già provato a fare, che Alberto Sobrero aveva imparato ad essere, nella vita e nella scrittura, sempre più ironico senza essere cinico, mantenendo una sorta di distacco affettuoso verso la vita e verso il suo lavoro, con il Mondo simile a quello di Andrea Zanzotto: uno spazio «un po’ più in là, da lato, da lato», che non poteva accartocciarsi dentro i percorsi biografico-narrativi individuali, un mondo che nello sguardo di Alberto aveva la forza di esistere, nonostante i nostri sforzi per imprigionarlo nel linguaggio: «Mondo, sii, e buono / esisti buonamente» (Zanzotto 1968).

Ma desisto volentieri da questo sforzo descrittivo perché una sintesi per me assai più precisa del progetto culturale di Alberto Sobrero è presentata nel testo che Fabio Dei ha scritto per la raccolta È ora di andare (Dei 2022). Fabio insiste proprio sul fatto che l’attenzione per la letteratura nei lavori di Sobrero non sia mai un cedere incondizionato all’irragionevole letterario, e che Sobrero si sia sempre sforzato di andare «oltre la svolta retorica» come recita il sottotitolo del testo di Fabio. L’affettuoso distacco di Alberto per le sorti della disciplina, dei suoi praticanti e dei suoi oggetti era centrato proprio sul riconoscimento che l’attenzione per la narrazione non è una forma di disimpegno in cui rifugiarsi una volta caduto il mito dell’oggettività scientifica, ma piuttosto un segnale di responsabilità ulteriore, conoscitiva e morale assieme. Alberto esce dall’antropologia attraverso “il narrare” come pilastro portante dell’idea di “letteratura” intesa come progetto di conoscenza:

«Abbracciando una visione ermeneutica delle scienze umane, Sobrero ne legge il discorso come una forma di narrazione, che si pone sullo stesso piano della narrazione letteraria: nel senso che si tratta di forme di attività sociale molto simili, che implicano procedure cognitive analoghe e si pongono analoghi problemi. E dunque possono gettar luce l’una sull’altra» (Dei, 2022: 85).
Alberto Sobrero

Alberto Sobrero

Non inseguirò il filo sottile con cui Fabio dipana questo quadro complicato e mi limito a dire che la sua lettura dell’Ottocento letterario come tutt’altro che razionalista e cinico mi convince moltissimo, il che, semmai, raddoppia la responsabilità dello scientismo nell’impastoiare la tradizione antropologica in quadri epistemologici riduttivi e ingenui fino al giorno d’oggi: se il realismo di Malinowski è più epistemologico che letterario, ecco che il realismo etnografico “scoperto” dai postmoderni con e dopo Writing Culture è più un difetto della nostra prospettiva disciplinare che non un importo del paradigma letterario.

Ma dicevo che non voglio affrontare questo punto, già esaurito nel pezzo di Fabio, e procedo oltre sulla scia delle sollecitazioni del suo testo. Alberto riflette sistematicamente su quanto il parallelismo tra antropologia e letteratura possa essere legittimamente posto per chi fa critica sociale (e non critica letteraria) solo tenendo conto della menzogna etnografica post-conradiana, dato che tutta l’etnografia, forse ancor più quella post-writing culture, si arroga il potere di conoscere il presente in modo assolutamente incontrovertibile, come verità apoditticamente garantita dalla presa a tenaglia dell’etnografia da un lato e dell’ermeneutica dall’altro.

Un ultimo accenno al testo di Fabio può aiutarmi a chiarire da che parte vorrei andare a parare. Fabio prende la scrittura di Alberto come un monito a non cadere nell’indulgenza per il “precategoriale” o, semplificando forse un po’ troppo, il non-razionale:

«Ma la riflessione su questo rapporto [tra cristallo e fiamma] non può disancorarsi da una rigorosa dimensione epistemologica. Mi sembra sia questo il principale insegnamento che Alberto Sobrero ci ha lasciato. Insegnamento tutt’altro che banale, e anzi sempre più spesso disatteso da mode culturali che privilegiano il mito di una ricerca come pura partecipazione, di una scienza sociale come immediato engagement militante, di una scrittura soggettiva come trionfo del Sé narrante. Non è questa l’“antropologia letteraria” che Alberto intendeva lasciarci in eredità» (ivi: 93).

Sono dunque in totale sintonia con questa lettura di Fabio, con un punto teorico che vorrei però enfatizzare pro domo mea. Il rigetto del fascino “precategoriale” del letterario si consolida in Alberto senza cedere mai (grazie appunto al contrafforte del valore conoscitivo del letterario) alla nostalgia di un’epistemologia inconsapevolmente forte (forte cioè della sua debolezza strutturale). Questa epistemologia vacuamente materialista e da tempo imperante riduce paradossalmente il realismo a una postura retorica e costituisce, questo è quel che sostengo, l’altro punto debole della prospettiva di ricerca più attuale. Se da un lato Fabio Dei ci ricorda dunque che Sobrero non aveva simpatie particolari per le prospettive di ricerca imbevute di passione per l’ineffabile, io sono convinto che Alberto ci sostenga anche nel criticare il materialismo spicciolo di troppa etnografia tanto engagée quanto riduzionista nel declinare i rapporti sociali nel flogisto del “potere”, che in finale si riduce a un pianificato e globale predominio economico o al sopruso arbitrario del forte sul debole.

Poco convinto che davvero l’antropologia avesse acquisito strumenti analitici particolarmente raffinati, Alberto era parimenti dubbioso del paradigma indiziario e di quello ermeneutico. Come se l’etnografia canonica fosse un cul-de-sac e Alberto abbia provato a uscirne sia letterariamente sia epistemologicamente, con tutti i dubbi, le false partenze e gli inevitabili ripensamenti che una simile esplorazione non poteva che implicare.

In pratica, mi pare, Alberto ha cercato di uscire dalle ingenuità del realismo etnografico riconoscendo nello spazio della letteratura un impegno alla ricostruzione complessa della verità, un cammino ben diverso dai facili entusiasmi semplificatori che il ripensamento critico-militante dagli anni Settanta aveva generato in molti studiosi. Secondo Fabio, l’eredità di Alberto ci deve proteggere dai rischi di un’antropologia incapace di maneggiare con padronanza le categorie conoscitive ma io credo che il suo pensiero, questo esatto principio di epistemologia ragionevolmente solida, possa essere applicato anche lungo un’altra direttrice, che fa riemergere in altra veste quella “letteratura” cui Alberto si era rivolto per uscire dalle secche conoscitive del malinowskismo come ordine della scrittura etnografica.

In queste note finali, quindi, vorrei provare a percorrere lo stesso movimento di uscita dall’antropologia praticato da Alberto lungo la direttrice del “narrare”, ma questa volta attraverso la porta delle neuroscienze e della psicologia sociale, che vedono la narrazione come rapporto fondamentale, sul piano evolutivo di specie, degli esseri umani con il mondo.

Bryan Boyd era uno dei principali studiosi di Vladimir Nabokov, e colui a cui la vedova Véra aveva chiesto di catalogare l’archivio, prima di pubblicare nel 2009 (non a caso il centocinquantesimo dalla pubblicazione dell’Origine delle specie di Charles Darwin) un volume che misurava la funzione evolutiva dell’arte e della narrazione, in particolare l’evidenza che le nostre menti sono state plasmate dall’evoluzione per comprendere ed elaborare storie (Boyd 2009; cfr. anche Boyd 2018).

61izr3boy9lUn autore che si è confrontato in profondità con questo aspetto è sicuramente l’anziano Robert Bellah, amico di lunga data di Clifford Geertz, che nella sua summa Religion and Human Evolution (2011) dedica diversi capitoli a ragionare se e in che misura la “disposizione religiosa” si possa sovrapporre alla “funzione simbolica”.

Si tratta, addirittura, del weberiano “problema del significato”, che la riflessione post-darwiniana sonda proprio scavando dentro la natura umana dal versante opposto (il narrare come crogiolo dell’umano) da quello da cui è uscito Alberto Sobrero (la letteratura come forma del narrare). Mi rendo conto che si tratta di un terreno non solo fragile ma anche disconnesso e frastagliato, che forse si presta a dare credito a imbonitori del secolo scorso che pensavamo di esserci lasciati alle spalle. Ma proprio la solidità empirica della tradizione d’origine di queste riflessioni potrebbe rassicurare anche Fabio Dei che non sto cercando di entrare, con la scusa di Alberto, nel paese dei lotofagi per diventarne un residente. Il rischio “precategoriale” qui è tenuto a bada, più che da un’epistemologia realista, da una solida metodologia empirica di ricerca. Credo infatti che le neuroscienze comportamentiste e le scienze evolutive abbiano gli anticorpi necessari per evitare tracolli nel baratro, consentendoci di comprendere alcuni meccanismi di base non tanto del nostro modo di “pensare” ma piuttosto di quello di “agire”.

41cocabxvel-_sx379_bo1204203200_Il Joseph Henrich di The Secret of our success (2016) e ancor più il Jordan Peterson di Maps of meanings (1999) rappresentano una esemplificazione di quel che sto provando a inseguire. Peterson, che è nato come studioso di dipendenze e clinico di disfunzioni di personalità, arriva alla narrazione, al senso, a un confronto serrato con il decostruzionismo – e quindi alla necessità di acquisire una postura epistemologica informata quando si studia l’umano in qualunque sua prospettiva – a partire da un’intuizione del tutto comportamentista, con un tono quasi da vecchia scuola. Per il comportamentismo la questione ontologica si pone sempre (evoluzionisticamente, ça va sans dire) come questione funzionale, per cui un ente qualunque interagisce con un altro ente non con finalità cognitive, ma con obiettivi eminentemente pragmatici. Non è la curiosità, insomma, la molla dell’agire, ma piuttosto la practical reason, la funzionalità [1].

9788860306005_0_536_0_75Preso alla lettera ed epistemologicamente sul serio, questo principio ha implicazioni davvero notevoli, dato che trasforma gli oggetti (un bicchiere) in potenziali funzioni (facilitazione del dissetarsi). Come animali, non vediamo “cose” ma piuttosto “obiettivi” e “mezzi” e quindi – ecco il punto – il significato e la narrazione si affacciano ben prima di qualunque strutturazione cognitiva come disposizione conoscitiva. Percepisco la sete, e vedo che quel mio bisogno potrebbe essere soddisfatto in modo efficiente se allungassi la mano, prendessi il contenitore e lo ponessi sotto il flusso dell’acqua corrente prima di portarlo alle mie labbra. Certo, qui il “senso” della cosa coincide con la “funzione”, in una riduzione che possiamo giustificare solo nella sua primitività, ma il senso complesso (per cui lo intendiamo noi raffinati ermeneuti) si affaccia comunque in forma narrativa nella vita ordinaria, ben prima di qualunque curiosità astrattamente filosofica. Le aperture recenti all’antispecismo si possono leggere, almeno in parte, anche come movimenti non tanto per umanizzare o moralizzare la natura, ma piuttosto come forme di uscita dall’eccezionalismo umano, riportando la cultura dentro l’alveo della natura: anche gli esseri umani, come molte altre specie, hanno bisogno di costruire una loro relazione narrativa con il mondo (cfr. ad esempio de Waal 2013).

Ecco, io credo che, come antropologi, abbiamo ancora molto da imparare da questo approccio, che di nuovo ci porta – seppure per altre strade – dalle secche deprimenti del realismo cosista all’umida creatività dell’immaginazione narrativa. Alberto non voleva che questa uscita verso la narrazione avvenisse a discapito del nostro modo strutturato di conoscere, ma credo che una nuova considerazione per gli approcci evolutivi alla vita associata ci mantenga fedeli a quella richiesta, pur consentendoci di affacciarci premurosamente a mondi della vita lontani dal nostro. L’avverbio conclusivo, “premurosamente”, non è casuale. Non ho spazio sufficiente per elaborare quest’idea, ma credo davvero che un’altra eredità che possiamo strappare al ricordo di Alberto sia quella di una disciplina non asettica, non cinica, in cui l’impegno rimanga quello di conoscere il proprio oggetto senza disseccarlo, ma anzi contribuendo con la nostra scrittura, e con la nostra voglia di narrarlo, alla sua vitalità.

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
[*] Il testo che qui si pubblica è rielaborato dalla versione presentata dall’autore in occasione dell’incontro tenuto a Roma il 24 giugno a cura della Fondazione Basso “E’ ora di andare. Dialoghi nell’assenza in onore di Alberto Sobrero”. Sono intervenuti, unitamente a Piero Vereni, Pier Giorgio Solinas, Pietro Clemente, Vincenzo Padiglione, nonché i curatori del volume edito da Cisu, Fabiana Dimpflmeier e Matteo Aria.
Note
[1] A margine, faccio notare come questa dimensione costitutivamente relazionale della realtà (non ci sono oggetti, ma piuttosto interazioni) potrebbe essere più fecondamente esplorata come campo di interconnessione tra scienze sociali (che almeno formalmente sostengono il principio funzional-strutturalista da oltre un secolo) e le scienze dure più avanzate, in particolare la fisica teorica, che nello studio del tempo e della materia è giunta a conclusioni sostanzialmente identiche. Cfr. i lavori di Carlo Rovelli (2014; 2017; 2020) che si sono progressivamente avvicinati a una lettura “umanista” del mondo fisico. Ho provato a indicare alcuni spazi di riflessione su questo tema in un mio lavoro recente (Vereni 2021). 
Riferimenti bibliografici
Bellah, Robert N. 2011, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, Cambridge-New York, Harvard University Press.
Boyd, Brian 2009, On the origin of stories: evolution, cognition, and fiction, Cambridge, Mass., Belknap Press of Harvard University Press.
Boyd Bryan 2018, «The evolution of stories: from mimesis to language, from fact to fiction», WIREs Cognitive Science, 9: e1444. doi: 10.1002/wcs.1444.
Dei, Fabio 2022, «Antropologia e letteratura: oltre la svolta retorica. In memoria di Alberto M. Sobrero», in È ora di andare. Dialoghi nell’assenza in onore di Alberto Sobrero, a cura di Fabiana Dimpflmeier e Matteo Aria, Roma, Cisu: 85-94.
De Waal, Frans 2013, Il bonobo e l’ateo. In cerca di umanità tra i primati, Milano, Raffaello Cortina.
Dimpflmeier, Fabiana, e Matteo Aria (a cura di) 2022. È ora di andare. Dialoghi nell’assenza in onore di Alberto Sobrero, Roma, Cisu.
Henrich, Joseph Patrick 2016, The secret of our success: how culture is driving human evolution, domesticating our species, and making us smarter, Princeton, Princeton University Press.
Peterson, Jordan B. 1999, Maps of meaning: the architecture of belief, New York, Routledge.
Rovelli, Carlo 2014, La realtà non è come ci appare: la struttura elementare delle cose, Milano, Raffaello Cortina.
Rovelli, Carlo 2017, L’ordine del tempo. Milano, Adelphi.
Rovelli, Carlo 2020, Helgoland, Milano, Adelphi.
Sobrero, Alberto 2009, Il cristallo e la fiamma. Antropologia tra scienza e letteratura, Roma, Carocci.
Sobrero, Alberto 2012, «Né questo, né quello. Polanyi riletto», L’Uomo società tradizione sviluppo, 2(1/2): 255-296.
Vereni, Pietro 2021, «Anche Boas è stato a Helgoland. Le scienze sociali e l’audacia epistemologica», Meridiana, 100: 57-75.
Zanzotto, Andrea 1968, La beltà, Milano, Mondadori.

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Piero Vereni, professore associato di Antropologia culturale nell’Università di Roma “Tor Vergata”, insegna «Urban & Global Rome» nel campus romano del Trinity College (Hartford, Connecticut). Dal 2018 è abilitato di prima fascia nel settore M-DEA/01 Discipline Demoetnoantrologiche. Ha effettuato ricerche sul campo sul confine della Macedonia occidentale greca (1995-97) e sul confine irlandese (1998-99). Si è occupato di antropologia politica e delle identità e antropologia dei media, e attualmente conduce ricerche di antropologia economica sulla diaspora della paternità bangladese, sul sistema carcerario in Italia, sulla diversità religiosa a Roma e sulla funzione politica delle occupazioni a scopo abitativo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: “Come si rimane. Diaspore religiose e strategie di permanenza culturale”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Rivista trimestrale, 1/2020. “Il nodo gordiano e il filo di Arianna. La forma dello spazio nella crisi del Covid-19”, in Documenti geografici, 1 (ns), gennaio-giugno 2020. “De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19”, in F. Benincasa e G. de Finis (a cura di), Closed. Il mondo degli umani si è fermato, Roma, Castelvecchi, 2020; Perché l’antropologia ci aiuta a fare politica (e a vivere meglio), Roma, Castelvecchi, 2021.

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