David Bargiacchi, pistoiese classe 1985, insegnante di lettere nell’Istituto Comprensivo «G. Galilei» di Pieve a Nievole, nasce alla poesia con la raccolta Quasi un milione di passi, terzo numero della collana «I Paralleli» di Betti (già preziosa per Il canzoniere per Fabio e altre poesie di Enzo Mazza e Trasalimenti e sogni di Fornaretto Vieri, usciti nel 2021). Dalla Notizia biografica, duplicata nel secondo risvolto di copertina, si apprende altresì che l’esordiente ha studiato filologia moderna all’Università di Firenze, didattica dell’italiano a stranieri all’Università per Stranieri di Siena, e prevenzione della dispersione scolastica all’Università di Perugia. Questo cartaceo profilo si potrebbe, volendo, rimpolpare con la notizia, attingibile in rete, di una relazione a un Corso di Sceneggiatura e Disegno di Fumetti, nell’ambito della mostra La magia del fumetto, tenuta a Quarrata dal 17 al 22 settembre 2019, e con lampi della pagina facebook, mirati a imprese podistiche da Passatore, dilettosi dilemmi sul cambio stagionale della spugna per piatti, notazioni di politica e di costume, opere di volontariato, discorsi di calcio e di pizza, cappelli da coniglio, calembour di timbro zanzaresco («Il giardino dei Pinzi-Continui») e scatti autocelebrativi culminanti nell’istantanea del 4 agosto 2016 (sormontata dalla didascalia «Lungo è il Cammino, ma grande è la meta») che, ritraendo il titolare (barba fluente da eremita, bastone da trekking e zainetto) nella piazza di Santiago di Compostela, ci riporta sulle piste del nostro libro.
Ma l’opera – che ha in esergo, prima di una citazione di Azorín, modulata sul contemplativo «Vivir es ver pasar», i ‘cronotopi’ «Saint-Jean-Pied-de-Port 12/7/2016 – Santiago de Compostela 4/8/2016» – non vuol essere solo il diario ‘pedestre’ di quel leggendario percorso: l’autore ne parla piuttosto, nella Nota che la congeda, come un «resoconto di legami, scaturito da un’urgenza narrativa di gran lunga anteriore alla pianificazione del viaggio», come il «tentativo di fissare alcune ossessioni e alcuni doni che mi sembrava doveroso raccontare attraverso la metafora del viaggio». E il lettore rileva che gli stessi episodi viatori – circoscritti peraltro a due delle quattro sezioni in cui il lavoro è suddiviso (Il cammino del corpo e Il cammino dell’anima, che, dopo il ‘vestibolo’ presidiato dai cinque testi di Pre-, fanno ala a Il cammino del cuore) – non si lasciano esaurire nell’aneddoto o, peggio, nella veduta da cartolina, sono sempre in qualche modo araldi della «pensosa riflessione», del «ragionare sui giorni», della «meditazione lirica sul mondo» evocati, a validare il dantesco «Deh, peregrini, che pensosi andate» del suo titolo, nella partecipe e fine introduzione di Alessandro Fo.
Le riflessioni intorno al viaggio concepito per riflettere, per fare il punto di una vita che ha appena superato una soglia fatidica (nella Nota l’autore segnalerà l’ultimo taglio della barba «prima del compimento del trentesimo compleanno, in modo da portare con me un segno tangibile e tardivo dei miei vent’anni»), si aprono, nel blocchetto preliminare, sulla scia di un altro esergo annodato all’esempio di Azorín («stringhe di caos | contemplo il fluire | di spazio-tempo»), con una serie di interrogativi ‘basici’ sull’incerto statuto della cosa che si vuol fare, sul vacillante dove-quando in cui collocarla, sul caso che la governa, affidandosi, nella chiusa della poesia proemiale (Limina), ai numi tutelari di Orazio (con il «Solo polvere e ombra» che chiama in causa il celeberrimo pulvis et umbra di Carmina IV 7, 16) e Rutilio Namaziano (mediante quel «non dura mai troppo a lungo ciò | che piace senza fine», che invece restituisce, adottando la traduzione che ne ha dato Alessandro Fo, il Nil umquam longum est quod sine fine placet di De reditu I 4): alti garanti del vanitas vanitatum che si ritrova, in forma di nuvola, nel ‘fregio’ della pagina facebook di cui sopra (la vignetta in cui Charlie Brown afferma affranto «Some day, we will all die, Snoopy!» e il suo compagno sorride sornione «True, but on all the other days, we will not»).
Questi ed altri loro apporti sono tutti rubricati e debitamente discussi, insieme all’unico di Sbarbaro (da Taci, anima stanca di godere), al ‘proverbio’ di Pavese e a vari di Gozzano, da Alessandro Fo. Postillando le sue prestigiose postille, si può aggiungere che alla galassia del poeta di Signorina Felicita potrebbero associarsi anche il «gatto addormentato | sulla terrazza al rezzo» di Dopo il temporale (che indirizza al «Supini al rezzo ritmico del panka» di Ketty), l’inciso che, in Limina, svaria sul classico schema a rimalmezzo di Le due strade, Alle soglie, L’amica di nonna Speranza, Il responso («mero avamposto, fronte di difesa, | carne illesa, confine nascosto?») e ancora, diagonalmente, il ricorso a rime care («le poesie di Kipling, | le teorie di Hawking») talvolta combinate con rime per l’orecchio (come nell’elenco che fulmina i divergenti rituali di una coppia: «le mie scarpe da running, | le tue serie-tv, | i bastoni da trekking, | i biglietti “I love you”»), la maschera da provinciale assunta nel sonetto consacrato, a coronare Il cammino del cuore, con l’arra di un verso di Cocotte, alla «mia piccola città» (da pratese adottivo, devo però respingerne, sdegnato, l’impietoso «per te, mia sola amante capricciosa | brucerei Prato e tutta la Calvana»), quella «dizione vicina alla prosa, ovvero – giusta l’etimologia – una oratio “volta in avanti”, prorsa com’è proprio del “cammino”» di cui dottamente discorre Alessandro Fo (e che pare appunto invitarci a una passeggiata fra amici, alla buona, senza formalità), la disinvolta alternanza di alto e basso, quotidiano ed aulico (penso, ad esempio, a Dopo il temporale, dove il toscanismo «sortiamo» è seguito, a breve distanza, dal letterario «doglie»), l’impiego di terminologie scientifiche (oltre allo «spazio-tempo» ripetuto come un mantra e al ventaglio di «stringhe», ne avremo il «Campo vettoriale», l’«equilibrio vettoriale», la «forma di frattale», il «baricentro del solido», il «grafico cartesiano», la «lotteria stocastica», e così via).
Tornando alla zona propedeutica, i suoi accertamenti preventivi, che fanno pensare ai soffici sofismi, ai compassati rovelli dei Peanuts, distribuiscono per così dire le carte della ‘partita del partire’, preparata da cauti sondaggi intorno alla «geografia ludica | di luoghi non mappati», ai «numeri maghi di giocoleria, | verbi servili da equilibrista» chiamati «a unire gli attimi ai luoghi, | i posti usati ai nuovi giorni, | la sabbia alle ere», da nostalgici richiami alla «vita precedente» (con il suo «cibo pronto, ben cotto e caldo» e con l’«asola sicura | delle strade consuete e vuote» insidiata da «sentieri senza coerenza»), da cogitazioni che investono l’efficacia stessa dell’andare (stante «una labile spinta vettoriale | del pianeta intero, | di verso opposto e segno negativo» che «annulla l’arrivo») e la sua infinita suddivisibilità, che può ridurlo a «grandezza infima, | che annulli ogni proporzione reale» (vi si intravede la tartaruga che non sarà mai raggiunta da Achille): un «sillabario di perplessità» (per usare una felice formula di Raffaele Manica) che ha il suo sigillo nel tripartito Del partire, dove le coordinate del tragitto vaporano in «bolla» la cui costante spazio-temporale è «priva di spessore, monade, attante», trasfigurano in «una scena cartonata | e astratta, uno sfondo fittizio», diventano «punto privilegiato | di osservazione dal quale scruto | apodosi e protasi | della grammatica del non-vissuto»; dove lo «zaino calibrato | col minimo ingombro che sia possibile» non potrà contenere l’essenziale, «la massa | degli errori passati», «il vuoto a perdere dei giorni andati»; dove «si sposta il punto | di stasi del reale, | quasi a farsi sfera e quindi appoggio | puntiforme laddove era spigolo», rimettendo «alla ruota del caso», «a scale in minuendo | che scendono al pozzo del potenziale».
Date le premesse, non sorprende che nel settore in buona parte adibito alle impressioni di viaggio (quel Cammino del corpo introdotto da un eccentrico appello alla «Musa della visione | Chimera del riflesso | virginea Ossessione») i ‘disegni dal vero’ siano soverchiati dalla ‘coazione a riflettere’, dal prevalere delle pulsioni speculative, riducendosi al taglio caravaggesco della luce che «entra, lama fredda, dalle persiane» (Saint-Jean-Pied-de-Port, prima della prima notte), alla «Rorida terra nera dilavata, | pestata a morte in nome di dio» e alla «vallata dall’alto del burrone» di Della partenza in un giorno di luglio, di pioggia, alla «pioggia battente | del primo giorno di cammino», ai due ragazzi inglesi che «giocano a carte in un bar di Zubiri» indossando «camicie Oxford celesti» (False partenze), al «patio dell’albergue», «l’insperata verdeggiante oasi | con la fontana e le tartarughe, | celata dalla rozza cancellata», con la sua indimenticabile «signora» (all’anagrafe, Maribel Roncal) che «conosce passi biblici | secondo l’occasione, | con mano consumata | appone timbri sulle credenziali, | parla con tutti in diverse lingue, | spiega, incassa, dispone, | riceve notizie dalla città | (sempre le stesse, da nuove persone)» (Cizur Menor), al «muratore africano» impegnato nel recupero di «una chiesa del Duecento, abbandonata e cadente», alla «strada bianca, erosa, polverosa» che «si allunga come una linea di gesso» (Sull’Alto del Perdón), al già ripreso «gatto addormentato | sulla terrazza al rezzo», e a una provvida panchina «nei pressi di Logroño» (li raggiungerà, nella sezione finale, il magnifico piano-sequenza di Bivalve della fine: «Gli ultimi passi prima di arrivare | sono quasi in discesa | sotto un arco di pietra. | A sinistra si sviluppa la piazza | e in mezzo la chiesa»).
Più delle piacevolezze paesistiche, il nostro pellegrino è poi incline a commemorare, realizzando il suo titolo (variazione, a sua volta, dei versi «dove i passi siano quasi un milione» e «in tutto quasi un milione di passi»), il «tributo forzoso di sangue e tendiniti» accusato nella Nota. Ne avremo pertanto i dazi «al dolore dei legamenti lassi | al torpore delle vesciche, al lutto | atroce e inesorabile del tendine | che gratta la guaina | con stridore di sabbia», ai tendini che «ignorano ancora, | idealisti eretici caduti | nelle mani del braccio secolare, | la lenta tortura del camminare», alla «logica dei tendini, | la metafora pregrammaticale | della carne piagata», ai «piedi doloranti, | poggiati sui bastoni» (e a quelli «che si aprono | scaglie di rosa vivo, | sangue incatramato | che si fonde ai tessuti, | cementato da polvere sottile»), fino al liberatorio (e poeticamente eccelso) «ho pianto via | la polvere, | i calli e le vesciche» di Bivalve della fine.
Ma il cuore del libro restano i pensieri ossedenti, le fantasime, le rêveries che sondano l’enimma del mondo e il rischio di esistervi. Così, restando a Il cammino del corpo, il giorno della partenza potrà divenire «contrazione elastica | di una tela cosmica», un semplice sasso raccolto per via tradire «un nuovo movimento orogenetico», il fiume Arga prefigurare un Minosse in cerca di «carne sempre fresca», la vita abitudinaria farsi «varco, compressione cronotopica», il polveroso sentiero procedere «nel campo dei possibili», i percorsi imbrogliarsi in «fasci | di rette tangenti intersecate», il sangue dei morti sulle strade divenire «fattore di crescita cellulare», e il mare di là dall’orizzonte risolversi in «sabbia di spazio-tempo che ribatte | sulla battigia al frangere dell’onda». Così la notte fomenterà la primordiale paura, «l’istinto che mi vuole nuda preda, | carne ottima per denti aguzzi», mentre la fatica della marcia indurrà da un lato l’illusione di «cambiare forma e diventar verdura», di «protendere al Sole | le foglie verdeggianti, | configgere radici | in guisa di baccanti» (se non di mutarsi in serpente, «che cambia pelle e nasce a nuova vita») e dall’altro il lamento per il degrado «da bipedi a quadrupedi | dai piedi doloranti | poggiati sui bastoni», trovando infine la sua esaustiva formula algebrica: «passi fatti | meno i rimanenti | tutto fratto Dolore, | vero comune denominatore». Il medesimo mood alimenta l’angoscioso onirismo dei testi, uno per ogni sezione, che sembrano fare da colonne portanti del nostro edificio poetico e che sono anticipati, nel Cammino del corpo, dalle due ultime strofe di «Infine si riduce»: «(si alza minaccioso | il livello dell’acqua | e mi vedi andar giù) || nella mia testa la parola “sorte” | da sempre ha soltanto una rima». Il motivo della ‘morte per acqua’ vi è declinato in tre diverse prospettive: quella di un «io» che si vede «nelle gelide acque di un lago | che provavo a sfondare da sotto | una lastra ghiacciata», e poi lentissimamente sciogliersi in «placida figura che quieta | guadagna il fondo e si adagia»; quella di una «tu» che cammina lungo la riva «ignara di quanto stesse avvenendo | a pochi passi, a breve distanza», facendosi, in perfette cadenze, donzella del destino («così talvolta basta una minima | distrazione uno sguardo | rivolto all’altro lato | e la condanna passa in giudicato»); quella di una temibile «Lei», che «ci cammina sempre appresso», mentre noi «osserviamo distratti» con un «tragico errore di parallasse», e che ora malignamente veste per sopprimerci l’elemento primario della vita.
Assistito dal bellissimo esergo «Cosa portò | Ulisse nella sacca? E casa e morte», Il cammino del cuore è un viaggio a ritroso in un piccolo universo privato («le mie pietre miliari, | gli affetti familiari»), occasione di un bilancio forse ancora più pregnante di quello, problematico, da predisporre per il solitario pellegrinaggio al Campo delle Stelle («Ho ancora qualche giorno | prima del consuntivo | prima di redigere il verbale | e dichiarare sciolta la seduta | di questo esecrabile conciliabolo | come unico giocatore al tavolo»). Vi campeggia per prima la figura di In memoriam (forse il nonno paterno, come suggerirebbe la dedica del volume: «in memoriam A. B. (1932 – 2011»), onorata da sei sommesse liriche in forma di haiku (fra cui la stupenda «Offri da bere, | non passare da stupido, | le carte, mescolale») e dalla poesia gozzanianamente avviata dal «mestissimo giorno degli addii», e gozzanianamente protesa al miraggio di «un Ade comodo e casereccio, | quasi a conduzione familiare» (su youtube se ne può godere la consentanea lettura del poeta, e fine dicitore, Lorenzo Monticelli). Vi si affacciano quindi le sembianze di un amore giunto «all’alba del nuovo millennio, | come l’adempimento | di una profezia», che mostra di conseguenza un suo «lato cosmico | capace di piegare | a sé l’orizzonte degli eventi», suscitando una «rilettura del mito orfico» (una inversione di ruoli suggellata dal mirabile «basta che non ti giri» dell’uomo bisognoso di soccorso, esposto al rischio «di farmi ombra, di sfuggire al mondo») e il grazie appeso alla grazia del madrigale: «Più di tutto sono grato alle strade | che da te allontanandomi | a te mi han riportato»; e vi passano, in un girotondo di giorni perduti, «La stupida stagione dei trent’anni» e l’«idiota età di mezzo», la giovinezza ormai andata (i cui «giorni a letto, il riposo lungo» si misurano con il «Verrà la morte (e altro non aggiungo)» che ‘clownizza’ l’adagio di Pavese), e i fotogrammi del tempo che proustianamente persiste: la «storia di rampe | che abbiamo salito | a partire dall’anno | 1992»; l’indimenticata «maglietta arancio»; le mitiche maratone su un imprecisato lungomare (sfide al «coprifuoco | elastico di Anna»); il «giuramento muto» di bambini; il «vuoto sotto il piede | sul cancello chiuso da scavalcare» (in vista del «campino | dove ho imparato poco o niente | sul calcio, | ma tutto sul bestemmiare»); l’«odore caldo-afoso di catrame» di un «21 giugno, solstizio d’estate» ormai divenuto «scoria transuranica del passato».
Sull’alveo tracciato dall’altro bellissimo esergo «Tu “croce”. Io “testa”. | Lanciammo la moneta, | ma uscì “tempo”», Il cammino dell’anima è il rendiconto in cui confluiscono, testimoniando l’accorta architettura del libro, le sorti del pellegrinaggio vero e proprio e del più ampio pellegrinaggio costituito dalla vita sinora trascorsa: inventario sui generis, registrato sul provvisorio e cosparso di quesiti, che nulla risolve e nulla stabilisce, confermando la situazione di stallo della sentenza di Campo vettoriale («La linea di partenza ha inizio | là dove tutto termina»). Ogni partenza è un arrivo, soleva dire il grande Antonio Pizzuto. Il nichilista Bargiacchi, al contrario, sembra dirci che ogni arrivo è una partenza, che la vicenda dell’esistere non porta frutti, non ha significato, che si ricomincia sempre da zero. Ecco allora, in apertura, il Caso che «regola il tutto | verso un finale privo di senso, | nel teatro dell’assurdo galattico», o l’ipotetico dio che «ci guarda dal suo attico | immenso, atarattico, propenso | a far cessare la farsa ex abrupto»; ecco la congettura innescata dall’ineluttabile morte del Sole, l’idea che «qualche audace forma di memoria, | qualche traccia umana | possa incaricarsi | di travalicare lo spazio-tempo | e consegnarci ad altra narrazione, | a un sistema non verbale di storia, | affidarci a livelli entropici | (magari dalla porta di servizio) | di nuovi mondi utopici»: panorama che torna a misurare l’abisso tra l’umano bisogno di raccontarsi, di lasciare letteralmente un segno, e la realtà che gioca a rimpiattino e che, come accade al traguardo di Compostela, «svilisce in parodia», diventa una puntiforme e beffarda (ma al bacio) «metafora enigmistica, | la più calzante, per una via mistica» (vi afferiranno lo spazio-tempo come «costante, dilatata e sospesa, | compresa in parentesi, | sublimata a sfondo narrativo», le decisioni cruciali «nobilitate appena | dalle possibilità narrative», il «divario tra | una decisione sofferta e corriva | e la mera esigenza narrativa», e quel narrare vertiginosamente avvertito come «traccia debole di demarcazione | spazio-tempo compresso e collassato | un tempo spazio-tempo dilatato | memoria colloidale | adesso franta in sintomi e parole»).
La serie delle privilegiate fantasie ‘cosmicomiche’ trova qui copioso seguito: una divagazione su pianeti abitabili che alimentano il «sogno primario dell’eternità»; il quadrittico i cui titoli inseguono il quam minimum credula postero di Carmina I 11, 8 (e dove alla insensata tirannia di Crono saranno di volta in volta opposti un posizionamento «sopra la traiettoria dell’ellittica», la via di fuga in «multiversi a noi prossimi», l’«asse inclinato dell’oblio», la consapevolezza «di non aver vissuto | nessun tempo» e che «il presente sa di fregatura», nonché l’invito, ispirato da Carmina I 9 e I 11, a resistere «a questo ingrato inverno»); l’encomio della «massa atomica del contingente | il ricordo presente, | trascendente qualsiasi spazio-tempo» (e la conseguente ‘sepoltura’ della morte «che si fa fatto reale | soltanto nell’oblìo»); il dubbio di consistere «solo in una stringa trasmissibile», quando non «solo fra le righe | nel divario che creano le parole»; la contemplazione di un viaggio che si rivela (in una delle poesie più compiute, quella che inizia «Come le particelle») «poco più | di un’oscillazione, | onda piana, sistema lineare, | riconducibile a un’equazione | di cui ho conosciuto ventre e cresta | prima di frangermi sulla battigia | scomparendo in schiuma sulla sabbia».
Un viaggio aleatorio la cui conclusione è comunque festeggiata nelle ultime cinque poesie: la detta Bivalve della fine (il suo secondo segmento vedrà anche rivivere «le cellule ormai morte, i giorni tesi»); «L’ultima sera prima di partire» (gemella di Saint-Jean-Pied-de-Port, prima della prima notte»), che reca nel bagaglio l’«imperativo d’obbligo, | preghiera senza dio, | magari a un dio del caso, | che vuole che “presente” | rimi con “contingente”»; l’aereo epigramma che sorvola il ritorno con allegria da naufragio («Che aspetti infine all’aeroporto? | Il nuovo me che ha la barba corta, | o il solito cliché | del vecchio io che è morto?»); e la poesia terminale che – tornando a echeggiare nell’incipit («Quando questi miei occhi | si chiuderanno per sempre sul mondo») il desolato verso di Pavese – si apre, nel chiudersi, a una moderata e metaletteraria fiducia sui passi «da sospingere avanti | purché il fine abbia sempre un verso | perché verso la fine, | un verso è il nuovo inizio».
Con il suo occhieggiare, e in posizione eminente, a virtuosismi di provenzale memoria, questo epilogo ribadisce l’appartenenza alla tradizione ‘nobile’, attesa al culto della parola e al rigore della forma, rappresentata dalla rete di allusioni già accennate, e cui pure si riconducono le «attente scelte di ritmo» e gli «apparentamenti acustici» (fra i quali si distingue l’uso ripetuto di rime interne e derivative) colti da Alessandro Fo insieme al caso emblematico del verso «e scale e scale e scale di pietraie» (in Della partenza in un giorno di luglio, di pioggia) che, dislocato su tre livelli, si fa «icona» del suo significato. Spie di una devozione profonda (e di lunga durata), queste finezze sono però offerte con sobrietà tutta toscana, e con un piglio scanzonato e ‘sportivo’ che verrebbe da definire ‘generazionale’: il ‘mordi e fuggi’ di una leva che ha fatto di precariato virtù, del disincanto bandiera; che vede nel mondo una giostra di parvenze paritarie, ugualmente effimere e ugualmente essenziali (distese, per dirlo in rima, fra la più lontana costellazione e la quotidiana colazione), e nell’attimo fuggente il più ambito dei beni; e che, per sua e nostra fortuna, si è almeno immunizzata da ogni prosopopea e supponenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
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