Stampa Articolo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo

 

2560223382911_0_0_424_0_75di Alberto Giovanni Biuso 

Il mare, la morte

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» [1] ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.

Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo. «L’ora della loro nascita è l’ora della loro morte» [2]; «La morte è un modo di essere che intrama l’Esserci da quando c’è» [3].

L’Orcynùs, l’Orca, è la morte. E la morte è dio stesso. Questo è mostrato con molta chiarezza da Fernando Gioviale nel suo Crepuscolo degli uomini, libro che è forse la migliore introduzione che si possa leggere all’opera di D’Arrigo. Gioviale infatti attraversa il mondo di questo scrittore nella maniera più vasta e più profonda. Procede per spostamenti laterali – innumerevoli, eruditi, vivacissimi – i quali però sempre riconducono al centro del capolavoro, tornando ogni volta ai «problemi che un’opera totale solleva» [4].

«Opera assoluta» è infatti Horcynus Orca, «un enorme, totalitario impegno di pensiero e di scrittura» [5] nel quale D’Arrigo ha creato un universo di viaggio, di guerra e di dolore. Viaggio (Odissea) e guerra (Iliade) costituiscono gli archetipi della grande letteratura, che come tali ritornano sempre a indicare, descrivere, consolare il dolore delle creature umane, poiché – davvero – «non c’è niente di più miserevole di tutti gli uomini fra tutti gli esseri / quanti respirano e arrancano sulla faccia della terra» [6]. 

51pdxz4krsl-_sx335_bo1204203200_Omero / Heidegger

Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano.

Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale, nel senso heideggeriano ben individuato da Gioviale: «perché l’occidente che in nome di Hölderlin sarà di Heidegger è il luogo trepido del tramonto del sole» [7].

Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte» (619); sull’evidenza per la quale «se non muoiono, nemmeno nascono, perché dove non c’è fine, non ci può essere principio» (671); sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico: «Si può mai fermare la Morte? Si fermano forse il sole, la luna?» (647); incentrato sul controcanto della luce negli occhi di chi muore perché «dentro era come se ci fosse tramontato il sole» (630); sul venir meno di ogni energia, il progressivo spegnersi della forza, «l’immalinconimento che gli piglia all’uomo quando ormai lo bazzica la morte» (959).

Di questo Sein-zum-Tode è emblema l’orcaferone, il quale trascorre «dall’essere la Morte e passare per immortale all’essere un mortale, a essere morto» (752), è emblema l’Orca che muore «dando morte alla Morte» (1007), è emblema l’orcagna che consiste nella «Morte morta» (1018) [8]. Questo immenso animale, questa entità dal lampeggiare tenebroso e potente, questa «tenebrosità tremenda, terrorizzante, una forma chiusa, impenetrabile, un colore funereo, di nero caldo e rilucente» (620) appare tardi nel romanzo (esattamente a partire da p. 617 delle 1082 che lo compongono nell’edizione Rizzoli del 2003) ma è nascosto nelle pagine in cui ancora non si vede e che tuttavia percorre con il suo essere il mare stesso, la sua oscura vastità, la sua profondità senza cammino.

Lo scilla e cariddi, lo Stretto che taglia il divenire, le correnti nascoste che smuovono questo piccolo e rischioso tratto di mare, come breve e rischioso è il tempo della vita, questo mare insomma che è al di là dei nomi, è sempre l’unico Mare. Mare che sembra a poco a poco, inesorabilmente e dolorosamente convergere nel corpo potente e insieme straziato di Horcynus Orca, «come se il duemari, per Jonio e per Tirreno, si accalcasse tutto sotto l’orcassa, ed era come se l’orcassa stessa fosse mare, duemari, fosse tutti i gorghi e i crateri del mare, la sua sorgente, la sua vena, come se, strabilio a dirsi, il mare rivivesse dalla morte di quell’essere orcinuso, rivivesse cioè a dire, dalla morte della Morte» (955).

9788817093422_0_536_0_75L’Orca, la materia

L’energia e il destino di questa entità immensa, distante e solitaria sono l’energia e il destino della materia stessa, che soffre senza dolore, come soffrono senza dolore, se vengono colpiti, «la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui» (638).

L’Orca è quindi la materia vivente diventata conflitto, violenza e guerra; la guerra che è «cosa catastrofica, anzi non ci può essere cosa più catastrofica, dato che è fatta apposta per ammazzare l’uomo» (646). L’Orca è anche la differenza tra il puro organismo e la vita, perché campare non è vivere, si dissolve ogni dignità nel vivere che si riduce al semplice campare. L’Orca è il tempo del vivente e dell’umano, la sua necessità, il suo andare inevitabile verso la fine, il «senso così potente e meschino di fatalità che si compiva» (770).

Di fronte a una potenza/struttura come questa, che è la vita che è la morte, l’umano appare una volontà di felicità che «non c’è cibo che la possa saziare» (400), che si esprime, manifesta e sfoga in varie forme, tra le quali primario è l’eros, è il sesso, è la potenza linguistica ed erotica di Ciccina Circé, la femminota che aiuta ‘Ndrja Cambrìa ad attraversare lo Stretto tra Calabria e Sicilia di ritorno dagli anni suoi di guerra, una femmina intelligente, astuta, desiderosa di esser posseduta e di possedere, con «il suo lungo, largo petto mammelluto» (288), con «un sorriso, un bagliore dei denti che le tagliò la bocca come uno sfregio agghiacciante» (327); che prende in mano il membro di ‘Ndrja – il suo affarecinese, che è la definizione darrighiana del pene – prima di accoppiarsi con lui, osservando la sua «voglia citrigna» e subito dopo mandando «un sospiro lungo, lamentoso, rabbrividito, come calasse l’anima, prima di calarsene, sprofondare dentro la nicchia di sabbia che s’era scavata sotto le spalle, e lì farsi consumare dal fuoco che lei stessa sbraciò e attizzò più volte, sinché non si ridusse in cenere» (331).

Il corpo è al centro di questo romanzo, proprio perché al centro vi sta la morte. Il corpo è infatti la condizione e il luogo stesso del morire. Ma sino a che è vivo il corpo è energia, è piacere, è relazione che non teme il contatto nonostante l’epidemia alla quale accenna. Nessun distanziamento sociale, poiché «del contagio se ne sarebbe parlato poi: il colera era cosa del momento, la stretta di mano era cosa di sempre, la pestilenza s’originava fuori della persona, la stretta di mano invece, era e sarà sempre cosa incarnata nella persona» (516). Il corpo che ha il suo santuario, la sua festa, il suo spazio sacro nella vulva, quella di Ciccina Circé e quella di ogni femmina, «quel certo cosiddetto nicchio di cui dispone ogni umana cristiana e in cui s’accomoda l’uomo» (563). 

download-7La potenza della femmina

Un nicchio, una vulva, un utero ritornano prepotenti e trasfigurati nella placenta che è la protagonista di una storia del tutto diversa, inventata anni dopo da D’Arrigo. Questo secondo romanzo narra una storia che va dall’Egitto dei Faraoni alla Svezia delle biotecnologie. Il personaggio che dà avvio alla vicenda si chiama Mattia Meli, il quale «non vedendo più riparo alla successione degli eventi ma non sognandosi nemmeno quand’anche avesse potuto, di impedirli» [9] si trova al centro di un divenire che comincia come zigote, si trasforma in embrione, diventa feto, umano, bambino, adulto, vecchio, mortale, moribondo, morente, morto.

Nel grembo materno tutto questo vive per alcuni mesi dentro una sfera, un ambiente, un mondo che si chiama placenta. A tale mondo è dedicato l’intrico di fatti, situazioni e vicende che accadono dal faraone Narmer – il quale 5000 anni prima dell’era volgare scelse la propria mummificata placenta come quarto simbolo della dinastia – a una clinica di Stoccolma dove il chirurgo Belardo costruisce una vagina all’ermafrodito amato da un emiro, il quale vorrebbe edificare nella propria capitale una Placentoteca.

I diversi itinerari della narrazione si dipartono da e convergono in questa parte così unica del corpo di una donna. Vediamone alcuni: una paziente incontrata dal protagonista dentro un ascensore conserva a casa in formalina la placenta di un bambino mai nato; un professore di placentologia muore a causa di una grande delusione professionale, dopo aver dedicato l’intera vita alla Cima delle nobildonne, come lui denomina la placenta in quanto nutrice della vita e delle cose; cima delle nobildonne, ‘Colei che va davanti alle nobili’, era chiamata anche il faraone femmina Hatshepsut, che regno a metà del II millennio portando benefici alla sua terra.

In un intrico di vicende come questo, «la cruda, crudele verità del parlare scientifico» [10] si alterna all’ironia che pervade molte pagine, battute e situazioni; sogni assai tristi che hanno per protagoniste donne «atteggiate in viso a una struggente malinconia, [le quali] spingevano ognuna una carrozzina per neonato senza neonato dentro: rare vittime di rari aborti»[11] si accompagnano alla secchezza di descrizioni chirurgiche ultratecniche.

Il risultato è una inquietante ἱλαροτραγῳδία, uno straniante raccontare che punta dritto alle fonti della vita e della morte e sembra di esse riprodurre anche lo schifo, la malinconia, la materialità. 

9788846921529_0_536_0_75Un lessico arcaico, splendente e magico

Che l’insieme dei fatti e il loro intreccio siano del tutto inverosimili non conta. O conta nell’esatto senso indicato da Stefano D’Arrigo: «Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» [12] poiché i romanzi raccontano di un corpo e di un morire che sono anche atti linguistici. Atti politicamente scorretti. Ciccina è una femminota che si busca la vita nei modi più fantasiosi e più immorali [13]; un omosessuale è «un femminomo», vale a dire «un essere che ha d’uomo e di femmina, ma d’uomo ha solo la figura e di femmina solo la mentalità» (268); i nemici dei soldati italiani in Africa sono «negri» che, «se si mirano bene, si possono ammazzare a tre alla volta» (318).

Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati.

Si abita dunque in un universo nel quale l’abbondanza è arcalamecca, il denaro è fammiridere, i pescatori sono pellisquadre, le donne sono Madrifigliesorellemogliamantizite, il senso che manca della vita è la Nonsenseria. E dove la continuità tra il mare, la morte, l’orca e il sacro è dettata dalla continuità fonica tra barca, bara, arca, orcarca, ara: «Il male, alla finfine, è scegliere la morte contro la vita, che è così corta e passeggera, e non così triste, così miseranda, la vita che si passa sopra una barca, un’arca dentro una bara, varo su varo. La barca della vita si scopre sempre più arca, sempre più bara che va incontro alla morte, la quale è lunga, senza fine e c’è sempre tempo a morirla» (985).

Tale è l’oceano linguistico di D’Arrigo, il mare linguistico dei siciliani, il loro manifestare nel grumo delle parole il nucleo del dolore d’esserci, l’ironia e il disincanto; tale è la generosità e la diffidenza, inseparabili. «Ma a lui ormai era caduta la benda e la verità che vedeva, lo abbagliava. Era vissuto, dunque, per tanti e tanti anni fra gente incognita e trista, stimando persone per bene, d’animo retto e gentile, persone che alla prima occasione s’arriffavano l’amico sano sano, vivo vivo» (514). 

sd-1024x732Il mare della Nonsenseria

Tale è la saggezza millenaria della vanità di ogni cosa, «il mare della Nonsenseria» (968), «un mare lordo di fere nell’inutilità di tutto» (492), un mare che c’era prima degli umani, che rimarrà quando degli umani si sarà persa ogni memoria, un mare che continuerà a diventare ciò che è, ciò che è sempre stato: sostanza e metafora della morte. «E non viveva, continuava a vivere oramai per sempre forse, come viveva per sempre il mare? Si era come rifuso alla grandezza della madrenatura: era forse quella l’immortalità, ora la vedevano, per cui godette fama d’immortale quella stessa dell’oscuro, terribile, misterioso maremagno di ventre che l’aveva generato. La sua visibile forma informe, quell’immensa, tenebrosa, spaventevole massa di carne bombata, lunga dieci, quindici metri, e pesante tonnellate e tonnellate, era l’apparenza, era illusione fatta per gli occhi della mente, la bava che nascondeva l’altra anima, l’anima nera, sterminatrice del mare» (1010).

Horcynus Orca si chiude nel segno da cui era nato, che lo intesse e lo rende esteticamente sublime, proprio nel senso kantiano di qualcosa che attira e che spaventa, che sgomenta perché attrae, che coinvolge perché spaura. E dentro il quale nelle parole finali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare» (1082).

Si sprofonda sino a che il mare della vita e della morte «fu sovra noi richiuso» [14].

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] S. D’Arrigo, Horcynus Orca [1975], Rizzoli, Milano 2003, introduzione di W. Pedullà: 60. I numeri di pagina delle citazioni tratte dal romanzo vengono indicati tra parentesi nel testo.
[2] F.W. Hegel, Logik, in «Sämtliche Werke», Stuttgart 1930, vol. IV: 147 sgg.
[3] M. Heidegger, Sein und Zeit, in «Gesamtausgabe», Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M 1977, vol. 2, § 48: 326.
[4] In F. Gioviale, Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate, postfazione di W. Pedullà, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2009: 235.
[5] Ivi: 39 e 50.
[6] Iliade, XVII, vv. 446-447; trad. di G. Cerri.
[7] F. Gioviale, Crepuscolo degli uomini, cit.: 223.
[8] Nella postfazione a Crepuscolo degli uomini, Walter Pedullà riconosce a Gioviale di essere pervenuto al cuore/nucleo/essenza del romanzo anche per aver mostrato come in Horcynus Orca «si narra in quanti modi reali e simbolici si muore»: 240.
[9] S. D’Arrigo, Cima delle nobildonne, Mondadori, Milano 1985: 201.
[10] Ivi: 84.
[11] Ivi: 123.
[12] Ivi: 163.
[13] A Ciccina è dedicato un episodio circoscritto di Horcynus Orca ma questa donna lo attraversa poi per intero. «Anche per Fernando Gioviale il suo nucleo rovente è il traghettamento notturno di ‘Ndrja, l’incontro con Ciccina Circé, personaggio proteiforme. È una prostituta ma appare anche divinità funebre, sirena, fantasma della madre morta che torna in vita per aiutarlo a raggiungere la casa paterna e l’isola in cui è nato» (W. Pedullà, in Crepuscolo degli uomini, cit.: 243).
[14]  Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto XXVI, v. 142.
 ___________________________________________________________________________
Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra Editore, 2022).

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>